L’abbiamo notata in tanti, tra appassionati vecchia (e media) scuola di hip hop, l’uscita di Lazza dopo i grandi risultati di “Cenere” a Sanremo, uscita che poi è stata doppiata anche dal suo entourage in vari luoghi e vari social. Ovvero: “L’hip hop ha vinto”.
L’hip hop ha vinto? Ma che? Davvero? A Sanremo?
Ma serio? Sì. Serio.
Ora: una prima serie di osservazioni sistematiche, pertinenti ed intelligenti le ha tirate fuori subito Claudio Cabona su Rockol, in un pezzo preciso, argomentato e ben organizzato che vi consigliamo assolutamente di leggere. Perché sì: come scrivevamo già in medias res, quest’anno Sanremo è stato un gigantesco passo indietro in quanto a coraggio, personalità, forza identitaria dei cantanti in gara. Praticamente tutti – anche quelli bravi e che hanno fatto bene – si sono rifugiati nelle strade più lineari e meno rischiose, più battute e meno avventurose. Una colossale paura di rischiare ha avvolto l’intero Festival. O forse è stato Amadeus ad averla imposta, visto che a sentir lui alla fine i brani li sceglie lui (…e sarebbe bello che il vero Mistero di Fatima italiano, ovvero chi prova a partecipare al Festival ma viene scartato, facesse sentire esplicitamente cosa era stato proposto e cosa è stato scartato, e con quali motivazioni: ma non lo si fa, perché spesso Sanremo è un “Si fa ma non si dice”, si prova a partecipare speranzosi ma poi, se si viene scartati, ci si rifugia quasi in un “Sanremo? Non so cosa sia, mai sentito”).
L’hip hop non ha vinto. Perché chi l’hip hop poteva portarlo avanti – Lazza, ma anche Mara Sattei / Thasup, o Izi che si è ragionevolmente “nascosto” dietro a De André, o Salmo che ha voluto giocare a reincarnarsi in Zucchero – si è ben guardato dal farlo. Su questo siamo tutti d’accordo, no?, e appunto già c’è chi l’ha scritto prima di noi, su Rockol, e l’ha fatto molto bene.
Qui però vogliamo fare un passo in avanti nell’analisi, o meglio, un passo a margine.
Perché ci si è affannati a dire che “L’hip hop ha vinto”? Perché lo si è fatto? Non è casuale, no. Non è per nulla casuale. Di più: non è nemmeno del tutto falso. Perché nel momento in cui al Festival di Sanremo arrivano Lazza, Gué, Salmo, Thasup, gli Articolo 31 e si prendono tutti degli slot piuttosto importanti, chi in gara e chi no, da protogonisti, davvero è un cambiamento epocale. Perché se negli anni ’90 qualcuno avesse immaginato un Sanremo con Sangue Misto, Colle Der Fomento, Sottotono, Fritz Da Cat e di nuovo Articolo 31 tutti insieme, beh, sarebbe stato preso per un visionario, e/o un coglione. Il dato di fatto oggettivo è che parecchi dei principali nomi della scena hip hop oggi vanno a Sanremo, e ci stanno bene, quando invece l’avessero fatto negli anni ’90 sarebbero stati fuori posto (aka, sarebbero stati trattati come scimmiette ammaestrate, come curiosi fenomeni paranormali e disadattati). Anzi, a dirla tutta, manco avrebbero mai pensato di andarci (…perché chi “toccava” Sanremo, vedi Caparezza nella sua precedente incarnazione da Mikimix, si beccava la fatwa della scena stessa, una fatwa bella pesante).
Bene.
Se per caso vi state aspettando il “Eeeeeeh, era meglio prima, negli anni ’90, quando si era antagonisti, si era alternativi” stop, fermi lì: non è questo il punto, e non è questo il discorso che vogliamo fare.
Non. Lo. È.
Certo, c’è la tentazione di voler sottolineare come l’hip hop in Italia ora sia completamente amorevolmente abbracciato al sistema (ricambiato!); di come voglia a tutti i costi essere nell’industria e cavalcarla; di come limoni duro costantemente col mainstream. Ma è una cosa che in America succede dal giorno zero o giù di lì, e francamente il rap e l’hip hop è nato in America, non in una sezione di Rifondazione Comunista o in un’assemblea del Leoncavallo o nella redazione del Manifesto o un think tank marxista, quindi ecco, può piacere, può non piacere, ma non ci si deve scandalizzare se chi nasce da questa storia e da questo background punta (anche) al mainstream: può essere nell’ordine delle cose, eccome. Anzi, spesso aiuta anche a migliorare e professionalizzare l’intera scena, rendendola “adulta”, sofisticata, scaltra, e non solo un giochetto per backpacker ingrugniti teneri ed ottusi.
Una cosa che ci dà oggettivamente fastidio però c’è, in questo gridare “L’hip hop ha vinto”: ed è proprio il fatto che ci sia del vero, nel dire che “L’hip hop ha vinto”. Qui sta il malefico paradosso, qui la cosa che un po’ ci fa incazzare.
Seguiteci.
Sia Sanremo che l’industria discografica che gli artisti stessi hanno infatti usato il surplus di credibilità che la cultura hip hop si porta dietro (è la cultura/musica senza compromessi, quella che parla il linguaggio della strada e del presente, quella che è autentica, quella che è davvero nella bocca degli adolescenti e dei ventenni), e l’hanno fatto non a caso o per passione ideale o (solo) per partigianeria ma per darsi un vantaggio competitivo. Fa notizia, “il rapper a Sanremo”: è come il leone in gabbia allo zoo (più è feroce, più ti viene voglia di andare a vederlo), è come King Kong portato in tournée nella città di provincia fra gli “Oooh” di meraviglia e timore del grande pubblico.
Questa è l’amara verità. Questo il meccanismo. Questo gli artisti lo sanno, magari anche solo nel loro subconscio. La prima identità, la prima credibilità se la sono guadagnata davvero con la cultura hip hop e coi suoi codici, codici spesso faticosi e cazzuti: non sono dei fake, non lo è Lazza, non lo è Rkomi (per citare uno che ha fatto la strada che presumibilmente Lazza ora farà, e auguriamo al secondo i numeri del primo, perché è bravo ed ha testa), ovviamente non lo sono Salmo, Gué e gli Articolo (già, manco loro lo sono, chi lo nega è in malafede). Lo zoccolo duro del loro pubblico e dei loro fan se lo sono formato proprio grazie a questa “appartenenza”.
…così come questa “appartenenza” li ha anche aiutati a farsi notare dal grande pubblico, ora che il grande pubblico attraversa questa fase in cui è affascinato dall’urban in senso lato: in cui i tatuaggi e le rime di strada li sfoderano anche quelli che danno il culo (ehi, metaforicamente…) pur di apparire dalla De Filippi e fare i tronisti, o quelli che vanno in campo a prendere a calci un pallone nel gioco più nazionalpopolare del mondo. C’è, nel mondo dei “normali”, una grandissima sete di “pericolosità di strada” (…una sete chiaramente da dissetare senza correre rischi, senza avere realmente a che fare con spacciatori e tagliagole: in questo Gué Pequeno in più di una intervista ha fatto analisi molto acute, e lui è uno a cui va dato rispetto, lui almeno la “thug life” ha voluto provarla davvero, non solo mimarla alla Playstation e nelle Stories pucciose ed algoritmo-friendly di Instagram).
Quindi sì: ha vinto l’hip hop, quest’anno a Sanremo. Ma ha vinto non per la musica e per la sua vera essenza (vedi la premessa: chi dall’hip hop arriva, una volta a Sanremo l’ha accantonato o come minimo annacquato e decontestualizzato), ma semplicemente perché è venuto a monetizzare la sua aura.
Ha venduto cioè al miglior offerente ed al consumatore di massa il simulacro di se stesso, la sua credibilità acquisita. O, rovesciando il discorso, gli artisti di background hip hop – incoraggiati dalle loro etichette e dai loro management – hanno accettato di partecipare a questa compravendita, evidentemente vantaggiosa, premurandosi di ricordare a se stessi ed alle persone che li osservano, supportano ed ascoltano solo quello che gli fa ancora comodo: ciò che loro sono “veri”, che loro arrivano da luoghi musicalmente e culturalmente autentici, che loro parlano il linguaggio del qui&ora e lo fanno senza compromessi.
Peccato che nel fare così hanno posto la loro firma e la loro faccia sull’idea che il mainstream possa assimilare tutto e fare fatturato su tutto, e quello che ti chiede in cambio – “annacquarti” un po’ – sia in realtà un prezzo sostenibile ed accettabile da pagare. Perché poi, che problema c’è?, puoi sempre presentarti davanti alle telecamere dei tuoi account scandendo: “L’hip hop ha vinto”. In letizia, euforia e serenità.
Ma puoi farlo davvero?
E se invece ti stessi tagliando i ponti alle tue spalle? Messo in conto, questo rischio?
Perché la credibilità ogni tanto è come la verginità: una volta messa in gioco, non ritorna intatta – che tu lo voglia o meno.
…poi per carità: non c’è nulla di male a trasformarsi da MC duro e puro a Vasco-Rossi-per-famiglie (o anche in una via di mezzo fra le due cose). Ma se lo fai, le tue coordinate culturali non le dettano più solo Notorious B.I.G, Q-Tip e Questlove, le dettano anche Ultimo, Coez e Mr. Rain. Nulla di male, eh! Ma basta dirselo. Basta non nasconderselo.
Però occhio a non entrare nel grande ballo dei cosplay, occhio…