“Ma hai sentito? Frankie è tornato. Finalmente”: questo messaggio su WhatsApp ci è arrivato da un buon amico e sì, avevamo già sentito il pezzo, e sì, “Nuvole” era ed è davvero una traccia della madonna. Frankie però non è strettamente “tornato”, perché in realtà non è mai “andato via”: ha sempre continuato a fare musica, a far uscire dischi, a scrivere rap, ad essere coinvolto in progetti interessanti (magari da regista, o altro), e molti di questi progetti interessanti – di uno abbiamo discusso a lungo, qui – non sempre hanno avuto il giusto risalto, perché in qualche maniera troppo forte era la rifrazione di “Quelli che benpensano” e in generale del Frakie Hi-Nrg degli anni ’90, dei suoi primi due folgoranti album, “Verba Manent” e “La morte dei miracoli”, ad oscurare tutto il resto. Però è vero: “Nuvole”, nata anche con la collaborazione del bravissimo Fresco (ingegnere del suono di fiducia di Jovanotti e Ralf, tra gli altri, e quando ci si mette anche gustosissimo dj) e col tocco di Saturnino, ha una incisività che non si sentiva da tempo. Il come, il quando e il perché lo abbiamo discusso in questa bella chiacchierata. Dove si parla anche degli anni ’90, certo: ma con zero nostalgia, e molta acutezza d’analisi.
Senti, te l’aspettavi che “Nuvole” venisse accolta così bene?
Così bene no, non me l’aspettavo. Lo speravo; lo desideravo; anzi, lo desideravamo tutti fortemente, e con tutti intendo io, Fresco, Saturnino; ma no, non mi aspettavo un entusiasmo così unanime, questo tipo di coralità. Devo però dire che già l’anno scorso il libro era stato accolto coralmente parecchio bene: nessuna critica negativa, se non quelle costruttive. Ma “Nuvole”, è vero, ha avuto un’accoglienza incredibile: sono davvero in tanti a dirmi, a scrivermi “Ecco, finalmente, mi ci riconosco, hai raccontato esattamente come mi sento”, e questo è un riconoscimento straordinario, molto gratificante. E’ il tipo di feedback migliore: perché arriva per un’operazione nata proprio per dire “Ragazzi, diamoci del feedback. Perché se stiamo ognuno sulle proprie nuvole, non ci rendiamo conto che il buio è uguale per tutti”. E’ che solo se impariamo ad abituare gli occhi al buio, si iniziano a vedere delle luci: luci che ci sono sempre ogni tipo di oscurità, e che sono quelle che ti permettono di vedere una via d’uscita. Una via d’uscita da percorrere insieme, perché non è un “Si salvi chi può” quanto piuttosto un “Si salvi chi deve”. E sai cosa? Dobbiamo salvarci tutti. Tutti dobbiamo. Anche quelli antipatici. Dal buio bisogna uscire tutti insieme; anche perché al buio sembrano antipatici, pure quelli che non lo sono davvero o non lo sono del tutto… e allora diventa davvero un casino, se gli antipatici o supposti tali diventano così numerosi.
Credo che “Nuvole” abbia funzionato parecchio anche per il perfetto connubio tra voce e base strumentale. “Estate”, il singolo uscito qualche mese prima, aveva una prima strofa che trovavo davvero efficacissima, per dire, e anche il resto non era per nulla male, ma è un brano che mi pare sia arrivato parecchio meno alle persone…
Vero. Ma ci sono un po’ di cose da dire su “Estate”. Prima di tutto, il fatto di uscire a luglio. Già uscire a luglio è da matti di per sé, ma questo luglio 2020 era ancora più assurdo: perché aveva schiacciate addosso le uscite-mai-uscite di marzo, aprile, maggio, giugno, tutto è stato compresso in un mese. E chiaramente, le persone hanno solo due orecchie e un cervello per ascoltare. A parte questo, credo che in parte sia stata fraintesa, come traccia: l’idea era di scrivere una “mia” canzone e travestirla da canzone estiva – però restava una “mia” canzone, questo era. Invece forse è passata più la faccenda della “estività”, anche perché il testo era volutamente semplice e in alcuni passaggi pure enfatico, perché è così che sono i testi delle canzoni estive. Ad ogni modo lo dico chiaramente: se parliamo della parte strumentale di “Nuvole” lei sì, lei è veramente il posto dove sono a “casa”. Non è un travestimento, come “Estate”. Non è un gioco ironico. E’ piuttosto uno spogliarsi, un mettersi a nudo. E’ una base con un groove pazzesco, ma la cui parte ritmica è costituita da un unico colpo di rullante, uno solo: ti rendi conto? Si è lavorato per “togliere”, mettendo ordine su tutti gli elementi. Nelle primissime bozze, Fresco l’aveva mandata a Saturnino così, giusto per fargliela sentire, per avere un parere, nulla di che; la risposta di Saturnino è stata mandarci un file audio, una linea di basso perfetta, fatta da lui, da solo, a casa sua. E’ una traccia “fatta a mano”, “Nuvole”. Fatta in case, sì. Abbiamo fatto le nostre cose nelle case: finalmente! (ride, NdI)
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Ecco, perfetto che citi “Faccio la mia cosa nella casa”: brano che amo, e che ho riascoltato prima di farmi questa chiacchierata con te. C’è una frase nel testo che, col senno di poi, mi ha colpito ancora di più: “Traccio il confine tra il rap e il mondo”. Ti ricordi quando fare rap significava proprio voler essere profondamente, strutturalmente alternativi, come recisamente esplicitato in quel passaggio? Ne sono cambiate, di cose…
Sono cambiate sì. Perché nel frattempo il “mondo” siamo diventati noi: che confini vuoi tracciare? Puoi metterti ai margini. Puoi metterti il più possibile schiacciato sulle corde del ring. Ma sempre il “mondo” sei, ormai: lo sei, lo siamo, lo saremo. E a questo punto è utile allora cercare di modificarlo, il “mondo”; ma essendo oggi noi il “mondo”, dobbiamo iniziare a cambiare noi stessi per primi.
E’ il momento insomma di prendersi delle responsabilità. Lì dove invece, negli anni ’90, potevi permetterti di stare appollaiato su una posizione esclusivamente critica ed “esterna”. Quando si dice “Era meglio negli anni ‘90” secondo me bisognerebbe considerare pure questo…
Negli anni ’90 c’era una bellezza, oggi ce n’è un’altra, una bellezza che sicuramente ogni fascia d’età si vive in maniera differente. Una cosa è certa: avere vent’anni oggi non è come avere vent’anni negli anni ’90. E questo per un sacco di motivi sia positivi che negativi. L’operazione che ho deciso di compiere con “Nuvole” per certi versi nasce da un approccio molto anni ’90. Guardiamo però anche all’atto pratico: negli anni ’90, dovevi prima aver fatto un album, da questo album dovevi scegliere un singolo, di questo singolo dovevi girare un video (che ti costava come minimo decine di milioni), una volta che il video era pronto dovevi andare da MTV, Videomusic, eccetera, e sperare che il video piacesse, ma ovviamente era sempre tutto un’incognita. Oggi, invece? “Nuvole” l’ho distribuita – fatta quindi “vivere” – dal divano di casa mia. Letteralmente, eh. Non ho dovuto chiedere il permesso a nessuno. Non ho dovuto aspettare il parere di nessuno. Ho avuto la possibilità di aprire un mio canale, e di mostrarsi dentro esattamente quello che voglio. Bene: magari avercela avuta negli anni ’90, questa possibilità! Ti rendi conto? Pensa a quante cose avrebbero potuto essere diverse! Pensa a come si sarebbero sviluppate in altre maniere idee, mode, conoscenze…
Citavi tra l’altro come prima fosse necessario preparare un album, per far partire tutto il processo. Ed è effettivamente così, se volevi essere preso seriamente e non come meteora. Domanda: “Nuvole” fa parte di un futuro album, o ormai è semplicemente inutile pensare in termini di formato sulla lunga distanza? Magari siamo solo noi, avanti negli anni, ad essere così affezionati al concetto di LP…
Forse. C’è però da dire che è un formato a cui io non sono mai stato particolarmente legato. Mi piace più l’idea di una operazione tipo anni ’60 che, per i paradossi del tempo, è oggi anche quella più iper-contemporanea. Pensaci: negli anni ’60 gli album di Celentano e Morandi erano nient’altro che collezioni di singoli… Quando di singoli ne avevi abbastanza, buttavi dentro un paio di inediti e oplà, eri pronto per far uscire un album. Parlando di album, si sottovaluta il fatto che sì, scrivi una canzone, ma poi mentre ti metti a scrivere quella successiva la precedente sta macerando, inizia ad invecchiare, prende una patina sempre più grigiastra che non necessariamente la nobilita, anzi, certe volte proprio non le fa bene. A questo aggiungi che le modalità di lavoro “da album” non mi sono mai piaciute, perché non mi divertono. Cioè: devi stare fermo in studio a registrare, per mesi. Poi all’improvviso devi imbarcarti in lunghe sessioni promozionali. Poi il tour. Tutto a compartimenti stagni. A me invece piace molto l’idea che le persone possano dire “Toh, Frankie ha fatto un altro singolo, magari prima o poi li raccoglie tutti in un album…”. Bene: spero di fare abbastanza singoli belli da poter poi così avere un bell’album. L’approccio è questo.
Una cosa è certa: avere vent’anni oggi non è come avere vent’anni negli anni ’90
A proposito di bellezza, una cosa bellissima che hai fatto di cui secondo me non si è parlato abbastanza è la collaborazione con la band AljazZera.
Pazzesca, vero? Un’esperienza peraltro veramente atipica, nata perché qualcuno esterno sia a me che a loro ha voluto unirci sulla base di una semplice intuizione – mi riferisco a Giorgio Li Calzi, è stato lui ad avere l’idea di metterci insieme per l’edizione di due anni fa del Torino Jazz Festival di cui è direttore artistico. Io e gli AljazZera siamo due entità “diversamente torinesi”: pensa che loro hanno pure un valdostano in organico! (ride, NdI) Lo scontro tra i nostri rispettivi repertori ha generato un repertorio completamente nuovo: lo abbiamo sviluppato a Torino, e poi in altri festival. Questa collisione tra rap e un jazz strano, isterico, con influenze mediorientali, ci ha permesso di conoscerci, apprezzarci, amarci, aiutarci reciprocamente. E abbiamo finito coll’esibirci anche su palcoscenici importanti, penso ad esempio al Castello Sforzesco di Milano, il “salotto” della città. Sai, essendoci di mezzo il jazz magari ci si aspetta qualcosa di pronto ad essere fruito da tranquilli, da seduti…
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…da impettiti…
Non sono più così tanti, gli “impettiti” del jazz; ce ne sono per fortuna sempre di più in infradito. Ma ti garantisco che restano sempre “quelli del jazz”: altro che hip hop, gli appassionati del jazz sì che ti vivisezionano in quattro! E ti sderenano in quanto a nomi, citazioni, riferimenti, luoghi, note… ciao a tutti, davvero. Però è successo che il pubblico mio e quello di AljazZera si sono incontrati, hanno fatto amicizia, hanno iniziato anche a darsi di gomito (…qualcuno anche alzando il gomito, andando di festa!, ma sempre rispettando le regole). Ed è scattato qualcosa. E’ stata una cosa bellissima potersi esibire dal vivo. Così come era bellissimo portare in giro il mio monologo legato al libro. Non vedo l’ora di poter ricominciare.
Ma musicalmente dove ti situi, adesso, come artista? C’è stata una lunga fase in cui sì, era sempre importante la parola, da artista che fa rap non poteva essere altrimenti, ma la parte strumentale era abbastanza tradizionale, vicina al pop ed al rock di più largo consumo. AljazZera invece è stato un viaggio nella sperimentazione più spigolosa. Che peraltro non è certo qualcosa di cui tu non hai esperienza, anche se non tutti lo sanno o non tutti ci pensano.
Caspita, sì.
Vedi ad esempio quanto fatto con Sciarrino, uno dei più grandi compositori di musica classica contemporanea.
O il progetto con Marco Paolini. Con lui ho scritto un’oratorio rap per un’orchestra di ottanta elementi, su musiche di Mauro Montalbetti. Quella sì che è stata un’operazione trasversale: una bella derapata, proprio.
La mia personalissima impressione è che quando ti spingi su territori musicalmente meno canonici anche la tua parola diventa più incisiva, più ficcante.
Forse sì. Di sicuro, questa nuova ambientazione musicale in cui mi trovo ora, quella di “Nuvole”, mi piace parecchio: mi rappresenta tanto, ecco. La parola è in primo piano; e quello che c’è dietro, è ridotto all’essenziale. Ridurre il groove ad un unico colpo di rullante, per quanto riguarda la batteria, e poi a due suggestioni che appartengono ad un groove storico inciso nella memoria collettiva, quello di “It Takes Two” di Rob Base & Dj E-Z Rock preso a sua volta da “Think” di Lyn Collins, beh, tutto questo ti fa proprio portare con la mente alle origini dell’hip hop. Pensi a quando Kool Herc o chi per lui ha sentito il pezzo di Lyn Collins e ci “vede” una isola di libertà in mezzo al cantato, in mezzo agli strumenti; lo prende, e sulla base di quel piccolo frammento crea il caposaldo di una cultura intera. Incredibile, no? Una cultura che poi ha influenzato anche altri generi musicali; e questo è perfettamente coerente, pensando che questa stessa cultura è nata facendosi influenzare da musica che esisteva già. Con Fresco abbiamo fatto un lavoro molto particolare: di quel groove così famoso siamo andati a prendere solo la voce, perché la voce già di per sé aveva la “memoria” dell’intero groove, bastava essa ad evocarlo e riportarne la forza. La voce c’è fisicamente, le parti ritmiche apparentemente no ma in realtà ci sono anch’esse, solo che sono iscritte nella nostra memoria: questo gioco mi diverte parecchio. Mi diverte per il risultato finale: perché questa base ha un tiro devastante, non sai quante volte me la riascolto da sola, senza la parte vocale. E mi diverte anche per come ci siamo arrivati, al risultato finale, perché quel giro di basso di Saturnino inizialmente manco previsto ti porta via la testa e perché con Fresco abbiamo fatto una ricerca sonora ben precisa: ho ritirato fuori tutti i miei vecchi strumenti – girati nel frattempo proprio a Fresco, per il suo studio, e penso quindi all’E-mu SP-12, alla 808, alla 909 – e li abbiamo utilizzati per come si devono utilizzare. Musica con pochi elementi, sì. Ma dosati con attenzione. Come la cucina, se ci pensi: già, la musica è come la cucina.
Il risultato è il tuo pezzo più hip hop di sempre. Domanda: credi sia stato lo scrivere il libro ciò che ti ha definitivamente riavvicinato all’hip hop, dopo un periodo in cui pareva invece proprio te ne volessi staccare, o comunque non ti interessasse granché?
Mi piace questa cosa che fai scivolare come nulla fosse un’affermazione così importante: la notizia che uno come te mi dica che ho fatto il mio pezzo più hip hop di sempre è… guarda, grazie davvero! (ride, NdI) Ero talmente preso dalla gioia di sentirti dire questa cosa che poi mi sono perso la domanda…
Se è stato lo scrivere il libro, libro dove ripercorri la tua vita e la carriera legandola strettamente alla storia dell’hip hop, a riportarti ad avere un buon rapporto con l’hip hop stesso.
Sicuramente mi ha aiutato. Ma ti dirò, è stato il semplice atto in sé di scrivere un libro ad avermi riportato vicino alle mie radici – e quindi all’hip hop. Un riavvicinamento fruttuoso, gratificante, terapeutico. L’hip hop se lo sai prendere fa bene, questa è la verità. La storia dell’hip hop, se la studi, la leggi, la racconti, fa benissimo. Questo lo voglio dire forte e chiaro. Fa benissimo l’ascolto delle origini, il vedere come queste origini si sono via via trasformate, il modo in cui poi hanno sviluppato una cultura atipica e multiforme, che oggi magari sembra molto diversa rispetta a quella degli anni pionieristici ma in realtà ne è sempre una diretta emanazione. Su Instagram consiglio a tutti di andare a cercare il profilo di Stritti, uno della vecchia scuola di casa nostra (e quindi come regola nella vecchia scuola uno che è sia ballerino che dj che altro…): fa delle pillole di storia dell’hip da trenta, quaranta secondi che sono bellissime. Ti racconta in parole molto semplici ma molto efficaci cosa è stato, e perché lo è stato.
Io ho capito che la migliore strategia, in questo momento, è non avere una strategia, ma avere invece delle idee, tenere gli occhi bene aperti – in modo che si abituino all’oscurità
Dove vanno però oggi i tuoi ascolti quotidiani?
Non ho particolari mete che frequento con regolare abitudine. Mi piace ascoltare varie cose: dall’ultimo Skrillex, a cose di oltre vent’anni fa dei dEUS. Sono sempre stato molto eterogeneo nei miei ascolti e anche questa, sinceramente, credo sia una forma di omaggio inevitabile nei confronti della cultura hip hop. Uno come Bambaataa era eterogeneo per forza: eterogeneo, e coraggioso. Bisogna infatti avere coraggio per vincere un contest da dj sfoderano il tema della “Pantera Rosa” di Henry Mancini: vuol dire che ne hai colto il potenziale profondamente hip hop, quel certo tipo di energia, ed hai saputo adottarlo e sfoderarlo nel momento giusto, sfidando abitudini e convenzioni. Per riuscirci, devi da un lato avere degli ascolti molto vasti, perché devi sapere che esiste molta musica diversa; dall’altro questi ascolti devi farli con grande apertura ed elasticità mentale, per saperli riadattare al “tuo” mondo. C’è bisogno di talento. C’è bisogno di genio. Ma in realtà, al di là di questo, c’è una cosa da considerare sempre, e ne parlavo proprio qualche giorno fa con Claudio Coccoluto, di cui mi onoro di essere molto amico: del fatto cioè che la musica è prima di tutto un rito, è magia. Una serata avvolti dalla musica e nella musica è un rito catartico, i cui effetti – se il rito è svolto nella maniera giusta – possono durare nel tempo, sprigionando a lungo i propri effetti benefici. “Doni” la musica alle persone; esse la ricevono, la ballano, ne sono emozionate, creano attorno ad essa delle emozioni; e quelle stesse emozioni potranno richiamarle, potranno rimetterle in circolo in altri momenti della loro vita, quanto ne sentiranno il bisogno. Trovo tutto questo meraviglioso.
Dopo “Nuvole”? Che succede, adesso?
Sarà una sorpresa.
Quando arriverà?
Non lo so. Anche perché, per come si stanno evolvendo le cose, tu sapresti esattamente quando far uscire della nuova musica?
Ottima osservazione.
Io ho capito che la migliore strategia, in questo momento, è non avere una strategia, ma avere invece delle idee, tenere gli occhi bene aperti – in modo che si abituino all’oscurità, cogliendo quei segnali di luce che esistono in ogni buio di cui parlavamo all’inizio. Con “Nuvole” abbiamo fatto esattamente questo. Abbiamo colto gli sprazzi di luce: quelli in giro, e anche quelli dentro noi stessi. E questi sprazzi di luce li abbiamo a nostra volta generati, in tutte le persone che ce lo dicono, che ci scrivono, che mettono già a parole le sensazioni che noi abbiamo provato a creare.