La storia (se qualcuno ancora non la conoscesse) è raccontata nell’esilarante libro “Prima pagare, poi ricordare” del fondatore di “Cannibale” e “Frigidaire” Filippo Scòzzari. Nella primavera del 1976, in una Bologna ancora ignara dei disordini che sarebbero scoppiati in città da lì a un anno, viene occupata la “Traumfabrik”, un appartamento al primo piano di via Clavature 20 ispirato alla Factory di Warhol che per i sei anni a seguire rappresenterà lo studio e il crocevia di maestri del fumetto come lo stesso Scòzzari, Andrea Pazienza, Stefano Tamburini, nonché di altri talentuosi scrittori, registi, videomaker e musicisti. È proprio qui, che l’anno seguente, come evoluzione di quel Centro d’Urlo Metropolitano, esibitisi con l’esplosiva “Mamma dammi la benza!” durante le giornate del Convegno contro la repressione del ’77, nascono i Gaznevada. L’incredibile gruppo di alieni che, partiti da Bologna insieme a Hi-Fi Bros, Stupid Set, Confusional Quartet, Windopen e altre formazioni locali sino a poco prima sconosciute, divennero fra i protagonisti di quella piccola, grande rivoluzione nella storia della musica indipendente che, a cavallo fra gli anni ’70 e ’80, cambiò il volto del rock italiano. Una rivoluzione che i Gaz attuarono prima importando e mutuando l’attitudine e l’irruenza del punk rock dei Ramones, e quindi facendo propria l’urgenza di sperimentazione della scena post punk e no wave statunitense e britannica. Suicide, Talking Heads, Devo, Contorsions, Brian Eno sono le band e gli artisti dal cui serbatoio gli “Invincible Guardians of Freedom” attinsero per poi rielaborarne le sonorità in modo assolutamente personale, contaminandole con il loro broken english e le loro appassionate letture e visioni condivise di fumetti, sci-fi movies e noir americani, cimentandosi inoltre in sperimentazioni elettroniche avanti anni luce per una scena musicale allora dominata dai cantautori. Così nasce la pietra miliare della new wave italiana, “Sick Soundtrack”, il debutto dei Gaznevada su LP, datato (sembra incredibile!) 1980 che, in occasione del suo quarantennale, è stato rimasterizzato e ristampato dalla Expanded Music di Giovanni Natale, cofondatore della Italian Records con lo storico produttore dei Gaz, Oderso Rubini.
Sino ad oggi praticamente introvabile, quello che è considerato il capolavoro della band è infine disponibile in versione standard e in un’edizione limitata andata ormai esaurita: 150 copie numerate in vinile marmorizzato bianco con allegato il 7 pollici “I See My Baby Standing on a Plane” di Billy Blade and the Electric Razors, side project della band. Un oggetto da collezione, la cui grafica e il cui packaging rimangono fedeli a quelle del disco originale (incluso il divertissement ottico e le sei “Polaroid” di band e produttore all’interno del disco), al quale il 31 gennaio seguirà la pubblicazione su vinile della la prima dissacrante cassettina dei Gaznevada, datata 1979.
Da qui il piacevole pretesto per una videointervista con Ciro Pagano (E. Robert Squibb/chitarra), Marco Bongiovanni (Chainsaw Sally/basso) e Giorgio Lavagna (Andy Nevada/voce ed electronics). Una lunga chiacchierata informale che parte dagli esordi, col Centro d’Urlo Metropolitano, per arrivare ai giorni nostri, e che via via si è arricchita di preziosi aneddoti riguardanti quella che, all’epoca dell’uscita di “Sick Soundtrack”, venne definita dalla stampa “La migliore rock band italiana“.
Ditemi voi. Iniziamo?
Ciro: Ma sì iniziamo, Giorgio ci raggiunge appena terminato il suo impegno, tanto mica diciamo cose false. Avremo solo ricordi diversi immagino… L’unica cosa di queste interviste “a più Gaz” è che ognuno ha i suoi.
Ok, allora partiamo dal principio. Prima della Traumfabrik, l’appartamento occupato a due passi da Piazza Maggiore, attorno al quale gravitavate insieme al nucleo fondatore di “Cannibale” ma anche a Pazienza e al gruppo di videomaker Grabinski (Renato De Maria ed Emanuele Angiuli), esisteva già un’amicizia fra voi?
Ciro: Allora, Sandro Raffini (Billy Blade/sax, farfisa, organo, voce) lo frequentavo dal liceo e anche Marco Dondini (Bat Matic/batteria), perché avevamo una band con cui facevamo un rock progressivo, però parliamo del ’75. Poi ci siamo incontrati e rincontrati tutti a fine ’76 in via Clavature.
Dove nel ’77 nasce il Centro d’Urlo Metropolitano…
Ciro: Già, con l’urlo iconoclasta di “Mamma dammi la benza”, quell’episodio che accenderà la scintilla del rock demenziale che poi prenderà piede bene con i grandi Skiantos di Freak Antoni e che venne incisa per “Sarabanda”, una cassetta di Radio Alice, prodotta dal movimento studentesco, ma immagino le saprai ste cose. Poi fino al ’79 eravamo orfani di bassista finché finalmente non è arrivato Marco che portai io all’interno della band. Sì, ho io questa responsabilità (sorride, NdI).
Certo, ma tu Marco, anche se sei arrivato dopo, l’hai vissuta un po’ la Traumfabrik, vero?
Marco: Mah, l’ultimo periodo. Allora, io in poche parole sono un ragazzo di campagna, perché abito a San Giovanni in Persiceto. Durante gli anni dei vari movimenti studenteschi comunque studiavo a Bologna, quindi magari gli altri non li conoscevo però sicuramente ci saremo incontrati tante volte per strada, perché gli studenti erano tutti in strada in quel periodo. All’epoca suonavo in una band del paesello. Un amico mi ha detto “Guarda che ci sono i Gaz che stanno cercando un bassista” e mi ha messo in contatto con Ciro. Ecco qui.
Ciro, l’unica volta appunto in cui cantaste “Mamma dammi la benza!” dal vivo fu durante la tre giorni del Convegno contro la repressione nel settembre del ’77 e, come ricordavi, la cassetta di Radio Alice venne prodotta dal movimento studentesco. Quanto effettivamente vi riconoscevate nelle istanze dei movimenti politici all’epoca?
Ciro: Sì, il movimento studentesco si adoperò per fare delle collette per stamparla, però il movimento studentesco è una cosa un po’ controversa per i Gaznevada e anche per la Traumfabrik, perché in realtà noi eravamo molto legati alla creatività… Il nostro punto di riferimento era la Factory di Warhol. Quello a cui miravamo era ciò che succedeva a New York e questo ci ha preservato anche da problemi enormi, lotte armate, casini. Certo, alla Traumfabrik come Gaznevada, eravamo un po’ penalizzati perché ovviamente lì non si poteva suonare, se non con le chitarre acustiche o ascoltando i Ramones e i vari dischi, ma questo era, eravamo all’interno di questa casa occupata in centro dove giravano Pazienza, Scòzzari, tutti questi personaggi… Di sicuro facevamo più riunioni alla Traumfabrik a parlare d’arte che non assemblee del movimento.
Il nome Gaznevada, si sa, è stato ispirato dal racconto “Nevada Gas” di Raymond Chandler. Ci sono tuttavia versioni che ne attribuiscono la paternità a Raffini, altre a Giorgio e Gianluca Galliani (Nico Gamma/tastiere, che si è spento nel luglio del 2019)…
Ciro: Gaznevada nasce da un viaggio londinese che fecero Giorgio e Bat Matic, che tornarono cancellando completamente il nome Centro d’Urlo Metropolitano, dicendo “Non si può usare un nome così per fare del punk o del rock, dobbiamo trovare tutt’altro nome!“. La mia versione è che Chandler girava in Clavature grazie a Sandro, che era un accanito lettore di romanzi gialli. Sicuramente tutti poi leggevamo e ascoltavamo tutto quello che circolava là dentro. Ad esempio, la famosa z aggiunta di Gaznevada, viene fuori dalla Sandra, che non c’è più purtroppo e che era la ragazza di Giorgio. Fu lei che propose questo cambio, perché lì dentro tutto veniva condiviso. Sai, chi l’ha proposto… è stato accettato un po’ da tutti. Quel nome è frutto di grandi litigi, di grandi scontri, come tutta la creatività dei Gaznevada del resto.
Marco: Comunque è stata una grande idea cambiare nome, perché Centro d’Urlo Metropolitano era veramente improponibile (ride, NdI).
Ciro: Eh, poi sì, si prestava a una rima terribile… che evito di riferire.
Però era un nome che calzava a pennello con quel momento storico di rivolta, di volontà di dissociarsi da tutto quello che era stato fino ad allora. Sottolineava la possibilità di potersi esprimere, era legato a quel momento lì. Comunque sicuramente non era bello Marco, hai ragione.
Mi domando, all’interno della Traumfabrik c’erano dei momenti di riunione fra i Gaznevada in cui c’era magari qualcuno che dava delle linee guida, delle idee sulla direzione in cui andare?
Ciro: Eh, manca Giorgio che è l’interprete di questo. Ora provo a chiamarlo per vedere se ha finito…
Ciro (mette giù il telefono): Giorgio si scusa, dice che ora ci raggiunge.
Marco: Questa cosa di Giorgio fa ridere però, mi fa ricordare le incazzature quando facevamo le prove ai tempi, perché erano tutti sempre in ritardo, ma non di un quarto d’ora, anche di ore.
(poco dopo Giorgio si collega)
Bene, allora Giorgio, ai tempi c’era qualcuno fra voi che dava una direzione?
Giorgio: No, litigavamo! (Si alza e se ne va in un’altra stanza, NdI).
Ciro: Bè, però grazie al litigio venivano fuori cose abbastanza creative.
Intendo, non c’era, oltre al produttore, chi diceva “Dovremmo provare questo suono, inserire questo strumento“… Ad esempio, sei tu Giorgio che portasti i sintetizzatori all’interno della band, già dai tempi di “Nevadagaz” e della cassettina del ’79, no?
Giorgio (nuovamente fra noi): Sì, io! Poi me ne pentii… Io mi ricordo l’inizio, durante le prove dissi a Ciro: “Io vorrei fare il gruppo più peso del mondo” e lui disse “No, io vorrei fare un gruppo di rock non troppo peso“, dopo facemmo “Criminale”.
(risate)
“Criminale”, con quei chitarroni alla Ramones, ha un attacco che mi ricorda molto quello di “Your Phone’s Off the Hook But You’re Not” degli X…
Giorgio: Sì, ma quella è uscita dopo.
Ciro (contemporaneamente): E quando è uscita, prima?
No, dice bene Giorgio, è uscita l’anno dopo.
Ciro: E allora facciamogli causa!
Giorgio: Bè, diciamo che non è proprio l’attacco più originale della storia del rock!
Ciro: Comunque gli X non li ascoltavamo. Fra gli artisti che avevano peso all’interno della creatività della band c’era Brian Eno, ad esempio.
Giorgio: Amavamo molto i Suicide, più che altro cose di New York.
Certo, i vostri modelli di riferimento sono noti, ma se doveste proprio, singolarmente, citare la band che vi ha influenzato maggiormente?
Ciro: Dipende dai periodi, per quanto mi riguarda.
Giorgio: Come atteggiamento i Ramones.
Ciro: Sì, quello sicuro.
Giorgio: Musicalmente, un po’ i Roxy Music, che sembrerà strano, però li ascoltavamo molto, e…
Marco: … i Talking Heads.
Giorgio: Sì, finché non li vedemmo dal vivo che ci disamorammo un po’. Era il tour di “Remain in Light”, disco che a me non era piaciuto, a quell’epoca ci avevano stancati.
Un’altra influenza che viene spesso nominata quando si parla dei Gaz degli esordi sono i Pere Ubu…
Ciro: I Pere Ubu per me sono sempre stati un po’ ostici.
Giorgio: Il primo disco mi piaceva, mi piaceva il cantante, poi lo conobbi e mi scese…
Ciro: Racconta!
Giorgio: Con gli Stupid Set (band post punk nata all’interno della Traumfabrik, attiva dal 1979 al 1983, che si ispirava ai Residents, NdI) facemmo da spalla ai Pere Ubu quando vennero a suonare a Bologna, credo al Medica, e allora, parlando con il loro manager, gli dico (tutto entusiasta, NdI) “Ah, allora noi dobbiamo fare questo, questo e quest’altro” e lui ci guarda e ci dice, incenerendoci, “You guys don’t exist!“. Quando nel 2006 facemmo uscire un’antologia degli Stupid Set la chiamammo proprio così, “You Guys Don’t Exist!”.
(risate)
A proposito di The Stupid Set, nella vostra prima cassettina “Gaznevada”, incisa per la Harpo’s Bazaar nel 1979, c’è questo brano intitolato “Johnny (fallo per me)”. Era mica dedicato a Johnny Tramonta (Gianpietro Huber), il vostro primissimo bassista, poi confluito negli Stupid Set?
Ciro: Ma nooo, nooo.
Giorgio: “Johnny” nasce da me e da Ciro, è una specie di ballad ispirata in qualche modo ai Devo, perché i Devo avevano un pezzo che cominciava con un arpeggio che a Ciro piaceva, così, non che volessimo fare una cosa simile, ma provando a suonarlo mi venne fuori la storia di quel tipo che si voleva suicidare, con questa canzone abbastanza struggente.
Una volta hai raccontato di un tizio che tentò di suicidarsi alla Traumfabrik, mi pare…
Giorgio: No, non so esattamente cosa sia successo ma un giorno si presentò Sandro con questo suo “carissimo amico”, perché ciclicamente Sandro si portava dietro dei “carissimi amici”, dicendo “Ha bisogno di un letto per stanotte!“. Gli diciamo “Ok“. Noi nel frattempo avevamo lavorato per una settimana per rivestire tutto con una moquette che avevamo rubato una sera, una moquette verde, e il lavoro era venuto anche piuttosto bene, la Traumfabrik aveva proprio cambiato aspetto. Li salutiamo, andiamo, e quando torno la mattina dopo c’era sangue dappertutto, il vetro della finestra rotto, non so cosa fosse successo. L’amico fraterno di Sandro mai più visto, e così. Comunque era un classico che ciclicamente Sandro si presentasse con qualche personaggio che era “un amico sincero!” che però poi svaniva nel nulla.
Ciro: Di “Johnny” comunque esiste una tavola, un fumetto di uno che ha i polsi tagliati, la pistola alla tempia, la corda al collo e tenta di gettarsi dalla finestra, che poi è il testo di quel brano.
(Disegno di Ciaci El Kinder, tratto dal numero zero/due di RockGarage, fanzine rock di Mestre-Venezia – 1982; continua sotto)
Dunque, ripercorrendo la vostra storia, nel ’78 organizzate al Punkreas di Bologna Gaznevada sing Ramones, in cui, in giubbotti di pelle nera e jeans stracciati, reinterpretavate i brani di Joey, Dee Dee e soci, una serata che ha talmente tanto successo da trasformarsi in una tre giorni. Qui incontrate Oderso Rubini che vi propone di incidere per la sua Harpo’s Bazaar e dunque registrate questa cassettina su questo otto tracce nel suo studio…
Ciro: Che poi era un garage in via San Felice!
Giorgio: Ci dice “Andiamo in uno studio di registrazione!” e poi ci porta in un posto in costruzione, in una specie di palazzo in San Felice con il cemento ancora fresco.
Ciro: Ma no, non era in costruzione, è che stavano facendo il trasloco! Era il vecchio studio.
A quei tempi nella band c’era ancora ancora Gianluca Galliani, che poi se ne andò, giusto?
Giorgio: Sì. Gianluca è stato molto importante in una primissima fase dei Gaznevada ma poi si allontanò dal gruppo per motivi personali. Noi in realtà gli demmo moltissime chance che lui regolarmente lasciò cadere. Poi passati tanti anni ho capito che uscire dal gruppo per lui è stato una specie di trauma, però se ci teneva così tanto non capisco perché poi queste chance non le cogliesse… Gianluca peraltro ha fatto parte di una cover band che facemmo io e Sandro negli anni Novanta che si chiamava i New Velvet Underground. Cominciò con molta energia ma poi lasciò cadere anche quella.
Proprio nel libro di Gianluca “Mamma dammi la benza” (Shake Edizioni, 2009), Oderso Rubini, che è stato il vostro produttore dagli esordi sino a “Psicopatico Party” (1983), viene definito “Un altro Nevada”. Era così che lo consideravate e quanto ha apportato al suono della band o quanto lo ha direzionato, magari, che so, mettendo dei paletti?
Giorgio: Bè, dei gran paletti non è che ne abbia messi Oderso. Diciamo che quello con Oderso è stato un rapporto a tratti turbolento.
Ciro: Non quanto lo era il nostro, però giusta definizione, a tratti turbolento.
Giorgio: Mi ricordo che quando ci portò le copie di “Sick Soundtrack”, la stampa era venuta un po’ diversa dai layout che avevamo fatto e Ciro gliele tirò dietro.
Ciro: Le prime stampe furono un disastro. Mancava proprio la crocetta che rendeva possibile il gioco cromatico all’interno del disco. Non ricordo di avergliele tirate dietro ma sicuramente non ne fui felice.
(Il gioco cromatico fra colori complementari all’interno di “Sick Soundtrack”; continua sotto)
L’ordine dei problemi era questo comunque…
Ciro: Tieni presente dell’epoca di cui parliamo, del momento, come eravamo, l’approccio che avevamo. I problemi ci sono quando tu hai voglia di esprimerti in un modo e non riesci a farlo perché casomai la tua guida, il tuo produttore vuole andare in un’altra direzione, e tu non comprendi; però sono all’ordine del giorno queste cose, quando si lavora succede sempre. Per rispondere alla tua precedente domanda comunque, tutti quelli che hanno partecipato al disco hanno dato qualcosa, assolutamente. Oderso poi è addirittura stato inserito nelle Polaroid di “Sick Soundtrack”!
(Band e produttore ritratti sulla riproduzione delle sei “Polaroid” all’interno “Sick Soundtrack”; continua sotto)
Che ricordi avete delle registrazioni di quel disco?
Giorgio: Arrivammo in studio con la metà dei pezzi. Alcuni appena abbozzati. In gran parte li componemmo proprio lì. “Japanese Girls”, ad esempio. Lavoravamo molto, mi ricordo che provavamo il mattino, il pomeriggio e la sera.
Ciro: Assolutamente. Avevamo il fuoco sacro della musica. Ricordo la customizzazione delle drum machine. In studio le aprivamo per poter accedere separatamente al suono diretto di clap, snare, bass drums, bypassando le uscite mono/stereo per creare una contaminazione con la batteria acustica. Oggi può sembrare tutto abbastanza scontato, ma all’epoca era pura avant-gard. Stiamo parlando di un album che è stato votato fra i 100 dischi imperdibili da Rolling Stone, e i mezzi all’epoca non c’erano, per cui siamo stati degli eroi.
(Eccolo, rimasterizzato; continua sotto)
Giorgio (indicando un’intera e invidiabile parete di CD alle spalle di Pagano): Ciro ma cos’hai un green screen là dietro?
Ciro: Eh, no è la raccolta di cd, l’angolo più tranquillo della casa.
Giorgio: Ma ce l’hai il lettore dei CD?
Ciro: Ce l’ho ma non lo uso mai. Ho l’abbonamento a Spotify.
E infatti la prima ristampa di “Sick Soundtrack” è andata esaurita subito, a partire ovviamente dalle copie in edizione limitata con il 7 pollici di Billy Blade & The Electric Razors (ossia i Gaznevada in versione psychobilly, capitanati da Sandro Raffini)…
Ciro: Da quel che ho capito il disco non è neanche riuscito ad arrivare con le copie numerate nei negozi perché le avevano già tutte prenotate. Poi l’hanno ristampato. Era molto atteso dai collezionisti. Sai, un album che era scomparso ed esce nuovamente a 40 anni di distanza… Inoltre è stato fatto davvero un bel lavoro di remastering da Davide Rizzatti.
Giorgio: Sì, ho sentito “Japanese Girls”, è venuta molto bella.
Ciro: Io trovo che sia la perla di “Sick Soundtrack”. È un disco che personalmente amo molto tutto perché, certo, ti affezioni alle cose, però trovo veramente che quello sia un brano di spessore.
Giorgio: Di “Japanese Girls” ricordo che cominciai a cantare sopra a questa base, poi guardai Ciro e gli dissi, “Ma qui non possiamo fare tutti i pezzi tutti uguali, ci vuole un cambio“. “E come lo facciamo?“. “Tan tan tan” (canticchia mimando il gesto di suonare la chitarra, NdI) e lui “Ah, proprio così, burino?” E io “Sì, così, burino!“. E da quello nacque il ponte che ci permise di sviluppare la melodia in un altro modo.
Ciro: “Sick Soundtrack” è un disco che ha parecchia improvvisazione dentro. Ad esempio, “Pordenone UFO Attack” è un brano improvvisato, forse anche il testo lo era…
Giorgio: No, no, quello è volutamente dedicato al Gran Complotto (movimento artistico nato a Pordenone nel 1980, che comprendeva band nate sull’onda del punk britannico e statunitense come i Tampax, gli HitlerSS, i Mess e i Sexy Angels, NdI).
“Pordenone UFO Attack”, con quella lunga coda noise, è un pezzo incredibile se si pensa che si trattava di una sorta di riempitivo che avete appunto creato in studio alla fine del disco. Nel testo, qua e là, mi sembra di leggere una sorta di manifesto: Giorgio dice “I will go to the TechnoGod“, si parla di “Genre”, e poi c’è questa frase potentissima, “I’ve got cancer in my soul“…
Giorgio: Bè, molto spesso i brani che chiudono gli album, e questo è stato uno degli ultimi che abbiamo fatto, preludono ai successivi sviluppi. Quella frase veniva in realtà dal gruppo in cui suonava Ado Scaini del Great Complotto, che si chiamava 01001101010111001010 Cancer. Ricordo che, quando fecero il disco, li avevo raggiunti in studio per cantare sul loro brano “Wheels”. In quel pezzo cantavo le istruzioni del basso e venne fuori benissimo, perché le istruzioni del basso cominciavano così “Nel passato si usava registrare”, e io in inglese (con tono solenne, NdI) “In the past we used to…“, e questa cosa dell’ “In the past” era molto suggestiva.
Ciro: E pensare che Pordenone è l’unica città in cui riuscirono a boicottare un nostro concerto e non venne gente.
Giorgio: In realtà non vennero quelli del Gran Complotto, ma solo perché il concerto era stato organizzato da un’entità che era in rivalità con loro, i Wicked Wolves. Ce lo spiegò Ado, che passò comunque a salutarci prima e dopo il concerto.
Ciro: Nel 1984 partecipammo al film “Pirata” con tutte le band rock di quel periodo, fra cui anche il Gran Complotto, e lì ebbi modo di conoscere Ado, una persona veramente simpatica e a modo.
Giorgio: Non ricordo più quale gruppo fra loro faceva una cover di “Blue Tv Set”…
(Il cult movie “Pirata” di Paolo Ciaffi Ricagno; continua sotto)
E invece, qual è il primo brano uscito dalle registrazioni di Sick Soundtrack?
Marco: “Going Underground”.
Ciro: Sì, il disco lo registrammo negli studi Umbi di Modena e finimmo a mixarlo in Fonoprint, e uno dei primi brani che affrontammo fu “Going Underground”. Mi ricordo che si stava lavorando al suono della chitarra e Oderso ne aveva proposto uno super strano, stravolgendolo. Dopo che io e lui avevamo passato una mattinata e un pomeriggio a lavorarci sopra, arrivano Giorgio e Sandro in studio e… “Bleah, fa schifo, no!“. Mi ricordo la furia di quel litigio per quel suono. Ad esempio, lì Oderso abbandonò il campo lasciando a loro la scelta e la chitarra rimase quella che era stata registrata inizialmente.
Immagino all’epoca foste consci del fatto che la vostra produzione fosse incredibilmente al passo con quello che succedeva al di fuori dall’Italia, al passo con quella dei vostri modelli di riferimento, Suicide, Talking Heads, Contorsions, Devo, ma mi domandavo quando, durante il vostro percorso, avete avuto la sensazione di aver creato qualcosa che non fosse più derivativo ma assolutamente personale?
Ciro: Io non me lo sono mai posto questo problema. Eravamo una band, dall’inizio, ancora prima di “Sick Soundtrack”, da quando tornò Giorgio da Londra e disse “Cambiamo nome!“.
Giorgio: Era così, e poi lavoravamo un sacco.
Ciro: Gaznevada è frutto di un mondo molto naïf, molto vero, e tutto quello che c’è dentro è vissuto, come i fumetti di Pazienza, che rappresentavano realmente quello che succedeva, ovviamente estremizzato.
Giorgio: Un po’ come il libro Cuore…
(risate)
A proposito, è noto che Ciro fu d’ispirazione per il personaggio di Zanardi, e che Pazienza ritrasse i Gaznevada in una vignetta pubblicata su Il Male, che rapporto avevate con lui?
Ciro: Eravamo amici, ci frequentavamo, che altro? Era bravissimo a disegnare, ma sono cose scontate, Andrea Pazienza si sa cosa è stato.
Giorgio: Zanardi era modellato su Ciro sì, però più buono.
(risate)
(I Gaznevada ritratti da Pazienza sulla rivista satirica “Il Male!”; continua sotto)
Nei testi dei vostri brani confluisce un’incredibile quantità di rimandi, non solo musicali. Riferimenti a sci-fi movies o serie TV come Battlestar Galactica (“Tij-U-An”) e Star Trek (“Shock Antistatico”), la pistola al megatrone dei Micromen (“Now I Want to Kill”), Donald Duck e Mickey Mouse (“Pordenone UFO Attack”), supereroine Marvel (“Nightmare Telegraph”), senza tralasciare le esclamazioni che normalmente abbondano nei baloon delle vignette. Anzi, la sensazione è che molti pezzi di Sick Soundtrack siano praticamente dei fumetti trasposti in musica…
Giorgio (che ricopre da oltre vent’anni il ruolo di editor per Panini Comics ndr): Erano le nostre avventure, leggevamo i fumetti, cosa dovevamo fare… Bè, Ciro in realtà leggeva anche i trattati di Dorfles che teorizzava di spianare completamente le campagne e le montagne, farci una colata di cemento, seminare prato inglese e poi costruire dei bellissimi palazzi.
Ciro: Eh, è un po’ quello che è successo alla nostra città col tempo.
Marco: Comunque, per darti un’idea, in auto quando andavamo ai concerti la scena era questa: c’era uno che guidava e tutti gli altri a leggere fumetti. Eravamo molto coinvolti in quel mondo, era proprio il nostro pane.
Ciro: Poi passavamo ore e ore disegnare, in Clavature.
Giorgio: Eravamo circondati da fumettisti!
Certo, certo. Rimanendo in tema, in un’intervista nel numero zero di Harpo’s Bullettin del ’79, uscito in occasione di Bologna La Rock, Giorgio dice che i testi dei Gaznevada non sono importanti, in un’altra Ciro sostiene che devono semplicemente suonare bene foneticamente, ma se posso dissentire…
Giorgio: Dissenti pure.
Bè, in “Sick Soundtrack” si nascondono anche testi in grado di evocare storie e atmosfere degne dei romanzi che insieme ai fumetti, come si sa, divoravate. Penso ad esempio a “Japanese Girls”, alle due seducenti ragazze giapponesi sorridenti e fiere nella stanza dei massaggi che profuma di Bangkok, riflesse sull’ago di una siringa…
Giorgio: Eh no, riflesse sull’ago di un tatuatore, non sull’ago di una siringa.
Ah, pardon…
Ciro: Mi viene da dire che quando ascolti qualcosa, guardi qualcosa, prendi, percepisci, senti, non necessariamente quello che l’autore intendeva dire. Benissimo comunque che ognuno porti la propria interpretazione. Detto questo, non mi sento di parlarti io dei testi perché molti li scriveva Giorgio, ma se tu mi avessi fatto questa domanda all’epoca ti avrei semplicemente detto “I Gaznevada non sono un gruppo di cantautori“.
Giorgio: Nel disco, un chiaro esempio di questa cosa fonetica di cui parlavamo è “Walkytalkin'”, il testo è semplicemente un gioco di assonanze, non è neanche veramente inglese. Nei testi per la musica come la nostra, in realtà in generale, è molto essenziale come cadono i suoni, no?
Certo…
Giorgio: Me ne accorgo in certi testi che scrivo ancora, che molto spesso il significato va da una parte, mentre invece poi, quando li riascolto, ci canto sopra, vedo che a funzionare meglio sono proprio quelle parti che foneticamente funzionano. Molto spesso anche la pronuncia è importante. Noi poi all’epoca masticavamo l’inglese malamente, e anche adesso non è che la situazione sia migliorata tantissimo, bè, forse un po’ visto che sono tanti anni che lavoro su fumetti americani… Per cui, ecco, ci sono tante cose di cui tener conto.
Ciro: Comunque si lavorava molto, poi si leggeva Burroughs, il cut up, tutte quelle cose lì.
Ecco, il cut up di Burroughs e di molti altri prima e dopo di lui. Come veniva applicato nella vostra musica? Mi chiedevo, tu Giorgio prendevi il foglio su cui avevi scritto il testo e lo strappavi in mille pezzettini per poi riassemblarlo in modo casuale e cantare o era proprio qualcosa che avveniva anche tecnicamente, intervenendo su nastro?
Giorgio: No, No. Il cut up… Io non l’ho mai fatta veramente questa cosa di stagliuzzare i testi, magari era un’idea che mi veniva in testa, non so se l’abbia mai fatto veramente neanche Burroughs, ho sempre sospettato che un po’ barasse. Burroughs… Barasse (sorride, evidenziando l’assonanza fra le due parole, NdI).
Ciro: A me sembrava il cut up di Burroughs l’avessimo utilizzato proprio in “Walkytalkin'”… Comunque non ci furono interventi sul tape. Alcune parole dei testi venivano troncate volontariamente e in alcuni brani poi esagerammo volutamente con l’effettistica, per cambiare il timbro delle voci.
Parlando di Burroughs, mi viene in mente la mostra Traumfabrik BlowUp, organizzata nel 2007 alla Galleria Neon di Gino Gianuizzi. L’esposizione di oltre 400 fra schizzi e disegni realizzati all’interno di Clavature 20, denominati Reperto 1, che erano stati rinvenuti misteriosamente non si sa dove, non so se fosse una faccenda romanzata…
Giorgio: No, No, era vero, li avevamo ritrovati. Veramente!
La cosa che colpì un po’ tutti i presenti alla serata inaugurale, oltre ovviamente alle incredibili opere esposte, era la maniera singolare che avevate scelto per somministrare le bevande.
(ridono)
Giorgio: Ah sì, i siringoni!
Ciro: Non sono riuscito a berlo io quel drink nei siringoni, erano finiti in un attimo!
(La locandina della mostra Traumfabrik BlowUp, organizzata alla Galleria Neon di Bologna nel 2007; continua sotto)
Domanda che in realtà è un po’ un pretesto per chiedervi: come è entrata, sempre ammesso che vi sia entrata, l’eroina nella vita della band e in che modo ne ha eventualmente influenzato le dinamiche interne e la produzione musicale?
Giorgio: Io penso che abbia avuto un ruolo minimo. Non abbiamo mai fatto canzoni che parlino di droghe di alcun tipo (… NdI). Poi, sai, la leggenda è un’altra cosa, capisci. Mi ricordo che in una delle prime interviste che facemmo, ci fecero questa stessa domanda, e noi rispondemmo “No, assolutamente. Noi siamo praticamente degli atleti!“. Ciro si mise a fare delle flessioni per dimostrarlo. Ci chiesero anche “È vero che non sapete suonare?” e noi rispondemmo “No, assolutamente, è tutta una cosa messa in giro dalla Harpo’s Bazaar, in realtà veniamo tutti dal conservatorio!“.
Ciro: I Gaznevada sono vittime delle leggende metropolitane che giravano all’epoca.
Giorgio: Ciro era maestro di musica prima!
Ciro: No, non ero maestro, ma davo lezioni di chitarra.
Giorgio: Ha inventato il sistema geometrico per suonare la chitarra, secondo me dovresti scriverci un libro, perché non lo facciamo?
Ciro: Ho ancora gli appunti.
In un’intervista rilasciata a “Scena” nell’80, dove magnificavi le potenzialità dei mezzi tecnologici, Giorgio dicevi appunto che non c’era bisogno di aver fatto il conservatorio per potersi esprimere musicalmente. E in un’altra, mi pare nello stesso periodo, tu e Huber sottolineavate che la musica d’avanguardia, quella in qualche modo rivoluzionaria, non nasceva nelle grandi città ma nelle città industriali. Vi riferivate a Akron e ai Devo… ma di lì a poco sarebbe esplosa la Detroit techno e, lascia stare che sappiamo che a Detroit era già nata la Motown, quella è stata una intuizione non da poco…
Giorgio (Con nonchalance, lo sguardo rivolto verso il basso): Chissà come ci venivano in testa certe cose… me lo sono sempre chiesto.
Magari hai qualche altra intuizione per il futuro?
Giorgio: Mmmm, qualcuna…. Senti, una volta in un’intervista sui fumetti dissi “Internet? Tsk. Una moda passeggera“.
Ciro: Io mi sono espresso così su Facebook, anni dopo: “Passerà presto” (ridono, NdI).
Marco: Bè, in realtà Facebook sta calando eh, i giovani lo stanno abbandonando.
Giorgio: Sono tutti su Instagram, per forza!
Ciro: Bè, a proposito di intuizioni, fammi citare una cosa che non è proprio un’intuizione ma poco ci manca, sto parlando di “IC Love Affair”, che suonava come poi suonavano cose house più avanti.
Certo, ve ne avrei chiesto a breve, un brano incredibile, che non accusa i segni del tempo. Non ha mai smesso di risuonare nei club di tutta Europa, ed è anche arrivato a Chicago… e sulle pagine del tomo del ’99 sulla storia del djing “Last Night A Dj Save My Life” di Bill Brewster e Frank Broughton.
Ciro: “I.C. Love Affair” è entrata nei club classics. In qualche modo, non si sa come, ha fatto un percorso tutto suo ed è diventata una club classic.
Tanto che nel 2015, sull’onda del ritrovato successo della italo-disco negli anni 2000, avete pensato di fare uscire dei reworks del brano ad opera di I Robots, Giangi Cappai, Munk e David Depino… O forse è stata un’idea della Expanded Music?
Ciro: Sì, in realtà è un’operazione di cui si è occupata la casa discografica autonomamente. Giovanni Natale ha fatto realizzare dei reworks perché non si trovavano i file separati delle tracce dei vari strumenti. È un rework fatto sulla base, non ci sono stems.
Peccato, ma “I.C. Love Affair” come è nato, appunto? Come è nata l’idea di quel brano?
Giorgio: Ah qui c’ero, com’è nato proprio nato c’ero.
Ciro: Vediamo se i ricordi sono i miei, vai.
Marco: Era un pezzo rock’n’roll.
Giorgio: In quel periodo ce la menavamo molto su Giorgio Moroder. Era appena uscito il disco che aveva fatto, “E=MC2”, e mentre eravamo in sala prove, o meglio nella nostra cantinetta, c’era Sandro che stava lambiccando sul mio Sonic 6, faceva questo giro “bom bom bo bo bo bom bom bo bo bo bo bom bom” (canticchia il giro di basso di “I.C. Love Affair” con un ritmo rock incalzante, alla Elvis, NdI).
Ciro: Era più rock’n’roll, è vero.
Marco: No, no, andiamo piano, l’abbiamo suonato penso alcune volte dal vivo ed era un pezzo TOTALMENTE rock’n’roll. Io lo suonavo col basso e c’era la chitarra che poi è diventata il piano.
Ciro: Lo facevamo così dal vivo, sì.
Giorgio: La chitarra faceva un giretto alla Suicide proprio.
Ciro: Prova a immaginare come poteva essere, perché non ci sono registrazioni di quella parte, all’inizio c’era la batteria che seguiva il giro di basso coi tom, non quella che è poi finita sul disco, quella lineare. Era un pezzo stranissimo, nasce proprio in una maniera trasversale.
Marco: E la velocità era raddoppiata (canticchia battendo il tempo con le mani “tam tam da da da da”, NdI).
Giorgio: Comunque mi ricordo che, quando Sandro faceva quel giretto sul Sonic Six, noi stavamo parlando e io mi giravo e gli dicevo “Ma la vuoi piantare?”.
Dunque facevi ancora parte della band…
Giorgio: Me ne andai via dopo pochi giorni.
Secondo alcune versioni per divergenze artistiche, secondo altre per proseguire con The Stupid Set…
Giorgio: In realtà lasciai i Gaznevada perché vedevo che c’erano tutti questi fighissimi che lasciavano le band, tipo John Foxx che lasciava gli Ultravox e allora mi sembrava una cosa figa da fare.
Marco: Era figo lasciare i gruppi.
Poi continuasti con gli Stupid Set…
Giorgio: Sì, poi formai anche una band che si chiamava 4DM e più avanti, nei primi anni duemila, con Enrico Serotti (chitarrista dei Confusional Quartet, oggi collaboratore di Eva Marisaldi, NdI) facemmo un gruppo che si chiamava The True Human Show con cui abbiamo suonato in tanti musei d’arte moderna e luoghi del genere. Siamo stati fra i primi credo a fare la computer music con i portatili.
Non stento a crederci. Già in quell’intervista del ’79 dicevi “I nostri prodotti non sono quelli più avanzati tecnologicamente e sono convinto che questo discorso intrapreso possa avere un futuro“, poi più avanti spiegavi che nella disco music quel che ci fa muovere non è un ritmo animale ma un ‘bip bip’ che è lì, sotteso alla traccia, un impulso meccanico, agli stimoli del quale noi reagiamo…
Giorgio: Sì all’epoca ci sembrava più forte dello stesso punk per la velocità con cui arrivava.
Ciro: Mi aggancio a questa cosa per dire che quando arrivarono la Detroit techno e l’house, alla fine degli anni ’80, fu devastante, ma molto più del punk, perché se il punk permetteva a chi non sapeva suonare di farlo, l’house permetteva a chi non era musicista, ai dj, di produrre e di suonare. Cioè, una rivoluzione formidabile!
Giorgio: Tu, Ciro, te li compravi tutti quei cd come “Trance Europe Express”…?
Ciro: Sì, Sì, io avevo le cassette di quella roba lì.
Giorgio: A me fulminò un singolo degli Orb, “Assassin”, era potentissimo. Lo mettevo per rovinare le feste…
Ciro: Io sai Giorgio quand’è che ho cambiato direzione? Quando alla fine degli anni ’80 andai in una discoteca dove lavorava Marco, il New Charly a Modena, e misero su “French Kiss” di Lil Louis. Quando sentii quel pezzo mi dissi “Ma che cazzo mi sto perdendo? Che cazzo sta succedendo nella musica?“. Da lì a poco mi vendetti amplificatore e distorsore e comprai campionatore e una tastiera, in quel momento ho capito qual era la strada da seguire.
Giorgio: Ah, ti ricordi Ciro quel vecchio giretto borazzissimo che ti ho fatto ascoltare l’altro giorno? Sono andato a vedere dove lo avevo pescato ed era un preset che si chiama Vintage Tïesto (fa suonare il preset sul computer, NdI), proprio trance basic eh?
Ciro: Eh, sì, più basic di così.
(Giorgio nel frattempo tira fuori due controller MIDI Roli Seabord Block e il viso gli si illumina come quello di un bambino alle prese con un nuovo giocattolo)
Giorgio: Conoscete questa? È una cosa che io chiamo la bistecca. Ne ho due, perché si uniscono, è una tastiera coi tasti gommosi, che controlla cinque output MIDI e così (unisce le due tastiere) raddoppia le ottave, oppure si può mettere così (le mette una sopra l’altra). C’è uno bravissimo su internet che l’attacca, la stacca, la mette di sopra, di sotto. Ah, è bluetooth.
Tutti (all’unisono): Bella!
Bene, spostiamoci sul versante estetico: guardando le fotografie delle varie incarnazioni dei Gaznevada, sembra di avere di fronte tante band diverse. Le vostre transizioni musicali sono andate di pari passo con un cambio di immagine assolutamente collimante con quella che era la vostra proposta del momento. Mutazioni che sono riflesse in particolar modo nelle foto promozionali che vi vedono trasformarvi da punk “brutti e cattivi”, ad alieni new wave, e ancora eleganti dandy, come nello scatto di Nadir Naldi che ricordo divenne un flyer di Orea Malià. Finiste anche sulle pagine di “Vogue” e di “Elle”. Ma, ecco, al di là degli stylist dei servizi fotografici, c’era qualcuno che si occupava dell’immagine dei Gaznevada?
Ciro: No, direi di no.
Marco: Oltre alla collaborazione con Orea Malià, da “Sex Sister” in poi, dunque dal 1986 in poi, abbiamo lavorato con Tutti Ragazzi Italiani, però eravamo molto free, ognuno metteva un po’ quel che voleva.
Ciro: Ci vestivamo a seconda di che cosa ci piaceva essere in quel momento.
Ad esempio, se riguardo il video di “Sex Sister”, bè, mi fa sorridere perché, non so se ricordate l’anno scorso a Sanremo tutto quel gran polverone sollevato per Achille Lauro, con cui, approfittando della notoriamente scarsa memoria del pubblico italiano, per un momento si è completamente azzerato quanto successo sui palchi musicali e televisivi 40 anni fa…
Marco: Ma sì, certo, tante volte queste cose sono spinte solo per fare un po’ di audience.
Ciro: Noi cantammo vestiti così a Saint Vincent, ci presentavamo così a tutte le occasioni promozionali.
(Eccolo, l’esibizione; continua sotto)
Nell’81, ad esempio, ad Electra 1. Festival per i fantasmi del futuro. vi esibiste agghindati e truccati da samurai. Nell’incredibile cartellone di quella rassegna organizzata da Oderso suonavano anche formazioni e artisti internazionali fra cui Bauhaus, DNA, Brian Eno, Lounge Lizards… Pensando alla collaborazione degli Hi-Fi Bros con Arto Linday per l’album “I fratelli Hi-Fi”, mi domandavo se quel festival analogamente avesse aperto a voi Gaznevada qualche canale e magari aveste all’epoca un progetto in cantiere con una di queste band che poi non siete riusciti a realizzare…
Giorgio: Dovresti capire una cosa, che ad Electra 1 i concerti si tenevano in luoghi diversi. Noi suonavamo al Palazzo dello Sport ed eravamo parecchio impegnati a realizzare il nostro concerto, quindi non è che andavamo a vedere quelli degli altri, per cui ho avuto meno contatti io di uno del pubblico, per dire. Anzi, mi ricordo che ho litigato con John Lurie per una questione, ma meglio sorvolare.
Ciro: Noi appunto eravamo anche impegnati con il travestimento da samurai, di cui purtroppo non esistono servizi fotografici.
Giorgio: Una foto io ce l’ho!
Ciro: Ah, sì? Mandamela!
(rivolgendosi a me, NdI) …sai, con questa uscita stiamo organizzando un po’ i social e siamo alla ricerca di materiale.
Capito, nessun canale. Bene, c’è stato un momento, prima con “I.C. Love Affair”, poi quando “Living in the Jungle” era diventata la sigla dei “Cartoni Magici” sulla RAI, in cui eravate al massimo della popolarità, avevate persino un fan club. Come guardate a quel periodo? Con tenerezza, nostalgia?
Giorgio: Il fan club lo curavo io!
(risate)
Ciro: Quando guardo ai Gaznevada tutto ha grande tenerezza, ho smussato persino i periodi più bui della Traumfabrik. Vivo tutto con grande tenerezza perché i ricordi poi sono belli. Di quel periodo in particolare, in cui avevamo un’esposizione mediatica molto, molto importante, ricordo una cosa che mi successe in autobus: un ragazzo mi riconobbe e disse “Hey, ma tu sei uno dei Gaznevada!“, quindi mi chiese un autografo, poi si fermò, fece un passo indietro e mi disse “Ma perché sei in autobus?“. Perché prendere l’autobus a Bologna non era esattamente cool come andare nella metropolitana a New York, diciamo. Però, ecco, non ho particolari affezioni al periodo in cui andavamo in TV.
Marco: Io in quel periodo mi son divertito tantissimo e in realtà anche nella fase più dura, difficile, quando agli inizi facevamo i concerti e non eravamo così famosi ma ci davamo comunque dentro. Mi sono divertito sempre.
Ciro: Sì, anch’io ho ricordi di grande divertimento.
Ed è proprio in quel momento di grande esposizione mediatica che si parlò di tradimento per la vostra cosiddetta svolta dance. Voi questa cosa l’avete percepita da parte del pubblico?
Ciro: Guarda, personalmente penso che questa sia una cosa molto italiana, una cosa che esiste ancora oggi: purtroppo quando uno ama un genere musicale si pone come le tifoserie, come gli ultrà del calcio. Mi piace la trance, la dance mi fa schifo; mi piace il rock, i cantautori fanno cagare. C’è questa diatriba terribile. Noi come Gaznevada facciamo “I.C. Love Affair”, un percorso, ma per quelli che ci seguono siamo dei traditori. È una cosa insensata, è insensato, ma fa parte della cultura italiana.
Giorgio: Che è strano, però è successo, per esempio, anche ai Kiss quando fecero “I Was Made for Loving You Baby”, che era un pezzo di disco music: il pubblico disse “Ah, i Kiss hanno tradito!”
Ciro: Sì, però credo che in Italia sia endemico.
Marco: Scusa, guarda anche i Queen, quanti pezzi hanno fatto dance? Ma nessuno ha detto “Aaaah, traditori!”
Ciro: Il discorso è: esce un pezzo di una band che sta facendo un percorso e cambia genere. Non mi piace? Ascolto altro! Punto. Invece no, qua in Italia non funziona così. Comunque hai centrato una cosa che c’è, che con “I.C. Love Affair” i Gaznevada hanno tradito, non so cosa però.
Nell’88 termina l’avventura Gaznevada e, un paio d’anni dopo, mentre Ciro si appresta a dare vita ai Datura, Marco tu, sotto lo pseudonimo di Easy B., fondi il progetto house DJH con Dj Herbie, col quale tuttora collabori. Insieme a voi c’era anche Stefy, che nel modo di ballare ricordava molto Lady Miss Kier dei Deee-Lite…
Marco: Sì sì, era la mia ex moglie, la ragazza immagine del gruppo.
Il vostro brano “Think About”, che conteneva un campione di “Think” di Aretha Franklin, all’epoca si ascoltava dappertutto. Quell’esperienza come è nata?
Marco: Sì, “Think About” ha fatto il botto qua e poi anche a Londra, e là è stata la consacrazione. Eravamo a Londra praticamente ogni settimana. È stata una bella esperienza, abbiamo fatto tantissimo. Siamo stati ovunque, anche al Tokyo Dome. Purtroppo è rimasto poco perché facevamo un po’ da noi, a livello semipro, quindi abbiamo perso tanti video, tante cose, ma questo è un po’ un difetto di noi italiani, siamo creativi però non siamo molto metodici nel tenere, come si dice, tenere a conto le cose che abbiamo fatto. Non avevamo un manager e mi ricordo dei conti, ma conti di tanti soldi eh, tutti fatti a matita (sorride, NdI). Va bè, è andata.
(Continua sotto)
Però adesso vivi in Cina da dieci anni dove lavori come dj, ossia fai quello che volevi fare e, anche se non in questo preciso momento (Marco era tornato a gennaio del 2020 per un breve vacanza ma poi le cose sono andate come sappiamo, NdI), sei nel luogo dove desideravi stare. Direi che è un grosso traguardo.
Marco: Assolutamente sì. Però devo specificare che quando sono andato via dall’Italia non sono andato in Cina perché pensavo che là la situazione fosse migliore. Devo dirti la verità, là era un punto interrogativo, ma qua non stavo bene perché non riuscivo più a esprimermi. Sai, quando ti trovi a suonare in posti dove devi mettere cose che non ti piacciono… e poi comunque c’era sempre questo fare a botte per le consolle. Non ti so dire esattamente come sia la situazione qui in Italia adesso, perché sono tornato a gennaio, però non penso sia cambiato granché; invece là c’è proprio una grande espansione, ci sono tanti locali, diciamo che anche se sei un dj mediocre – cosa che io non sono – trovi da fare. C’è molta attività insomma.
Stando fuori dall’Italia per così tanto tempo però forse non hai avuto modo di seguire quella che è stata l’evoluzione della scena qua, penso, magari anche semplicemente rimanendo su Bologna, al festival roBOt?
Marco: Poco, non proprio appieno, però vedo comunque che non ci sono club e dove non ci sono club capisci che la musica è penalizzata… e poi il problema fondamentale è che in Italia ci sono pochi giovani e queste cose, si sa, sono loro che le supportano. In Cina l’età media del pubblico è decisamente bassa e io là suono musica veramente estrema per i nostri canoni, cose molto forti, perché i giovani vogliono più spinta, non vogliono cose soft ma velocità alte e molto rumore. Però mi trovo bene, abbastanza bene…
Tuttavia c’è un’altra faccia della medaglia, perché produci anche brani, diciamo, meditativi…
Marco: Già, e pensa che su Mixcloud il mix fra i miei che ha più ascolti è una compilation di musica new age world. Quelle playlist le creo perché in Cina insegno anche yoga.
Anche i Datura, non foss’altro nell’iconografia del loro album “Eternity” e nei titoli adottati per gli edit di hit contenute in quel disco come “Devotion” (Karma Mārga) e la stessa titletrack (Saṃsāra; Nirvāṇa; Nidāṇa), fanno riferimento a buddhismo e induismo, e in generale a un certo misticismo. Ciro, dici che è una casualità o che il percorso che tu e Marco avete condiviso nei Gaznevada possa avervi portato entrambi in questa direzione?
Ciro: Non saprei, io ti posso parlare del mio percorso. Datura, lo sai, è una pianta, ornamentale, dalle proprietà curative, allucinogene, mistiche, per cui apre un mondo molto ampio. Io e il mio socio Stefano (Mazzavillani, NdI) scegliamo questo percorso perché ti permette di entrare in una grande biblioteca di Babele, dove tu leggi cose di ogni tipo perché è enorme: la Datura parte da Castaneda, entra in Tex Willer, si propaga in mille mondi e ti apre mille universi che sono di grande ispirazione. E, questo mondo magico spirituale, dove tutto è correlato, noi l’abbiamo usato proprio come grande ispirazione creativa. Poi è anche chiaro che succedono le cose, ti senti a tuo agio e vai avanti. Non sempre devi fare delle scelte filosofiche o legate al tuo percorso. Semplicemente, le fai, procedi insomma.
(Continua sotto)
Ogni volta che passo davanti al vostro studio (Il Coco, in via Avesella a Bologna) e vedo lo stregone de vostro logo dipinto sulla serranda, mi chiedo se sia stato in qualche modo ispirato dal logo con la faccina sorridente degli Spiral Tribe e mi domando se abbiate mai avuto una fascinazione per la tekno delle tribes e dei party illegali…
Ciro: Ci sei vicina, arriva da quei mondi lì… Nella band inizialmente c’erano Ricci e Cirillo, e soprattutto Cirillo era molto affezionato a quanto succedeva in Europa, e cioè in Germania, in Inghilterra e così via. Anche in questo caso fu un discorso molto estetico: noi eravamo Datura, avevamo necessità di avere certi simboli che ci rappresentassero e devo dire che quella maschera ha funzionato, ha dato la lettura grafica di quello che c’era all’interno dei nostri dischi.
Dopo aver prodotto “Eternity” e poi singoli e remix di successo per quasi tre lustri, ora vi dedicate principalmente ai dj set, giusto?
Ciro: Sì, io faccio dj set. Con i Datura poi abbiamo lavorato molto e investito sul nostro passato e facciamo solo cose legate agli anni ’90, una decade eccezionale che ha permesso a me a Marco e a tanti altri colleghi di fare un iter importante. Quello che abbiamo realizzato dopo i Gaznevada come Datura a livello di successo, di popolarità, è stato molto maggiore di quello che è avvenuto prima. Con i Gaz siamo rimasti in qualche modo una cult band, nonostante i brani di successo.
Pare che i Gaznevada siano una cult band anche in Cina, confermi Marco?
Marco: Bè, parliamo di un mondo comunque underground, perché la Cina è talmente grande che per emergere devi essere veramente superfamoso. In certi ambienti però siamo noti, anche perché ci sono molti italiani là adesso e molti ci conoscono quindi, sì, abbiamo un seguito, abbiamo dei sostenitori. In Cina poi, come in tutte le nazioni estremamente chiuse, c’è grande curiosità riguardo a quello che succede all’estero.
Venendo a te, Giorgio, l’anno scorso ti sei esibito come special guest durante il live set dei PingPong (il singolare progetto per aspirapolvere, chitarra e batteria dei bolognesi Andrea Renzini e Stefano Passini ndr), tenutosi in occasione della mostra “Turbo Surplus” al Museo della Musica di Bologna. È vero, come si dice in giro, che da quella serata è nata una vera e propria collaborazione?
Giorgio: Sì, la cosa in realtà è ancora ai primordi e procede lentamente, causa COVID-19. Comunque abbiamo registrato un brano che si chiama “The Future”.
Bene, vorrei concludere questa chiacchierata chiedendovi che cosa gira sul vostro stereo ultimamente…
Ciro: Personalmente ascolto la techno, quella un po’ più estrema, mi piace la psy, però essenzialmente resto legato a quella che è la musica degli anni ’90. Trovo che anche oggi si porti dietro un bello spessore. Però sono più europeo negli ascolti che non houseggiante.
Marco: Anche io, suonando ancora come dj, diciamo che ascolto un po’ tutti i generi musicali. Parliamo sempre di dance, eh.
Giorgio: Ascolto un po’ di tutto, mi piace anche Miley Cirus. Ah, poi mi piace un tipo che si chiama Weeknd.
Ciro: Ah, formidabile! È la reincarnazione musicale di Michael Jackson, e con dei brani meravigliosi. Secondo me il suo grande successo, “Blinding Lights”, è il follow up che non sono riusciti a fare gli A-ha di “Take on Me”.
Giorgio: E poi fa anche dei bei video, dai…