Noi a Linecheck ci siamo divertiti. A voler tirare le somme a proposito di questo happening, protagonista della prima Music Week milanese ufficiale, possiamo parlare di esperienza positiva. È stato positivo prima di tutto l’accrescimento culturale che ha fatto da vettore per piccole scoperte, questo senz’altro. Ma in generale, è stata un’esperienza anche “entusiasmante”? Ecco, entusiasmante no. Sia chiaro, non è una critica, ma solo il frutto di un’analisi più ampia di quella superficiale che ci porterebbe a dire “Tutto figo: c’era Thundercat, c’era Gibbs, c’era la Juve, tanto roba…”.
Le ambizioni e la realtà sono lo yin e lo yang di chi organizza festival, il lato chiaro e quello scuro della stessa luna. Dino Lupelli, che insieme alla crew di Elita è il padre fondatore di Linecheck, è un sognatore: glielo leggi negli occhi quando lo incroci, quando lo vedi in prima fila al live di L I M a seguire e ad annotare mentalmente, quando scatta foto ad ogni set per sé, per suo piacere personale. È evidente e chiaro che tutta la crew dietro all’evento ha provato a tradurre in fatti i propri sogni e le proprie ambizioni.
Ambizioni, ecco, di quello vogliamo parlare, e Linecheck ne aveva di altissime: una line up di primo livello, eclettica, ampia, per molti versi coraggiosa. Ci vuole infatti un benedetto coraggio a mettere tra i main event Thundercat o Kokoko!, altrettanto coraggio a sparare uno come Mc Bin Laden sul palco minore del sabato sera mentre dall’altra parte suonano i Calibro 35 (…ah, i Calibro 35! In gran spolvero – ma non è una novità). Altrettanto coraggiosa ci è sembrata la scelta dei panel, perché portare ad esempio la Juventus a spiegare come il calcio sia entrato nel mondo della musica e viceversa è un impresa tanto intelligente quanto lontana da certi canoni di discussione musicale ormai noti; stessa cosa dicasi per il panel che ha visto protagonisti Alioscia e Massimo Bottura come anche molti degli altri panel, che non erano certo da considerarsi come nota a margine di Linecheck ma come evento dominante dell’appuntamento stesso.
Spesso però queste ambizioni sincere, affrontate sicuramente con professionalità da tutti quelli che hanno organizzato l’happening, si incontrano/scontrano con una realtà complessa dal punto di vista logistico. In questi cinque giorni di Linecheck la musica infatti l’abbiamo spesso immaginata più che sentita visti i limiti di acustica, questo è un punto fondamentale. Spiace dirlo, perché il BASE a Milano è uno di quegli spazi interessati da un intelligente recupero architettonico e urbano, tra i più belli presenti in città, e l’idea di farci un festival era sicuramente una ragionevole ambizione. Dobbiamo però a questo punto essere sinceri, arrivati alla prova dei fatti: la scelta della location a nostro giudizio si è rivelata abbastanza inadeguata. Il live di Thundercat abbiamo dovuto immaginarlo sia visivamente che uditivamente, come detto prima, colpa di un’acustica tremenda che da metà sala in poi trasformava i suoni e le linee melodiche ed armoniche (che ci raccontano bellissimi, soprattutto se non avete nulla contro il virtuosismo fusion) in un terribile pastrocchio. Stessa cosa per il live di James Holden e i suoi The Animal Spirits, così come per la quasi totalità degli show nel Second Stage; realtà ancor più dura il live di Telefon Tel Aviv, ai limiti dell’inascoltabile in qualsiasi posizione si fosse. Qui però va fatta una considerazione in più: l’impietosa acustica riverberata della seconda sala è solo una parte dei problemi di quello che per noi è il peggior live del 2017, almeno fra quelli che abbiamo visto personalmente. Magari è che per noi i pezzi di Telefon Tel Aviv sono protetti da una tragica sacralità, che è difficile pensare di andare a toccare; ma la ricerca di una nuova identità da parte di Joshua nel voler stravolgere pezzi storici della discografia, quelli composti ancora con una formazione a due, ci ha lasciato più che perplessi. Per usare un eufemismo.
Parlando invece dei panel, c’è un ragionamento ben più forte da farci sopra: qui location, organizzatori, festival, acustiche e fonici c’entrano poco. È costume comune lamentarsi dello stato dell’arte della musica, no? “Gli italiani non vanno all’estero, in Italia la produzione è così così ed è per questo che si esporta poco, le serate sono tutte uguali, il rap italiano è una merda, Kendrick in Italia non viene, viene solo Apparat”, tanto per fare un frullato delle più recenti polemiche da social attorno alla “nostra” musica. Un tal fermento, un’aria così critica ed esigente nei pensieri che ogni giorno affollano le nostre timeline, avrebbe dovuto portare a panel affollatissimi, ad un ribollire di idee continuo, ad una frizzante aria di cambiamento, di esserci, di voglia di fare; invece succede che la maggior parte degli incontri non siano deserti, questo no, ma popolati dai soliti quattro gatti (giornalisti, addetti al settore o giù di lì) che tanto vorrebbero far crescere quella musica italiana che non va oltre la nostra filter bubble e qualche buona webzine. I soliti noti, i soliti (ingenuamente?) entusiasti. Un peccato. Ci sia concesso almeno un sorriso amaro nel constatare, ad esempio, come al panel sulle tecniche di produzione non abbiamo visto nessuno dei tanti producer milanesi, molti dei quali di residenza proprio nell’area di BASE. Forse certi riscontri striminziti sulle loro produzioni, che vengono accreditati a teorici complotti o storture del sistema, nascono anche da una ridotta voglia di mettersi in gioco, mettersi in rete, cercare il confronto.
Raccontata così passa quasi un’idea di esperienza decisamente negativa; invece a Linecheck noi ci siamo divertiti, e vogliamo ripeterlo ancora. Ci sono piaciuti tantissimo Kokoko! e Jacques, siamo impazziti per Moses Sumney e Sevdaliza. Abbiamo apprezzato tanto l’attenzione rivolta alle nuove leve italiane: emozionante L I M e maturi i Niagara (condizionati dalla solita acustica infame), ci sarebbe da parlare bene anche degli Yombe penalizzati però da una parte finale di live che è stata bruscamente interrotta. Bello ed interessante il percorso di crescita pensato per Technoir, Charo Galura, LNDFK e Hån.
Allargando l’obiettivo, inutile dire che ci siamo appassionati con James Holden (finché siamo riusciti a stare aggrappati alle prime file lì dove si sentiva bene), sempre più santone; abbiamo cantato (bene!) insieme a Colapesce che a sua volta cantava (bene!) Battiato. Ci sono piaciuti meno Perfume Genius e i Little Dragon, ma siamo già nella sfera dei gusti personali, lì dove anche lo show di Iosonouncane ci è sembrato molto artistico ma piatto e dilatato. Abbiamo poi comprato ottimi dischi al Solid Music Market, il mercato di vinili e dintorni approntato per l’occasione. In generale, abbiamo apprezzato tanto l’atmosfera di Linecheck, con tanto di presenze straniere, e capito sin dal primo giorno il messaggio importantissimo “Spread Your Future”, incastonato tra mille generi e mille idee pronte a convergere tra di loro.
Se siamo stati garibaldini in alcuni passaggi nel commentare questo festival è solo per quella voglia di crescita che abbiamo visto negli occhi di Dino Lupelli e vediamo in tutti quelli come lui (o che lavorano per lui), sicuri come siamo che la prossima edizione si farà di tutto per renderla bellissima invece che solo abbastanza bella, come invece è stata questa. Se non ci siamo accodati anche noi a dire, come in molti dei report letti finora, che Linecheck ha “fatto il fuoco” è perché non siamo ancora sazi di questa scena che “…è brava ma non si applica”: questa scena potrebbe crescere di parecchio se al suo interno si passasse dalle parole ai fatti, e se tutti assieme si lavorasse per chiedere (e pretendere, ed ottenere) delle condizioni logistiche ideali. Le condizioni di base sono state poste. Linecheck, al suo terzo anno, inizia ad essere una realtà solida e anzi quest’anno molto più degli altri anni ha osato dal punto di vista della proposta artistica, lavorando con qualità; adesso si tratta di completare il viaggio, arrivando davvero a un livello al di sopra di ogni critica. Le potenzialità ci sono tutte.