Nei vari carteggi con collaboratori e lettori, arrivano ogni tanto spunti e mail che sarebbe veramente un peccato restassero confinati nei nostri hard disk. Quanto c’ha scritto Luca Marini un paio di settimane fa rientra perfettamente in questa categoria, vista la ricchezza di spunti. Pubblichiamo allora la sua mail, aggiungendo un po’ di nostre considerazioni – considerazioni che esulano in realtà dal contenuto della mail. Una sorta di lunga nota a margine rispetto a un punto, quello sollevato da Luca, sicuramente centrato e centrale.
“Al giorno d’oggi, il mondo discografico “underground” pullula di etichette discografiche. In particolare di etichette cosiddette “digital only”. Il compito dei gestori di un’etichetta, da che mondo è mondo, sarebbe quelle di: selezionare gli artisti e le tracce che più si adattano al loro stile, in modo da creare un certo filone musicale; confezionare le tracce affidando missaggio e mastering a persone competenti; pubblicare e distribuire le tracce; comunicare i dati di vendita agli artisti.
Ma la maggior parte dei produttori sa che il suddetto processo, vuoi per mancanza di tempo, vuoi per mancanza di fondi, vuoi soprattutto per poca professionalità, non viene rispettato.
Per un producer, che al 90% non prenderà un soldo dalla vendita digitale delle sue tracce, risulta molto frustrante non ricevere la propria traccia dopo il mastering. Dovrebbe per caso comprarsi la traccia da qualche store on line per potersela suonare in giro? Poi: per un produttore è frustrante sapere che l’unico modo in cui l’etichetta pubblicizza la release è, se va bene, il promo pool, sperando in un “Download for Richie Hawtin”, “Download for Luciano”, “Download for chi ne ha più ne metta”. Ancora: per un produttore è molto frustrante non sapere, per quanto bassi possano essere, i dati di vendita della propria release. Si accennava prima che il 90% dei produttori, ma forse il numero è anche troppo basso, non riesce a guadagnare un soldo dalla vendita digitale.
[…] Viene da chiedersi a questo punto: non è che le label digitali siano, per quanto possa sembrare strano, un po’ anacronistiche visto che ormai qualsiasi persone può caricare il proprio .mp3 o .wav su siti come soundcloud.com e box.com, pubblicizzandole poi attraverso i social e YouTube?”
Fa sorridere leggere queste parole – lucide e intelligenti – se uno arriva anche da una lunga frequentazione dei contesti rock. Già: perché lì il principio del “Salta la label, sii la label di te stesso” è già un argomento caldo da anni. Come mai la scena dance ed elettronica aveva evitato e ha evitato finora questa deriva? Facile: perché in essa la label è sempre stata un valore aggiunto nel determinare il valore di un pezzo, molto più che in qualsiasi altro genere musicale. E lo era perché significava realmente un controllo, un marchio, uno stile, una storia, in una musica che per un sacco di tempo – pensate alla definizione di “faceless techno” data da Garnier nella nostra intervista – e per alcuni versi ancora adesso evita il culto della personalità stile rock, pop o hip hop. La personalità la davano le etichette. L’aura magica stava lì, non nel culto del personaggio; o se c’era culto del personaggio, era per la sua follia ed atipicità (dalla parentela e gli occhialini degli Orbital ai carri armati di Aphex, giusto per fare due esempi; mai comunque culti da finire sulle pagine dei settimanali di gossip).
Il problema è che oggi la gente non vuole più essere “faceless”. Non ci si butta (quasi) più nella musica elettronica (anche) per un ideale, ma soprattutto per avere soldi, sesso e successo, oltre ovviamente a soddisfare un minimo (o un massimo) di vocazione creativa che si sente in sé. Ok? Sia chiaro: nulla di male. E’ così quasi dappertutto, solo il jazz e qualche altra nicchia ha ancora una missione di “religione” nell’essere abbracciata.
Nell’elettronica lo fa David Guetta, il fare le cose per la tripla “s”, ma lo fa anche il pr di provincia che un po’ smazza flyer un po’ si gongola perché fa il dj set d’apertura nella serata che promuove così come lo fa chi va al Berghain o al Tresor o nel club figo che preferite voi; dimensioni diverse, ma stesso meccanismo mentale. Per tutti.
E’ un assalto alla diligenza, perché il carro assaltato in questione – quello dell’elettronica – ora è vincente, o nel peggiore dei casi funzionante. Da qui il drammatico abbassamento qualitativo di chi o cosa dovrebbe fare da “guardiano”: i media che sempre più facilmente promuovono invece che criticare (perché una critica musicale viene presa come un’offesa personale, non siamo più “faceless”, no?), le etichette che pensano solo a fare fatturato e anche se dicono il contrario in realtà non si interessano della qualità… o semplicemente non hanno abbastanza esperienza e strumenti intellettuali per interessarsene, perché esperienza e strumenti intellettuali non sono più condizioni necessarie per sopravvivere, se ne può fare anche senza. I soldi rimescolano le carte, e quasi sempre le rimescolano male, molto male, se il metro di giudizio è quello della qualità pura ed incontaminata.
Ma allora? La soluzione non sta nel chiudere a forza le etichette, o nel fare stare aperte solo quelle “brave” (chi decide quali sono “brave” e quali no?, chi si arroga il diritto di decidere per tutti in modo definitivo?). Siamo nel mercato, che decida il mercato. E’ un sistema pessimo, ma è il meno peggio di tutti. Perché un sistema dove invece ci sia uno o pochi che decidono in modo assoluto cosa sia giusto e cosa sia sbagliato è, come dire?, un sistema di merda, anche se fra quei pochi che decidono e stabiliscono magari ci sono pure io, o gente che ha i miei stessi gusti ed ideali.
I media devono criticare di più e meglio, questo sì; i dj dovrebbero fare i dj e non i pr, i pr dovrebbero fare i pr e non i dj (o i giornalisti), la musica dovrebbe essere un valore culturale e non uno status symbol misurabile per potenzialità di fatturato; ma questi sono auspici, nella realtà dei fatti è giusto che ognuno faccia come gli pare e quanto gli pare, poi saranno i fatti in questione – quel misto di sostenibilità economica e voglia di sbattersi e capacità di attirare l’attenzione di un mondo in overload informativo – a decidere chi resiste e chi no. Dopodiché affronteremo un’altra volta il discorso di come, certe volte, gli auspici “nobili” di cui più sopra siano anche un saggio investimento sul lungo termine, molto più dell’avido cinismo del “qui&ora”. Ma lo affronteremo non ora il discorso, non qui, anche se è un punto fondamentale della questione.
E’ che c’è una cosa di cui, forse, dovremmo cominciare a renderci conto fin da subito, prima di tutto il resto, per gestire meglio la sfida culturale che abbiamo di fronte: la scena elettronica oggi quasi tutta si definisce a parole e magari si sente pure per davvero “underground”, ma di realmente “underground” non c’è più un cazzo. Quasi nulla, almeno. Le label digitali di cui parla Luca nella mail sono “underground” per dimensioni e fatturati, ma non nelle intenzioni. Se fossero “underground” realmente, selezionerebbero molto di più e si toglierebbero il pane di bocca pur di vedere un sorriso dell’artista che hanno in catalogo; non succederebbe insomma nulla di quello che viene descritto nella mail che pubblichiamo. Essere “underground” significa perderci dei soldi e non guadagnare nulla in fama. Nulla. Essere “faceless”.
Chi vuole esserlo oggi, nell’elettronica? Chi vuol esserlo fra i vari personaggi che intervistiamo e recensiamo su Soundwall? O fra quelli che appaiono su un qualsivoglia media?
Nessuno.
Ma va bene, ripetiamo, non è un male, anzi è un segno di maturità, di crescita, è come quando da adolescente puoi permetterti di sognare e di ragionare per ideali, sì, ma quando sei maggiorenne e finalmente ti hanno cacciato di casa capisci che per (soprav)vivere devi mantenerti, prenderti delle responsabilità, non dipendere dalla paghetta di papà. E ora, noi, siamo maggiorenni. Fine dell’infanzia, fine dell’età dell’innocenza.
Quello insomma che non si può accettare non tanto è il cinico sfruttamento che certe label (o agenzie, o club, o crew di pr, o…) fanno, per quanto fastidioso, ma il fatto che si lavino la coscienza presentandosi ancora come “underground”, dedicate cioè solo all’amore per la musica e l’arte, e al servizio di una collettività, tutto questo senza nessun scopo di lucro. Il lucro c’è, eccome. E’ anzi il motore di tutto; è anche il motore dell’innovazione tecnologica e artistica, due fattori fondamentali per l’avanzamento della club culture.
Credo che pochi di voi che leggete vorreste ritrovarvi cristallizzati sempre e comunque in un rave illegale con dischi del 1993 e i cani in chetamina che vi abbaiano addosso (a meno che non siate voi, gli spacciatori di chetamina; e badate bene che il sottoscritto ama da impazzire la musica che c’era nei rave nel 1993, ancora oggi). E’ successo; è stato bello; può succedere ancora episodicamente e quando succede ci si va pure volentieri ai rave illegali ma, a parte una ultra-nicchia, ora qua sia come ascoltatori che come attori in prima persona noialtri si vuole e si deve giocare di regola un gioco più serio, più costruttivo e meno nichilista.
Il segreto è farlo senza perdere la dignità personale, e artistica. E’ possibile, eccome. Di esempi ce ne sono parecchi, molti di questi li avete visti e li vedete passare su queste pagine (molti al contrario fingono di mantenerla, la dignità, e invece no; ma amen, sta a noi tutti diventare più bravi a smascherarli). Uno dei modi nel 2012 per agire con efficace dignità è proprio essere reattivi, come fa Luca nella mail pubblicata, di fronte a questioni problematiche. Capire, analizzare, proporre un’alternativa. Questa è una bella pratica di dignità. Ma quello che vi vogliamo dire noi, in questa lunga nota a margine, è: non fatevi mai irretire o rabbonire dalla giustificazione “Io sono underground, io sono contro il sistema, il guadagno non è importante, lo facciamo per la musica, lo facciamo per la scena”. Un tempo, forse. Ora, semplicemente, non è più possibile. L’età dell’innocenza non c’è più.