“From Mento to Lovers’ Rock”: il titolo è didascalico e quasi banale, una sorpresa per chi è abituato al vocabolario forbito e sempre vivo del suo autore. Chissà, magari c’è lo zampino di qualche burocrate dell’emittente di stato… “quel Johnson, sarebbe capace di infilare qualcosa di sovversivo persino nel titolo di una storia della musica popolare giamaicana a puntate“. Ma il contenuto, il contenuto è oro. Ed è a disposizione di tutti, rilanciato periodicamente dalla stessa BBC che ne commissionò la produzione nel 1983. Andato nuovamente in onda sul finire del mese scorso e l’inizio di questo, e ancora disponibile on demand (per poco, affrettatevi) sul sito del suo sesto canale. Oro dicevamo, per tre ragioni.
La prima dovrebbe essere venuta a noia, in un mondo perfetto. Ma ripeterla non guasta, se la distanza dagli eventi originari pare inversamente proporzionale alla consapevolezza del loro peso su tante cose che diamo ormai per scontate. Nella storia della musica popolare giamaicana stanno i semi di cambiamenti che hanno scosso alle fondamenta il mondo del pop, tanto dal punto di vista artistico quanto da quello tecnico, e oltre. Il rap e il remix, per dirne due. La povertà di mezzi che si fa motore creativo, per aggiungerne un terzo. Se non avete voglia di imbarcarvi nella lettura “Bass Culture” di Lloyd Bradley o “Solid Foundation” di David Katz peggio per voi, ma sarà sufficiente il capitolo dedicato alla Giamaica in “Last Night a DJ Saved My Life” di Bill Brewster e Frank Broughton (su questo non transigiamo) per farvi un’idea: un’isola piccola (11000 kmq), poco popolata (tre milioni scarsi di abitanti), colonizzata per secoli e nella parte bassa della classifica mondiale dei PIL, ma con un’industria musicale proporzionalmente enorme e un’influenza appunto inestimabile. Un miracolo.
La seconda è la qualità della trasmissione: stellare. In dieci ore godibili e documentatissime, con riflessioni acute e interviste, cultura enciclopedica e visione storico/sociale impeccabile (e musica sublime, va da sé) si combinano l’eccellenza del marchio BBC e quella di chi ha curato e presentato quella trasmissione, quel Johnson. Più la sua voce, spettacolo nello spettacolo: una voce che a quel punto il pubblico britannico conosce molto bene, e che come si dice in questi casi potrebbe pure leggere la lista della spesa, o l’elenco telefonico.
La terza ragione dunque, last but not least. Linton Kwesi Johnson, l’uomo giusto al posto giusto, e qualcosa di più. Se avete letto il suo nome nelle recensioni di Kate Tempest scritte da giornalisti sopra i 40 e vi siete chiesti chi fosse, siamo qui per questo. Versione breve: uno dei grandi del Ventesimo Secolo. Versione meno breve: tante cose in un uomo solo, come i migliori. Poeta di straordinaria originalità ed efficacia, uno degli unici due o tre viventi (e unico nero) ad essere stato pubblicato dalla prestigiosa collana Penguin Modern Classics. Autore di alcuni degli album reggae più venduti di tutti i tempi, tolti quelli dei mostri sacri (dovremmo essere oltre i due milioni di copie). Voce militante ora fioretto ora clava, fra le più lucide nel raccontare la vita dei giovani neri britannici delle metropoli negli anni di Margaret Thatcher.
LKJ nasce nel 1952 a Chapelton, un paesino della Giamaica rurale, e all’età di 11 anni raggiunge la madre a Londra, dove la donna era emigrata qualche anno prima. Catapultato in una Brixton non ancora gentrificata, ma anzi al centro di continue tensioni a sfondo razziale, e luogo simbolico se mai ce n’è stato uno dell’immigrazione caraibica e africana nel Regno Unito, il giovane Linton trova lì gli elementi che caratterizzeranno – insieme a quelli giamaicani ormai indelebili – il suo percorso umano, poetico e politico. Per prima cosa, entra nelle British Black Panthers, organizzazione ispirata ma non affiliata al più celebre gruppo statunitense; legge Seale, Cleaver, Fanon e Newton, e applica la loro lezione a un presente fatto di razzismo, ingiustizia e brutalità poliziesca. Fra socialismo e rastafarianesimo sceglie il primo, senza esitazioni.
L’interesse per la letteratura e la poesia ne esce rinforzato, e mentre l’impegno prende numerose nuove forme (il collettivo riunito intorno alla rivista Race Today soprattutto) e arrivano i primi inevitabili scontri con l’autorità (nel 1972 è arrestato “per aver avuto l’audacia di chiedere se delle gente che stavano arrestando stesse bene. Avevo visto tre ragazzi neri malmenati dalla polizia, e in quanto Black Panther ero stato addestrato ad annotare i loro nomi e indirizzi per avvertire le famiglie, e a segnarmi i numeri di riconoscimento dei poliziotti. Mi buttarono nel cellulare e mi pestarono di brutto”), Johnson si laurea in sociologia nel 1973 e dà alle stampe due libri di versi: “Voices of the Living and the Dead” (1974) e “Dread Beat an’ Blood” (1975).
Cominciano i reading, e comincia ad essere evidente che non si tratta solo di un uomo che legge. L’uomo ha ritmo. Porta con sé l’eredità del teatro e della poesia popolari della sua terra d’origine, forme nate nelle piantagioni fra gli schiavi – lui stesso ha un secondo nome dato secondo le consuetudini ancora oggi in uso in Ghana, legate al giorno in cui il neonato è venuto alla luce: Kwesi spetta ai nati di domenica – e portate al successo da Louise “Miss Lou” Bennett, la prima a dare dignità letteraria al patwa, l’inglese creolo locale. Porta con sé la lezione dei deejay, gli uomini svelti di parola che dagli anni ’60 stanno creando un altro tipo di reggae dall’altra parte dell’Atlantico, improvvisando rime sulle versioni strumentali dei pezzi cantati, prima solo dal vivo nei sound system e poi anche su disco, un po’ giullari e un po’ osservatori critici del quotidiano. LKJ legge le sue poesie da fermo, ma è come se le sue parole si muovessero al tempo di uno skank invisibile, come se la musica ci fosse, come se fossero state scritte già con la musica in mente. Come se fossero già delle canzoni.
Johnson stesso, da giornalista musicale, aveva battezzato “dub poetry” l’arte dei deejay giamaicani di cui sopra. Altri daranno la medesima definizione alla sua, di arte, e da lì in avanti il nome e il genere saranno praticamente sinonimo. Succede presto, quando la sua strada incrocia quella di Dennis Bovell, detto Blackbeard. Di un anno più giovane, anche lui nato nei Caraibi (Barbados), anche lui arrivato in città da ragazzino, membro di una delle band di reggae autoctono più seguite (Matumbi) e già smaliziato come produttore e ingegnere del suono. Insieme, i due mettono in musica alcune delle poesie contenute in “Dread Beat an’ Blood”, aggiungono un paio di testi inediti e firmano nel 1978 come Poet and the Roots – ma le versioni successive saranno accreditate semplicemente a Linton Kwesi Johnson – un album di importanza cruciale.
Intitolato anch’esso “Dread Beat an’ Blood”, chiuso fra un dipinto di scontri fra neri e polizia in copertina e una foto che più iconica non si può – Linton che arringa una folla con il megafono di fronte a una stazione di polizia, sovrastato da due Bobbies – sul retro, il disco surclassa per reale portata antagonista quasi tutti i classici punk dell’epoca. Con la cronaca implacabile di “Five Nights of Bleeding”, cinque atti di autolesionismo in una comunità nera senza punti di riferimento, “è guerra fra i ribelli… cose da pazzi“. Con “Man Free (for Darcus Howe)” e “It Dread Inna Inglan (for George Lindo)”, che inaugurano una lunga serie di pezzi “a dedica” in cui dal bollettino quotidiano di repressione arrivano spunti per allargare il discorso, e scrivere versi capaci di slegarsi dalle circostanze e suonare universali, eterni. La prima è per il direttore di Race Today, e intellettuale militante di primissimo piano nell’Inghilterra di quegli anni, incarcerato per aggressione dopo un episodio di razzismo. La seconda per un cittadino nero di Bradford, incastrato per una rapina che non aveva commesso da una giuria interamente bianca, nonostante prove evidenti a sua discolpa. Le liriche di quest’ultima, soprattutto, suonano come un manifesto che va ben al di là della pur meritoria battaglia per la libertà di Lindo in cui Linton si getta anima e corpo.
Maggie Thatcher è su di giri / Con il suo teatrino razzista / Ma se ne deve andare / Perché / Proprio ora / Africani / Asiatici / Caraibici / E inglesi neri / Restiamo saldi qui in Inghilterra / Qui e ora.
Perché non importa cosa dicono / Succeda quel che succeda / Siamo qui per restare / In Inghilterra / Qui e ora
Assist davanti alla porta vuota, eppure: ve lo immaginate, nell’Italia delle minacce a Bello Figo, un figlio di immigrati ventiseienne che canta queste cose? E che invece di finire in galera o a suonare con CasaPound che picchetta finsice sulla radio nazionale a raccontare la storia della musica del suo paese?
E “All Wi Doin Is Defendin”, allora?
Ti combatteremo nelle strade a mani nude / Abbiamo un piano / Quindi ascolta, uomo / Preparati a prenderle.
Quei giorni di manganelli / E quelle notti di tristezza chiusi in una cella / Quelle ore di tortura fino a toccare l’inferno / Quei colpi che mi facevano scoppiare il cuore / Erano contati / E adesso / Sono finiti.
Ci stiamo solo difendendo / Quindi preparati / Alla guerra… guerra… / La libertà è una cosa molto seria / L’unica cosa che l’oppressione può fare / è innalzare la passione fino all’eruzione / E canteremo canzoni di fuoco.
No, no, non scappare / Hai fatto suonare la tua sirena / E ora è guerra… guerra… / La Special Patrol cadrà / Come un muro buttato giù / O una città ridotta in polvere / E anche se si credono coraggiosi / Sappiamo che sono congelati dalla paura / E noi siamo fuoco! / Scegliete la vostra arma allora / Veloci! / Tutto ciò che ci serve sono bottiglie e mattoni e bastoni / Abbiamo i pugni / Abbiamo i piedi / Portiamo dinamite fra i denti / Mandate l’antisommossa / Veloci!
Tre anni dopo, aprile 1981, per le strade di Brixton succede esattamente quello. Sembra che l’eruzione della canzone prenda vita, giovani diseredati neri e non solo si scontrano con la polizia per giorni. Ci stiamo solo difendendo, Inghilterra.
Di fronte a “All Wi Doin Is Defendin” i Clash e “White Riot” diventano istantaneamente preistoria. Ci proveranno i Crass e tutta l’ala anarco-punk immediatamente successiva, ma l’asticella resterà troppo alta anche per loro. E non sarà la stessa cosa: il fatto è che Linton, mentre declama queste cose al limite del codice penale e forse oltre, emana una determinazione che non è sfida ideologica all’ordine costituito, o sberleffo no future al violento in divisa, ma solo desiderio di giustizia. Ci si riprende quello che ci avete tolto, o non ci avete mai dato, con la serenità dei forti. E c’è posto per tutti.
Il fatto è che Linton è serio. Sembra un fratello maggiore che non ha voglia di fare il cretino con te, o un professore non troppo vecchio, che incontri alla manifestazione scoprendo che sa stare in piazza meglio di te. Per fortuna. Ma è anche un uomo da palco in tutto e per tutto, si muove al ritmo inesorabile del reggae come il giamaicano che è. E ha uno swag immenso, diremmo ora. Firma dichiarazioni di guerra come quelle qui sopra, ma è capace di sarcasmo e tenerezza allo stesso modo. Canta in patwa, ma la dizione è chiara e diretta, e tutta la nazione lo capisce. Canta innanzitutto il potere personale della musica, e la sua capacità di accompagnare e rilanciare quello che succede nel mondo reale.
La musica, non dimentichiamoci di lei. Passo dopo passo, Barbanera Bovell ha messo su un gruppo pazzesco, che diventerà la sua celebre Dub Band e accompagnerà LKJ nei decenni. Gente che maneggia tanto il reggae e il dub quanto il soul, il jazz e il pop; che padroneggia tanto la scuola roots giamaicana quanto le peculiarità sonore di una diaspora britannica fattasi nel frattempo forte e credibile, dagli Steel Pulse agli Aswad ai Misty In Roots; che spazia da distensioni romantiche ad aggressività da sound system. L’interazione con il poeta si è affinata, e “Forces of Victory” (1979) ne è la dimostrazione. Più maturo e vario del suo predecessore, ma ancor più coeso e potente. I fraseggi di fiati sono caldi e immediati, le escursioni dub profondissime, la scrittura impeccabile.
Oltre all’impetuosa title-track, spiccano due fra i capolavori assoluti di Johnson: “Sonny’s Lettah (Anti-Sus Poem)” e “Fite Dem Back”. La prima è un atto d’accusa duro e circostanziato contro l’abominio della Sus Law, legge che permetteva alle forze dell’ordine di fermare, perquisire e arrestare ogni individuo considerato in procinto di commettere un reato, a detta loro naturalmente. Legge introdotta nel Regno Unito nel 1824 e riportata particolarmente in auge dalla polizia proprio in quegli anni di scontri e rivolte a sfondo razziale. Sus come sospetto, insomma. Processo alle intenzioni, libero arbitrio. Oggi si chiama racial profiling, negli Stati Uniti ne sanno qualcosa e se non stiamo attenti pure qui non le cose non promettono troppo bene. La “lettah” è quella che Sonny scrive alla madre dal carcere, dove lui e il fratello minore Jim sono finiti per nessun motivo, ed è tanto commovente quanto “Fite Dem Back” è invece inebriante, liberatoria, a metà fra filastrocca e coro da stadio. Immaginate il professore di cui sopra, mentre balla leggero e canticchia un motivetto che fa così:
Gli spaccheremo le teste / Perché dentro non hanno nulla / Gli spaccheremo le teste / Perché dentro non hanno nulla.
Fascisti all’attacco / Non è il caso di preoccuparsi / Fascisti all’attacco / Noi risponderemo / Fascisti all’attacco / E contrattaccheremo / Fascisti all’attacco / E li rispediremo indietro.
Il ritorno discografico, l’anno seguente, pare al confronto un affare più intimo e misurato. Si chiama “Bass Culture”, e fin dal titolo (uno dei più azzeccati di sempre, finirà per prestarsi al libro di cui sopra e, soprattutto, a un filo rosso astratto eppure fortissimo nella musica nera che seguirà) è il più grande omaggio che Linton mai farà al reggae, alla sua essenza, al suo potere evocativo, alla sua forza illimitata. “Musica di sangue / Allevata da neri / Radicata nel dolore / Munita di cuore” attacca il brano omonimo, dedicato al deejay veterano Big Youth e strutturato come una storia impressionistica del genere in sette parti, flash in cui il suono si fa parola e immagine distesi su un ritmo steppers dolceamaro, che sfocia in una maestosa coda dub. “La storia del basso è una commovente / Dolorosa storia nera”, dichiara l’esplicita Reggae Sounds in mezzo a onomatopee e acrobazie linguistiche.
Una storia che torna anche nel quotidiano rarefatto di “Street 66”, I-Roy sul giradischi mentre la polizia fa irruzione in casa fra nuvole di fumo. Una storia che si fa per la prima volta (e ultima, almeno fino a “Seasons of the Heart” quasi vent’anni dopo) d’amore con “Loraine”. La verve polemica del poeta splende in “Di Black Petty Booshwah”, bersaglio la borghesia nera piccola del titolo, e nelle peripezie del lavoratore nero di “Inglan Is a Bitch”, l’Inghilterra è una stronza, l’Inghilterra alla fine ti fotte sempre. L’omaggio stavolta è “Reggae fi Peach”, per l’insegnante neozelandese Blair Peach.
Ovunque vai è l’argomento del giorno / Ovunque vai senti la gente dirlo / Quelli della Special Patrol sono assassini, assassini / Dobbiamo fermarli.
Perché hanno ucciso Blair Peach, il professore / Hanno ucciso Blair Peach, canaglie / Blair Peach era un uomo come tanti / Blair Peach aveva solo preso una semplice posizione / Contro i fascisti e i loro piani malvagi / E lo hanno picchiato fino a ucciderlo.
Hey, popolo dell’Inghilterra / Grosse ingiustizie sono commesse su questa terra / Per quanto permetteremo loro di andare avanti? / L’Inghilterra sta diventando uno stato fascista? / La risposta sta in ognuno di voi / E nella risposta sta il vostro destino.
Quindi, questo è l’uomo al quale nel 1983 la BBC affida una trasmissione radiofonica sulla storia del reggae, sulla storia della sua gente e dunque sulla sua storia personale. E di storia parla anche l’album che esce a fine anno, sigillando una quadrilogia con pochi rivali nel reggae come nella musica di protesta in senso lato, come nella musica pop tutta. Chiudendo – insieme all’eccellente doppio dal vivo “In Concert with the Dub Band” (1985) – la prima fase di una carriera partita alla massima velocità, che da qui in poi si adatterà invece ai ritmi di un uomo adulto, con sempre troppe cose da fare e troppo poco tempo per farle.
“Making History” suona anche lui esemplare fin dal titolo, degna conclusione di un percorso personale e politico che non può che portare lì, alla vittoria, al fare la storia: “Non è un mistero / Stiamo facendo la storia / Non è un mistero / Stiamo vincendo”. La musica è cresciuta di un’altra tacca, incorporando colori e dettagli sempre più eterogenei, dalla fusion al post-punk, dal jazz alle melodie mediterranee. I testi si sono fatti spesso metaforici, ironici, più riflessivi. I dubbi di “Wat About di Workin’ Claas”? sul socialismo alla prova dei fatti; “Di Eagle an’ di Bear” e un divario fra Primo e Terzo Mondo che è anche di prospettiva, di preoccupazioni quotidiane pressanti.
C’è spazio per una poesia più intima e raccolta in “Reggae fi Radni” (per lo storico e militante guyanese Walter Rodney, assassinato dall’esercito nel 1980) e soprattutto “Reggae fi Dada” (per il padre di Linton, morto nel 1982 dopo lunga malattia), in cui ancora una volta il piccolo è punto di partenza per raccontare il grande, la Giamaica in questo caso. C’è la cronaca nera, in tutti i sensi, di “New Craaas Massahkah” e dei suoi tredici giovani morti per un incendio dalle origini mai chiarite durante una festa di compleanno, quasi tutta recitata senza musica.
“Di Great Insohreckshan”, roba quasi da deejay vecchia maniera, chiude il cerchio aperto da “All We Doin Is Defendin” e “celebra un evento importante nella storia dei neri in Gran Bretagna, la rivolta di Brixton dell’aprile 1981, quando giovani neri supportati da bianchi si lanciarono in violente proteste contro la polizia britannica”. Tanti saluti a chi si aspettava magari un Linton pacificato con l’età e la popolarità. La title-track ne approfondisce il messaggio, inserendo la “grande insurrezione” in un quadro più ampio insieme agli scontri di Bristol del 1980, e a quelli fra National Front e giovani di origine asiatica di Southall del 1979.
Poetry as agitation and cogitation, come sempre.