In occasione dei due concerti italiani – il 10 novembre al Conservatorio di Milano e l’11 novembre all’Auditorium Parco della Musica di Roma – abbiamo avuto l’onore di poter scambiare due chiacchiere con Chilly Gonzales. Vero e proprio genio sregolato del pianoforte, ma anche rapper, crooner, agitatore culturale e tutto quello che può nascondersi nei meandri di questa definizione.
Chilly ha provato e fatto di tutto: ha cominciato insieme a Peaches, è stato il mentore di Feist, è finito in studio con i Daft Punk, ha realizzato un album insieme a Jarvis Cocker, una specie di musical colto dedicato a una stanza d’albergo, e in un’altra vita è stato anche frontman di un gruppo pop canadese. Da anni si è trasformato in uno strano alter ego musicale di Alberto Angela. Una specie di divulgatore delle sette note che sul palco, ma anche in uno show realizzato per Apple Music e ora con la sua accademia Gonzervatory, si diverte ad analizzare e fare a pezzi la musica. In parole poche: il capo dei nerd. E noi lo amiamo per questo!
Per iniziare non posso che partire da Gonzervatory. Da dove ti è venuta l’idea di mettere in piedi una cosa del genere?
Dal fatto che non amo lamentarmi della condizioni in cui versa la musica oggi e cerco sempre di capire costa sta succedendo e i nuovi movimenti che stanno venendo fuori.
Io credo che siano in atto dei cambiamenti che influenzano il gusto delle persone e che riflettono la nostra società. Avrò la possibilità di passare del tempo con dei musicisti più giovani di me, scambiare con loro delle idee e aiutarli nel percorso di crescita.
O almeno questo è quello che spero!
Di solito le masterclass di questo tipo sono costosissime, invece tu hai scelto di rendere Gonzervatory non solo completamente gratuita ma garantendo la copertura delle spese per sei giovani musicisti selezionati da te in persona. Perché lo hai fatto? È una specie di atto politico?
Per me è semplicemente molto bello poter dare una chance del genere a sei ragazzi che magari , per provenienza e classi sociali, non potrebbero avere accesso alle strutture professionali del music business, utilizzarne le tecnologie, o il potersi confrontare con musicisti importanti come Jarvis Cocker e gli altri che mi aiuteranno.
In un certo senso Gonzervatory sembra quasi essere la prosecuzione naturale dello show che ogni tanto conduci su Apple Music (Music’s Cool with Chilly Gonzales) e di quello che fai sul palco quando ti diverti a spiegare al pubblico “le regole della musica”. È così importante la teoria per te?
La musica, per me, è emozione e comunicazione. Ma se una cosa che ascolto mi fa venire la pelle d’oca, a me viene subito naturale cercare di scoprire che strumenti e che trucchi sono stati utilizzati per concepirla e generare in me questa reazione irrazionale, emotiva e involontaria.
La conoscenza teorica ti insegna ad andare aldilà del gusto, e ti aiuta ad aprire mille porte. L’ambito della teoria musicale è un mondo interessante da esplorare, ma senza la pelle d’oca diventa inutile cercare di analizzare. Io non sono interessato a capire come vengono realizzate cose che non mi colpiscono e che non percepisco come rilevanti.
Un argomento di cui spesso ti occupi nelle tue “lezioni” è quello dei generi musicali che sono sempre più visti come delle gabbie illusorie da cui è possibile evadere con estrema facilità…
Io credo nell’importanza dei generi, in realtà, perché in loro si riflettono i cambiamenti della società e l’evoluzione tecnologica. Prendi il rap: grazie al campionamento un sacco di ascoltatori di musica che non sapevano suonare uno strumento hanno avuto la possibilità di diventare musicisti. E l’hip hop, ovviamente, è una cultura che ha una forte base politica e che aspira e al tempo stesso critica il capitalismo. Ma se entri in uno studio dove si produce un disco hip hop troverai comunque delle tastiere che hanno le stesse dodici note del mio pianoforte. E questo vale per tutto il resto della musica occidentale: il messaggio cambia, la tecnologia si evolve, ma gli elementi su cui la musica è costruita sono gli stessi dei tempi di Scarlatti.
Da musicista tu ti sei confrontato con una valanga di generi diversi: il rap, appunto, ma anche la musica elettronica, il pop, il jazz, e le colonne sonore. E anche se ormai sei percepito prima di tutto come pianista, qual è la definizione che senti più tua?
Per me è facilissimo descrivermi: sono solo un performer come tanti altri che lo sono stati prima di me. E comunque non è vero che ho suonato tutti i generi. Non ho mai suonato reggae, country o heavy metal. Per ora.
Però a differenza di tanti altri performer che lo sono stati prima di te, tu ami presentarti sui palchi dei teatri più famosi del mondo, dei veri e propri templi della musica seria, conciato praticamente come Hugh Hefner. In vestaglia e babbucce. Lo fai, appunto, per dissacrare o perché vuoi comunicare che quando sei davanti a un pianoforte a coda ti senti a casa?
Entrambe le cose! Ho scelto il mio costume di scena proprio avendo due idee precise in testa: la prima è creare intimità, e la seconda è proprio per mancare un po’ di rispetto alle “importanti” sale da concerto in cui mi esibisco.
Nei concerti italiani dei prossimi giorni suonerai insieme al Kaiser Quartett. Come sarà l’interazione con loro? Ho letto in giro che li tratti come una specie di drum-machine vivente, composta da soli archi…
Io amo definire il Kaiser Quartett come: “Il campionatore più costoso del mondo!”
Io penso che loro, come gruppo, rappresentino tutta la storia della musica con gli archi, per cui è molto divertente suonare con loro… basta che schiocco le dita e potrebbero suonare della bellissima musica da camera composta da Ravel, oppure potrei davvero trasformarli in una drum machine. Chissà…
Quella delle collaborazioni non è per te una novità, compresa l’ultima con Jarvis Cocker.
Che poi tu hai realizzato delle cover dei Daft Punk e sei finito in studio a suonare con loro, hai fatto lo stesso con Drake e avete realizzato tre canzoni insieme. Dai, dicci quali cover suonerai in questo tour, così capiamo con chi collaborerai nel futuro prossimo!
Quella dei miei sogni: voglio assolutamente fare qualcosa con i Beach House!
Sei da sempre un grande appassionato di rap, ma mi pare di avere capito che non apprezzi particolarmente Kendrick Lamar, eppure la sua musica è così piena di dettagli che dovrebbe piacerti per forza…
Sono solo gusti! E il gusto non dovrebbe mai essere influenzato dal dovrebbe…
E la trap, invece? Nell’ultimo paio d’anni è diventata popolare anche tra i giovanissimi qui in Italia, ma c’è ancora chi non ha capito di cosa si tratta. Come la “spiegherebbe” il professor Gonzales?
Facile: è come il rap ma con un a “T” in più all’inizio!
Non so se è anche a te arrivata la notizia del lancio di una app che dovrebbe aiutare i musicisti a comporre “hit sicure”, basandosi su un algoritmo.
D’altronde anche tu, durante i tuoi spettacoli, spesso spieghi come nelle canzoni di grandissimo successo ci siano sempre degli elementi che ritornano identici.
Che ne pensi?
Non credo sia possibile: se fosse così facile scrivere le hit probabilmente avremmo fatto tutti quel mestiere. Io continuo a credere che alla fine il ritmo sia ancora più importante dell’algoritmo e durante i miei spettacoli provo a svelare i trucchi che vengono usati per scrivere le grandi canzoni pop, ma è sempre il contesto a determinare il successo. Non basta conoscere i trucchi delle hit per saper comporre una hit.