Abbastanza impossibile che non ve ne siate accorti, se un minimo pascolate per il web (e se siete qui, lo fate): è uscito il primo album di Anna, “Vera Baddie” il titolo, e sì, c’è un profluvio di “Baddie” di qua, “Baddie” di là. Ora: quello che si può fare è semplicemente ignorare il tutto, se si reputa Anna non propriamente la propria tazza di tè; o in alternativa si può inveire su quanto faccia schifo la musica oggi, su quanto faccia schifo Anna, su quanto “…e questa chi è? Mai sentita”; in ultima analisi ci può incazzare anche con questa articolo e la sua stessa esistenza, visto che perpetua e rinforza il chiacchiericcio rispetto ad un’artista che è consistente fino ad un certo punto.
Premesso che ci sono anche quelli che – legittimamente! – appezzano Anna e/o ne trovano interessante il percorso, delle tre posizioni sopra elencate la terza può avere qualche pezza d’appoggio. Però “Vera Baddie” è per dirla alla Max Weber, un perfetto idealtipo di cosa sta succedendo alla musica oggi. Quindi forse vale la pena spenderci qualche parola. E sì, lo sappiamo che citando Max Weber abbiamo fatto roteare gli occhi a più di qualcuno, “…ecco la solita critica da boomer saccente, che si crede ‘stocazzo sputando sul pop di chi ha vent’anni con riferimenti culturali ‘alti’ completamente fuori contesto”: in realtà parliamo prima di tutto a chi ha venti, trent’anni oggi, non ai cinquantenni irrecuperabili che vivono ormai solo dagli anni novanta in giù, e tutto quello che è arrivato dopo è merda e/o inutilità. Quelli sono irrecuperabili al buon senso e ad un approccio analitico alla contemporaneità.
Il paradosso è che “Vera Baddie” è un buon prodotto. Assolutamente. È un album confezionato decisamente bene, oh sì. La performance al microfono di Anna è inappuntabile, fa quello che deve fare, lo fa bene, non sgarra, è precisa e si vede che si è applicata parecchio, invece di fare la cialtrona fancazzista che prova a lucrare sul fascino della cialtronaggine e del fancazzismo (…come fa il 90% dei suoi colleghi maschi, in questo ambito musicale: ma tuttora agli uomini si perdona tutto, alle donne quasi niente).
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Però ecco, proprio questi pregi del disco sono i suoi più velenosi limiti e pericoli. Quello che abbiamo di fronte, infatti, è un album che pare un Bignami della musica-urban-fatta-bene-che-funziona degli anni ’20. Tutto è al proprio posto. Tutto. Tutto. La “cattiveria” dell’interprete principale è calibrata al punto giusto: sgradevole ma mai troppo, oltraggiosa ma in fondo simpatica. Il rap è un po’ nuova scuola tutta-attitude, un po’ ogni tanto strizza l’occhio alla tecnica true school. I feat sono tutti azzeccati, hanno fatto tutti un buon lavoro, hanno tutti portato il loro flavour senza fare ombra alla capobranco. La quale capobranco è donna e sbandiera giustamente la propria femminilità assertiva, ok, ma per dare ad essa spessore usa tutti i luoghi comuni e gli interpreti del rap intesi nella chiave più maschile e tradizionale possibile (…fa eccezione il pezzo con Sillyelly: molto interessante e particolare, perché davvero ti chiedi se l’hyper-ironia dell’operazione-Sillyelly può diventare calata in un contesto mainstream una cosa seria e in cui ci si crede davvero). Sia mai che ci sia davvero un rap al femminile, un rap cioè diverso, non migliore o peggiore ma diverso, capace di scompaginare davvero le regole del gioco. Sia mai.
“Vera Baddie” potrebbe essere, e siamo abbastanza convinti che lo sia, un perfetto emblema di come l’industria discografica sia oggi all’apice del suo potere ma al tempo stesso stia, con release come queste, ponendo le basi per una prossima rovinosa crisi
Il punto è che ora ci stanno guadagnando troppo tutti. Perché scompaginare? Ci guadagna Anna che, miracolata da TikTok, si è ritrovata attorno una “macchina perfetta” che in pochi anni l’ha fatta crescere, maturare, l’ha imposta al mercato, l’ha trasformata in icona a colpi di featuring, di servizi fotografici e apparizioni pubbliche dove lo styling deborda, e Anna ha ricambiato facendo sempre le cose a modo, applicandosi, migliorando, studiando, non sgarrando mai. Ci guadagna la major di turno, che dimostra militarmente di aver capito, introiettato ed occupato tutti i caposaldi della musica “di strada” attuale, riuscendo a confezionare un disco perfetto in tal senso e che accidenti funziona pure: suona bene “sulla strada”, il posto di chi ha meno, ma suona bene nei conti in banca di chi ha moltissimo (e si occupa di chi sta “sulla strada” solo se questo serve a guadagnare ancora di più, mica per altro). Ci guadagnano poi i producer (attorno a “Vera Baddie” se sono radunati addirittura una quindicina, facendo peraltro quasi sempre un buon lavoro). Ci guadagnano infine pure gli organi di informazione generalisti o di settore che siano, che si avventano come iene disperate attorno ad Anna ed alla sua release offrendo feature magnificatorie a destra e manca, sperando di lucrare views in più e non lasciarle tutte ad Instagram e TikTok (…ma tanto ormai siamo già nel cortocircuito, la stalla è stata chiusa quando i buoi sono scappati già: le principali testate in ambito di musica per adolescenti, ventenni e trentenni donano oggi tutti i loro numeri a TikTok o ad Instagram, invece di tenerli per sé: vai a letto col nemico e sei pure entusiasta di farlo, ma perché sul breve ti conviene).
Ci guadagnano tutti, e “Vera Baddie” è pure un buon disco, fatto bene, confezionato bene, che si fa ascoltare, che intrattiene.
Dove sta allora il problema?
Sta nel fatto che “Vera Baddie” potrebbe essere, e siamo abbastanza convinti che lo sia, un perfetto emblema di come l’industria discografica sia oggi all’apice del suo potere ma al tempo stesso stia, con release come queste, ponendo le basi per una prossima rovinosa crisi simile a quella sofferta tra la seconda metà degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio, una crisi fatta di lacrime, sangue, gente licenziata, musicisti prima portati in palmo di mano e poi scaraventati sul lastrico. Non una bella cosa, che seguì invece decenni di espansione, lussi e spese allegre, in cui si pensava di essere invincibili ed inscalfibili.
Attorno ad Anna è stato costruito questo immaginario di “Baddie” non perché lei sia tale (chiunque la conosca un minimo, sa che non lo è: è una persona a modo), ma perché è l’immaginario che sul mercato poteva funzionare meglio: ed ha funzionato. E attorno al suo album di debutto “Vera Baddie”, ma in generale in tutta la sua costruzione di carriera, è stato fatto tutto quello che si doveva fare per ottenere il massimo risultato possibile – ottenendolo. Ecco, magari ci sbagliamo, ma in questo modo è stato scelto di ottenere l’uovo oggi al posto della gallina domani: con questo “sfruttamento intensivo”, è stato scelto il risultato immediato al posto dell’autenticità e dell’organicità.
“Vera Baddie” non è un disco, è un prodotto. Non è arte libera con le sue bellezze ed anche le sue imperfezioni ed i suoi scarti, è industria ad alto livello. Ed essere “baddie”, per quanto riguarda Anna, non è una caratteristica ma una calcolata leva di marketing. È un branding, ecco.
Che colpe ne ha Anna? Nessuna. Lei fa quello che deve fare, si applica, lo fa pure bene. Non è una colpa non voler essere anti-sistema. Che colpa ne ha il sistema attorno ad Anna, invece? Beh, torna ad essere “sistema”, invece che semplice aiuto logistico, nell’accezione più fosca del termine: le major tornano a voler controllare ogni aspetto di quello che fanno uscire, tornano ad imporre – trasformandolo in apparente suggerimento o amorevole aiuto – la ricetta perfetta “per funzionare”. Il problema è che queste cose le abbiamo già viste accadere, negli anni ’90, ed hanno portato alla rovina assoluta. Il perché lo spiegava già Frank Zappa:
“Vera Baddie” è un manuale di come dev’essere la musica rap/urban oggi, esattamente come i dischi dei – per dire – Lyricalz erano il manuale di come dovevano essere i dischi rap “della scena” nella seconda metà degli anni ’90: l’unica differenza è che oggi il rap ha un pubblico immenso, a fine anni ’90 era un micragnoso stagno. Però il meccanismo, che porta verso l’asfittico e lo sterile, era simile. “Vera Baddie” stilla da ogni poro profonda consapevolezza di come-vanno-fatte-le-cose, ma proprio quando l’industria inizia ad adagiarsi su questa consapevolezza, poi le cose piano piano iniziano ad andare male, per poi diventare nell’arco di un decennio una slavina di merda.
Noi vi avevamo avvertito, vi stiamo avvertendo.
Poi oh, magari sbagliamo.
Ma di grandi crisi della discografia ne abbiamo già vista una, e Napster ne era solo una delle cause, mica l’unica. Eh no.
Ci dispiacerebbe vederne un’altra. Anche perché, come sempre, i primi ad andarci di mezzo sono sempre gli artisti: vezzeggiati e coccolati finché funzionano, dei numeri da tagliare come esuberi appena non raggiungono i risultati messi a preventivo.