C’è stato un tempo in cui Roma era il centro del mondo. Lo dice anche Leo Anibaldi nell’intervista qui sotto, lui che è stato uno dei principali artefici di quel “Sound of Rome” che tra il ’90 e il ’94 ha portato all’attenzione internazionale un modo di suonare musica techno, anzi sarebbe più corretto definirla musica elettronica in senso lato, al servizio di una visione peculiare, non debitrice ad alcun cliché. Era anche il tempo dei primi rave party della capitale, quelli dove a contare era la musica e non chi sedeva dietro la console, dove i personalismi erano asserviti alla ricerca sonora. Durò poco, ma testimonianze importanti sono rimaste nei solchi di dischi come “Muta” – il secondo lavoro lungo firmato proprio da Leo Anibaldi – oggetto di recente ristampa di lusso della Lost In It, e nei ricordi di chi quel tempo l’ha vissuto sulla propria pelle. Quello che segue è un piccolo compendio per chiunque ne sappia poco, ma anche per tutti coloro che, semplicemente, sono curiosi di sentire la storia vissuta dall’altra parte del mixer.
Mi piacerebbe partire da Leo Anibaldi piccino. Come ti sei avvicinato alla musica? Intendo prima di tutto da ascoltatore.
Come saprai mio padre è un noto musicista, all’inizio degli anni ’60 era il primo batterista di Adriano Celentano, quindi sono sempre stato in mezzo ai musicisti e alle performance musicali che si organizzavano a casa. La mia passione è nata così, molto naturalmente, probabilmente ce l’avevo già nel sangue. Ho avuto una buona educazione musicale proprio a casa, mio padre mi faceva ascoltare ciò che lui riteneva importante al tempo e ricordo che anche quando studiava le percussioni mi chiamava per mostrarmi ciò che stava apprendendo.
Immagino quanto un ragazzino possa essere attratto dalle percussioni!
Moltissimo. Infatti c’è stato fin da subito un approccio diretto con gli strumenti, che cercavo di suonare emulando mio padre. Col passare del tempo compresi di avere un orecchio assoluto e questo mi ha aiutato da ragazzino a capire meglio ciò che ascoltavo e continua ad aiutarmi tutt’oggi nell’approccio musicale. Tornando alle percussioni, che sono state il mio primo amore, devo dirti che ho sempre trovato del tutto naturale suonarle, e anche quando le ho studiate più in là negli anni, ho ritrovato elementi che in qualche maniera avevo capito o, per meglio dire, mi erano familiari.
Oltre all’attività di tuo padre, cosa si ascoltava in casa?
Ricordo molto bene che papà metteva sul piatto i dischi degli anni ’70 di Miles Davis, John Coltrane, Al Green, James Brown, non era proprio la musica adatta ad un bambino di sette o otto anni, però mi piaceva.
Come ti sei avvicinato, invece, ai suoni elettronici?
Mio padre mi comprò uno dei primi “home computer”, come li chiamavamo allora, era il Commodore VIC-20. Avevo quindici anni e non ero molto interessato ai videogiochi, e pensando che si trattasse di qualcosa del genere inizialmente non lo usai nemmeno. Poi, quasi per caso, scoprii che c’era un programma all’interno di quel Commodore che funzionava un po’ come una vera orchestra, si potevano far suonare diversi strumenti, trasformando la macchina in un sequencer. Ci misi un po’ a capire il software che lo gestiva, dentro c’erano anche dei suoni creati appositamente dalla CPU, che poi vennero utilizzati per realizzare ottime batterie elettroniche che sono ancora attuali. E’ così che realizzai i miei primi groove, non riuscivo a credere di poter disporre di un’intera orchestra dentro al VIC-20 o di poter gestire liberamente tutti quei suoni attraverso un computer a forma di tastiera.
Mi immagino te e tuo padre piegati sul VIC-20 a cercare di far funzionare questa nuova macchina.
In realtà mio padre non ci è mai entrato dentro più di tanto in questa nuova realtà fatta di computer e di suoni elettronici. Rimaneva più in disparte, mentre io mi mantenevo al passo con la tecnologia, a tal punto che ebbi una vera e propria mania nei riguardi dei sintetizzatori. Dovevo averti tutti, e li comprai tutti.
Davvero?
Sì, impazzii letteralmente quando scoprii la sintesi modulare analogica, che studiai a fondo. Si tratta della creazione di suoni utilizzando esclusivamente le onde generate da sintetizzatori modulari, che ti permettono di generare, a seconda delle amplissime connessioni disponibili, qualunque tipo di suono: dal cinguettio degli uccelli al rumore del vento o del mare, passando per i timbri di basso e batteria. Entrai in fissa e divenni un compratore seriale di moduli.
Quando ti sei sentito pronto a rendere pubbliche le tue produzioni elettroniche?
Successe tutto quando capii che ciò che facevo aveva raggiunto un buon livello e il pubblico apprezzava le mie esibizioni. Ho avuto la fortuna di iniziare da molto giovane a esibirmi, avendo acquisito una buona tecnica di mixaggio, sempre grazie all’ambiente famigliare di cui ti ho parlato. A diciassette anni o giù di lì suonavo già nei migliori locali romani.
Con quale macchine elettroniche suonavi a quei tempi?
Usavo una piccola tastiera-campionatore che si chiamava Roland F-50, uno dei primi campionatori in commercio, assieme alla Casio FZ-1. Entrambe le macchine avevano solo un paio di megabyte di memoria, che garantivano appena sette/otto secondi di suoni continui. Suonavo con queste macchine per esempio al Much More, uno dei locali più belli di Roma, e lo facevo già con un ingaggio regolare. La sera suonavo e la mattina andavo a scuola, certe volte non dormivo proprio.
In che momento sono arrivati i piatti e la strumentazione da dj?
E’ nato tutto simultaneamente. Ho appreso l’arte del mixaggio sempre da mio padre. Avevamo a casa due piatti L75 della Lenco e uno dei primi mixer della Karma. Per me è stata subito passione totale!
Che aria si respirava nei club romani a quei tempi?
Quando ho iniziato a proporre un certo tipo di suono, assieme ad alcuni miei amici, non tutti i club erano disposti a farci suonare. Andava per la maggiore la musica disco, quella del revival anni ’70, quindi una roba molto più commerciale. A me invece piaceva altro, per esempio la musica di Marco Trani, che a ragion veduta era considerato in certi ambienti il re dei dj. Ricordo che da ragazzino rimasi impressionato dalla sua musica, dai suoi lunghi pezzi strumentali che anticipavano la techno e la house di oggi.
E’ attraverso la tua attività dal vivo sei entrato in contatto con la ACV Records (allora si chiamava ACD Sound) che ha prodotto i tuoi primi dischi?
Sì, ricevetti diverse proposte e accettai quella dell’allora ACD Sound. Posso aggiungere al racconto il fatto che frequentavo assiduamente l’ambiente musicale romano, anche da semplice ascoltatore. Pure non volendo mi si notava: perché non ballavo mai, ma ero attaccato alla console a guardare come le persone più grandi di me gestivano le cose. Passavo nei locali del centro la maggior parte del tempo. Perciò, quando ho deciso di mettermi in gioco dando alle stampe una mia produzione, non ho faticato a trovare l’etichetta giusta. Ai tempi del mio primo disco lungo “Cannibald – The Virtual Language” il movimento della techno romana e quello dei rave era il centro del mondo!
Erano i primi anni ’90 a Roma. Davvero il centro del mondo come hai detto tu. Raccontaceli meglio quegli anni.
Sono stati anni incredibili! Tutto è iniziato grazie ad alcuni organizzatori che hanno avuto l’intuito e soprattutto il coraggio di fare alcuni eventi a Roma. Ricordo che Chicco Furlotti fu il primo in assoluto che organizzò un mega rave a Roma, dove si esibì, tra gli altri, Mauro Tannino che purtroppo oggi non è più tra noi. Il movimento rave è nato così, assieme a quello della techno romana del quale facevo parte. A quei tempi tutti i dj volevano suonare a Roma, un po’ come accade oggi con Berlino. Ma i rave non erano ciò che oggi si può immaginare, ovvero qualcosa di sporco e approssimativo, nei primi anni novanta fino almeno al ’93-’94 erano macchine organizzatissime e se ne facevano anche due a settimana, in location segrete che venivano svelate solo all’ultimo. Ti parlo di rave party con più di ventimila partecipanti a serata, che spostavano a Roma gente da tutta Italia.
Come si è potuta disperdete tutta questa creatività? A un certo punto la scena si è disgregata.
Durò tutto per pochi anni. I motivi sono tanti, ma credo che il fattore economico abbia influito più di tutti gli altri. I primi rave romani erano fenomenali, ricordo che qualcosa di simile succedeva solo in Toscana, ma nulla a che vedere con la portata romana. C’era una passione autentica e il centro del discorso era la musica. Con il passare degli anni i rave party divennero solo una moda, iniziarono ad essere organizzati da persone estranee all’ambiente, se ne facevano addirittura tre nella sola giornata del sabato, giusto per fare soldi, in posti fatiscenti e senza curarsi minimamente della proposta artistica. Fu l’inizio della fine. A questo posso aggiungere che iniziarono a partecipare anche persone conciate come naziskin, con svastiche ovunque, che il più delle volte venivano solo per fare a botte. In poco tempo nessuno partecipava più e si passò da ventimila presenze a poco più di mille.
Parlaci invece del mitico movimento techno chiamato “The Sound of Rome” del quale facevi parte.
Tutto ciò che riguarda “The Sound of Rome” nasce in modo del tutto underground, senza alcuna velleità di successo. Eravamo quattro ragazzi, Andrea Benedetti, Lory D, Eugenio Vatta ed io. Ci vedevamo tutti i giorni in un garage per produrre musica techno. Non andavamo certo in giro a vantarci per far sapere che eravamo noi il “suono di Roma”, semplicemente facevamo le nostre cose e a un certo punto quelle cose ebbero risonanza internazionale. Ricordo che facevamo ricerca sonora, nessuna droga o cose così, a mente lucida ci si incontrava per capire fino in fondo le macchine che avevamo e come la nostra sensibilità poteva tirar fuori il meglio da esse. Ascoltavamo musica e parlavamo di suono, come mixare la kick, dove piazzare un rullante, come realizzare al meglio un groove… abbiamo anche stravolto alcuni usi comuni di allora, per esempio se senti le nostre produzioni non c’è mai un hi-hat in levare, che andava per la maggiore nelle produzioni house del tempo.
Anno 1993: esce il tuo “Muta”. Un disco a dir poco seminale che è stato oggetto di recentissima ristampa di lusso dalla Lost In It. Ancora oggi suona alieno. Com’è nato quel disco?
“Muta” è nato dalla solitudine estrema. Devo confessarti che di natura sono un tipo molto solitario e quel disco è venuto fuori in un periodo di creatività in cui mi ero imposto di non avere alcun contatto con l’esterno. Quando produco mi piace isolarmi e lavorare assiduamente sulle mie cose, senza ascoltare nient’altro. Anche allora mi sono isolato e circondato di tutti i miei strumenti: dai sintetizzatori alle batterie, passando per effetti vari. In particolare usai quattro System 100 M della Roland, che sono dei sintetizzatori modulari incredibili, dai quali, tra l’altro, sono state poi prese le matrici per realizzare i suoni percussivi della TR-808 e TR-909. Inoltre usai anche molto la mia voce nel disco, opportunamente campionata e distorta, perché mi piaceva l’idea di metterci dentro dei suoni solo miei, provenienti dalla mia sfera privata. Volevo creare qualcosa di diverso rispetto a tutto ciò che la gente ascoltava al tempo, e credo di esserci riuscito.
Come mai il disco si chiama “Muta”? Poi mi piacerebbe avere anche qualche notizia sulla bellissima immagine di copertina.
Ci sono diverse ragioni per cui ho scelto il titolo “Muta”. Da un lato mi piaceva l’idea che l’ascoltatore si sentisse trasportato da un’altra parte, come se indossasse una muta da sub per immergersi in quei suoni. Poi volevo proporre un disco che suggerisse delle sensazioni, senza esprimerle direttamente attraverso la parola, come se il lavoro fosse consigliato da una persona muta. Sul lavoro grafico c’è da fare un discorso a parte: al tempo avevo una persona molto in gamba che realizzava per me delle vere e proprie opere d’arte. Tutte le immagini contenute nel disco, dalla copertina agli inserti, sono quadri che conservo gelosamente in casa ad opera di Daniela Fusco. Colgo qui anche l’occasione per ringraziare Ivo D’Antoni e la sua Lost In It per l’eccezionale opera di ristampa del disco, che valorizza ancora di più l’artwork.
Al tempo di “Muta” quali suoni provenivano dall’estero? La scena della della Warp immagino che avesse già una grande risonanza anche in Italia.
Avevo un solo riferimento in ambito internazionale: Aphex Twin. Tutto il resto mi interessava meno, per me c’era solo lui con cui fare i conti. Ebbi modo anche di conoscerlo e di fare dei tour assieme e posso garantirti che merita l’appellativo di genio.
Il tuo terzo disco, “Void”, venne dato alle stampe proprio dalla Rephlex, l’etichetta di Aphex Twin.
Sì, ricordo che conobbi Aphex Twin a Londra, in una serata in cui mi sarei esibito per presentare il mio primo disco “Cannibald – The Virtual Language”. Era assieme a Richie Hawtin. Rimanemmo in contatto e quattro anni dopo mi chiamò di persona per propormi di incidere un disco per la Rephlex. Naturalmente accettai subito, non immagini la mia felicità!
Si parla spesso di te come uno dei principali artefici della scena techno romana, eppure le tue produzioni non si sono mai limitate a un genere preciso. Sono assai meticce. Per esempio quanto era importante per te l’industrial?
Non mi piace ripetermi. In ogni mio disco c’è una visione particolare, legata al tempo in cui l’ho prodotto a elle sensazioni che provavo di volta in volta. Per me la musica industriale è stata incredibilmente importante, mi ha fatto capire che si poteva avere la libertà totale nei confronti della propria musica. Band come i Coil oppure i Throbbing Gristle mi hanno molto influenzato. Erano gruppi che nei loro dischi inserivano campioni dalle fonti più disparate, se non sbaglio in un lavoro dei Coil è stato campionato addirittura il lamento di un maiale.
Qual è l’ultimo disco che hai messo sul piatto?
Recentemente sto ascoltando un produttore che si chiama Dave Tipper. La sua musica elettronica mi piace perché non fornisce coordinate certe e non sai mai cosa aspettarti da lui.
Nuovo materiale in arrivo?
Sì, è da circa un anno che sto lavorando ad un nuovo disco. Ci saranno dentro cose differenti rispetto a quelle a cui siete abituati. Come ti ho detto mi piace fare cose sempre diverse. Non suonerà né troppo sperimentale né psichedelico, sto producendo tante melodie fatte con strumenti veri, utilizzando per esempio delle campane indiane e facendole suonare in luoghi che garantiscono un riverbero naturale. Manca ancora un po’, ma arriverà.