Chissà che alla fine non abbia ragione lui, Levon Vincent, l’anti-eroe dei dj. Quello dall’aria schiva, che difficilmente ti regala un cenno d’intesa mentre lavora e che non è raro farsi i cazzi propri in disparte sia prima che dopo le sue esibizioni. Quello che con tutta probabilità non avete mai visto ridere di gusto e che, se deve scegliere tra una parola in più e una in meno, va sul sicuro: dritto sulla seconda opzione, senza esitazioni. Eppure questa volta potrebbe aver fatto centro, potrebbe aver vinto la gara “a chi fa la mossa più furba” senza nemmeno togliersi il cappuccio (rigorosamente calato sugli occhi) dalla testa, in barba ai colleghi più creativi e socialmente attivi. Levon Vincent, l’artista talmente convinto di ciò che è e ciò che fa da fondare una label e chiuderla in una camera a tenuta stagna lontana da collaborazioni e contaminazioni, ha regalato il suo album d’esordio a tutti ventiquattro ore prima della sua uscita nei negozi. Una mossa neanche lontanamente immaginabile per chi, almeno un po’, ha inquadrato il suo essere artista.
Venti uscite scarse, la metà delle quali sulla sua Novel Sound, hanno visto la luce con una frequenza inversamente proporzionale alla sua popolarità via via crescente e hanno disegnato i tratti di un artista capace di comunicare da un decennio a questa parte attraverso un unico suono: il suo e dei pochi altri del giro che parla la sua lingua, i fidatissimi Anthony Parasole, Fred P e Joey Anderson. Musica dal piglio techno ma dal passo lento (a tratti lentissimo), dalla ritmica spesso ridotta a pungenti snare e hihat e caratterizzata da vorticosi connubi tra bassline e synth, veri e propri “abbracci” capaci di investire con la loro travolgente semplicità qualsiasi dancefloor (“Man Or Mistress”). Così esce l’omonima raccolta e, ancora una volta, l’americano non s’è lasciato piegare da compromessi o vincere dalla curiosità di esplorare nuovi sentieri (quanti hanno perso la via, proprio sul più bello?). No, lui no perché questo era il momento di fare un passo avanti: non un salto e nemmeno una pericolosa capriola, ma un semplice passo in avanti per prendere le giuste distanze dai suoi colleghi e affermare/confermare che quanto mostrato fin qui altro non è che il suo credo più vero e profondo. “Levon Vincent” è la ciliegina sulla torta, insomma, l’atto conclusivo di un percorso lungo e mai frettoloso che ha portato il newyorkese tra gli artisti che più contano dell’odierna scena mondiale, un posto conquistato solo ed esclusivamente grazie a quelle venti uscite.
E allora sì, ha davvero ragione lui, Levon Vincent, il produttore che ha atteso tanto prima di consegnarci un album a suo nome, aspettando paziente che i tempi fossero maturi per mostrare che il livello può essere alzato e che la sua musica conosce anche sfumature più intime. È il caso di “Launch Ramp To The Sky”, dove il synth-marimba apre la via a scenari celesti raramente perseguiti dall’americano, o di “Black Arm” e le sue atmosfere finalmente calme e dilatate, oppure della ben più grave “Woman Is An Angel” (la nemesi di “Woman Is The Devil”). Ma non è tutto, perché non possono mancare i lavori di pancia come “Junkies On Hermann Strasse”, il vero floor-killer della raccolta, e “Small Whole-Numbered Ratios”, che insieme alla meravigliosa “Anti-Corporate Music” rimandano a hit come “Impressions Of A Rainstorm” e “Solemn Days”.
Sì, è un album monocolore e al tempo stesso completo; un lavoro coerente, compatto e maturo. “Levon Vincent” è semplicemente un disco da avere.