C’è il Linus che conoscono un po’ tutti: il conduttore di “Deejay chiama Italia”, in tandem con Nicola Savino – e in quanto tale è giustamente superpopolare, lodato, apprezzato, perché di persone con un approccio così naturale al microfono al tempo stesso senza dire le solite quattro banalità in croce, beh, ce n’è molto poca. C’è poi invece il Linus un po’ più da addetti ai lavori: uno che da quasi vent’anni ha in mano le sorti, come direttore artistico, di una delle radio più famose di Italia (forse la più “iconica”, se ci passate l’aggettivo) – una responsabilità insomma non da nulla. Bene, noi abbiamo intervistato entrambi: durante una chiacchierata lunga, rilassata e distesa sono stati toccati tantissimi punti, interessanti tanto per chi è incuriosito da cosa sta dietro al Linus speaker radiofonico quanto per chi vuole capire meglio certi meccanismi e certe dinamiche della comunicazione e dell’industria musicale.
Te lo dico subito, c’è una cosa particolare per cui ti ammiro: sei riuscito a diventare progressivamente “adulto”, facendolo in modo naturale. Una cosa che in Italia, mi pare, riesce piuttosto difficile: perché o trovi gente che gioca a fare l’eterno ragazzo, anche a quaranta/cinquanta anni, o trovi gente che già a trent’anni in qualche modo “appende la vita al chiodo” e considera la curiosità intellettuale sul presente&contemporaneo un lontano ricordo degli anni di gioventù. Sei uno dei pochi per cui potrei dire che il percorso fatto nell’arco di un ventennio e passa sia stato, in effetti, molto più sano. Sei “invecchiato” bene insomma: né facendo il giovanilista ad aeternum, né diventando subito un noioso nostalgico dei tempi che furono.
Beh, io ovviamente spero che tu abbia ragione. Il concetto di “adulto” è abbastanza ampio, sia dal punto di vista anagrafico che proprio di maturità personale. E diventare “adulti”, specialmente se fai un lavoro come il mio, è piuttosto difficile: perché hai la perenne tentazione di restare sempre ragazzo. Essendo appunto una “tentazione”, fa pensare a qualcosa di bello, di desiderabile; in realtà può diventare una condanna terribile. Perché se resti sempre prigioniero di quello-che-vorresti-essere, poi fai fatica a sovrapporti a quello-che-sei-davvero, e questo può diventare incredibilmente frustrante e mortificante. Vorresti insomma continuare a comportarti come quelli che hanno vent’anni meno di te ma sai cosa?, succede che quelli che hanno vent’anni in meno di te vanno più forte. Banalmente, è così; sarà che è il corridore in me a parlare, ma io la vedo esattamente così. Bisogna allora essere lucidi, bisogna riparametrarsi con quello che si è sul serio, non con quello che si vorrebbe essere. Io ho avuto una grande fortuna: la mia vita nel mondo dello spettacolo è stata abbastanza lineare. Perché ci sono personaggi che hanno avuto invece la fortuna, apparente, di diventare famosi molto facilmente e molto velocemente; ma questo può diventare una grande condanna. Se a diciotto anni vinci un Talent, poi a trentasei che ne sarà di te? Magari sarai un personaggio definitivamente affermato, e va bene; ma magari invece non ce l’avrai fatta e ti porterai dietro per sempre il ricordo di quando eri in cima alla montagna ma poi sei finito rovinosamente, inarrestabilmente a valle. Io invece ho pedalato fino alla cima della montagna andando piano piano, con molta gradualità.
…un falsopiano, diciamo.
Sì, di quelli progressivi. Quando vai in bicicletta puoi incontrare salite durissime, col 15%/18% di pendenza, ma sono brevi; così come puoi anche incontrarne di poco ripide, 5% o 6%, ma sono molto lunghe. Arrivano entrambe in cima, ok, ma le salite più lunghe forse arrivano più lontano… Al di là delle metafore: sono abbastanza contento di quello che ho fatto e del modo a cui ci sono arrivato. E’ chiaro che ad un certo punto fai fatica ad accettare di essere diventato “grande”. Considera che qualche volta mi trovo addirittura ad invidiare quelli di cui parlavi tu prima, quelli che diventano subito “vecchi”: non hanno mai avuto il tipo di trauma che possono avere persone come me, ad un certo punto a trent’anni hanno deciso di diventare grandi, casa, famiglia, abito grigio, e non hanno mai sentito il problema dell’invecchiamento. Per noi, per quelli come noi, è invece un’eterna lotta. E per “noi” intendo soprattutto chi sta nel mondo dello spettacolo: musica, cinema, televisione, sport…
C’è stato un momento in cui hai avuto la precisa percezione che non eri più “giovane”, con tutto quello che implica questo aggettivo?
Sì. Diversi momenti. A ripensarci bene, anche in un modo un po’ infantile la prima botta l’ho avuta a trent’anni. Sai, contemporaneamente erano successe tre cose che mi avevano abbastanza spiazzato. Fino a lì mi ero visto come un ragazzo-che-faceva-la-radio, poi di colpo: uno, mi sono venuti i primi capelli bianchi; due, è arrivato Jovanotti; tre, mi sono sposato. Nel giro di un mese mi sono sentito vecchissimo! Vecchio, vecchissimo, completamente fuori dai canoni della contemporaneità e sì, mi ricordo che in quel momento sono andato un po’ in confusione. Per fortuna ho poi superato questo impasse, e adesso diciamo che la vera sensazione di essere diventato “adulto” ti viene quando compare il “5” come prima cifra per definire la tua età… un numero che ti fa sentire… ecco… ci siamo capiti. Però in fondo da un certo punto in avanti cominci a non guardare più così tanto ai numeri, ma vivi un po’ alla giornata. La mia fortuna è che nonostante io di mio sia uno molto preciso, organizzato, razionale – e su queste mie caratteristiche ci ironizzo sopra anche molto, lo sai – in verità sono uno che non fa mai grandi progetti. La vita mi ha insegnato che quello che farò domani è l’evoluzione di quello che sto facendo oggi: perché pensare allora a dove sarò o cosa farò fra cinque anni? Il mio contratto con Radio Deejay scade nel 2018, poi dipenderà da me se andare avanti ancora o meno; ma come faccio a sapere oggi se nel 2018 avrò ancora voglia di fare quello che faccio, se mi starò divertendo, se il rapporto con questo che oggi è il mio mondo mi “apparterrà” ancora? E’ chiaro che io sto cambiando, e soprattutto le condizioni attorno a me sono cambiate, perché quando è nata Radio Deejay eravamo tutti uguali: stessa età, stesso imprinting, stessa storia dietro a noi e stessa storia davanti a noi. Guarda adesso, invece: stiamo avendo questa chiacchierata in un palazzo di sette piani, ci sono 200/250 persone che ci lavorano, ma di miei coetanei ne sono rimasti pochi…
Tra l’altro, tanto per complicare le cose, da un certo momento in avanti ti sei ritrovato ad avere un doppio ruolo: il Linus artista, quello che fa lo speaker, e il Linus invece direttore artistico di una delle principali radio italiane, con tutte le responsabilità che questo comporta. Che poi, mi pare che Deejay fra le principali e storiche radio italiane private sia quella che ha avuto, negli anni, la trasformazione più grande, tanto per rendere il tutto ancora più complicato…
Sì, decisamente. Se vogliamo, quella di Deejay negli anni è stata una trasformazione abbastanza involontaria – non ho problemi ad affermarlo. Io dico spesso: ognuno di noi fa quello che è. O almeno, questo è il modo in cui mi pongo io. La radio che ho fatto io, quando ho iniziato cioè a metterci le mani avendo la responsabilità di direttore artistico, tanto involontariamente quanto inevitabilmente era una radio che assomigliava a me. Mentre la radio che c’era prima assomigliava a chi c’era prima, chiaro. Mi sono ritrovato ad essere il direttore della radio nel 1994: il primo e in parte il secondo anno ho continuato nel solco che era stato tracciato prima di me, poi piano piano ho iniziato ad apportare delle modifiche. Nel 1996/97 ho iniziato ad inserire le doppie voci: Nicola con me, Giuseppe con Albertino, poi è arrivato Fabio e all’inizio era al microfono con Laura. In quel modo, comunque, piano piano la radio ha iniziato a dare più spazio al parlato che alla musica. Nella versione precedente c’era piena centralità alla musica, anche perché questa radio in alcuni periodi storici serviva quasi per lanciare dei dischi piuttosto che per intrattenere… Per fortuna, queste mie modifiche hanno funzionato.
Ci sarà stato, almeno all’inizio, chi ha provato a farti desistere da questa idea di trasformare Radio Deejay in una radio molto “parlata”, cosa che tra l’altro penso andasse contro i luoghi comuni sulla radiofonia di quegli anni… e forse anche di questi.
Oh sì. Ti racconto un aneddoto meraviglioso: io ho avuto per quindici anni circa come referente del Gruppo Espresso, l’editore di Radio Deejay, l’amministratore delegato, ovvero Marco Benedetto. Uno che un po’ mi ha fatto da padre, ma un po’ anche giustamente mi cazziava… anzi, sai, diciamo pure che quando si incazzava era uno determinato e piuttosto violento. Insomma: quando tu trasformi una cosa, c’è sempre un momento di stallo o di flessione. No? Inevitabile. E allora mi ricordo che nel 1998/99 avevamo toccato il nostro minimo: avevo preso la radio che era attestata sui 4,5 milioni di ascoltatori, in quella stagione ero arrivato a scendere sotto la soglia dei 4 milioni. Non una tragedia, ok, ma un percorso di flessione costante…
Casi in cui di solito si interviene pesantemente.
Io ero già intervenuto: ma appunto, per costruire quella che poi sarebbe diventa la Radio Deejay degli anni a venire. Evidentemente però in quel preciso momento il passaggio non era ancora stato completato del tutto, eravamo ancora in qualche modo a metà del guado, non eravamo ancora una creatura radiofonicamente compiuta, stavamo a metà fra quello che eravamo e quello che dovevamo essere. E Benedetto cosa fece? Mi mandò un biglietto, biglietto che devo ancora aver conservato (uno di quei biglietti da amministratore delegato, con tanto di nome, cognome e titolo ben scritti), con la stilografica c’aveva scritto sopra “Stiamo scivolando come una biglia su un piano inclinato. Cosa intendi fare?”.
Sì, non troppo rassicurante. E? Cosa hai fatto?
Niente. O meglio: non ho fatto nulla di quello che non avessi già in mente. Perché ero sicuro che stavo facendo le scelte giuste. Risultato? Dopo un anno abbiamo fatto il nostro picco d’ascolto più alto di tutti i tempi, 5,9 milioni: abbiamo guadagnato quasi 2 milioni di ascoltatori nell’arco di un anno… La lezione è: se ci credi, ci devi credere davvero. Non devi continuare a cambiare idea. Perché se lo fai, confondi sia quelli che lavorano con te sia quelli che ti seguono. Devi avere un progetto preciso e devi portarlo avanti, già sapendo che soprattutto all’inizio attraverserai momenti difficili.
“Se ci credi, ci devi credere davvero. Non devi continuare a cambiare idea.“
Ci vuole tempo, insomma.
Ci vuole il tempo per tutto. Cosa che ad esempio non succede più in televisione: in tivvù non succede più niente di nuovo perché non c’è più il tempo di far crescere le cose.
In effetti è sempre più frequente vedere programmi ammazzati dopo poche puntate, se non vanno bene subito.
Esatto.
Ma se la televisione è tanto dipendente dall’audience, quanto invece siete dipendenti voi – al di là dei dati di rilevazione sull’ascolto radiofonico – dai pareri e dai feedback degli ascoltatori? Fino a che punto vanno ascoltati, e quanto invece bisogna fare di testa propria?
Io credo assolutamente che bisogna fare di testa propria. E bisogna non essere dipendenti da quello che ti arriva addosso come feedback – anche perché di questi tempi ti arriva talmente tanto… Una volta se volevi comunicare con una radio dovevi scrivere una lettera, o telefonare, sempre che qualcuno poi ti rispondesse al telefono; adesso invece tra mail, sms, social, eccetera, il feedback in arrivo è quasi ossessivo. In una situazione del genere, devi imparare a saper scegliere il buono che c’è fra tutto quello che ti arriva. Spesso poi devi anche essere sufficientemente lucido da non credere ai complimenti: è chiaro che chi ti segue regolarmente vuol dire che gli piaci, quindi ti dirà essenzialmente quanto sei bello e quanto sei bravo… Ma al tempo stesso non devi nemmeno stare troppo ad ascoltare chi si lamenta perché hai tolto questo o quello: chiaro se tolgo qualcosa dal palinsesto a qualcuno questo dispiacerà. Le nostre fasce orarie hanno degli ascolti che variano dal milione, nel momento di massima audience, a 200.000: beh, 200.000 persone sono sempre tante, e se io decido che un determinato programma va cambiato ci saranno di sicuro, fra quelle 200.000, qualcuno che si sarà affezionato. Io però devo riuscire a fare dei cambiamenti prima che la gente si stufi – è questa la vera difficoltà del mio lavoro.
“Io però devo riuscire a fare dei cambiamenti prima che la gente si stufi – è questa la vera difficoltà del mio lavoro.“
Una responsabilità, questa sì, che non ti invidio. Cosa fai quando devi dire a qualcuno “Basta”?
Mi è successo un po’ di volte. Non tantissime, ma in vent’anni di direzione artistica almeno una decina di volte ho dovuto dire “Basta” a qualcuno. Persone a cui magari volevo bene a livello umano. Decidere di sostituire qualcuno è facile, molto; dirglielo, è difficile.
Ci credo.
L’attenuante è che se io sono convinto di quello che faccio, e sono in buonafede, so che quello che sto facendo è giusto. Non ho quindi rimpianti. Resta una cosa difficile da fare.
Esporsi del resto ti viene facile. Anzi, devo dire che una cosa notevole di te e del programma che conduci è che, come dire?, non ti nascondi: non ti nascondi dietro alla neutralità, nemmeno quando si parla di politica, ed è un caso più unico che raro, fra i programmi di un certo tipo e i tra loro conduttori.
Ma sì. Credo che sia anche un buon antidoto contro la noia del mio lavoro. La domanda è: perché dovrei continuare a fare un lavoro se per farlo sono costretto pure a fingere? Ho bisogno davvero di sentirmi un po’ più me stesso, a costo di non piacere a qualcuno. Faccio un programma che ha mediamente un milione di ascoltatori, lo share è mediamente del 10% in quella fascia oraria: questo vuol dire che un milione di persone mi sta ascoltando, ma nove milioni stanno ascoltando tutt’altro. Il punto è: meglio piacere tanto a quel milione, cercando giusto un po’ di allargarlo, o fare equilibrismi incredibili per provare a piacere a tutti? Qualche tempo fa ho avuto una piccola, banale polemica sul mio blog perché avevo postato alcune foto di una mia trasferta a Torino (ero andato a vedere Juve-Milan, tra l’altro la prima volta che portavo mio figlio piccolo allo stadio): foto di noi tre in macchina, foto di noi tre davanti allo stadio, infine foto anche ai tre biglietti. Io nemmeno c’ho pensato al fatto che sui biglietti c’erano i nostri nomi e cognomi, il settore – tribuna d’onore – e si potesse vedere che erano biglietti omaggio. E’ lì che è nata la polemica, “Ma come, tu che hai i soldi, proprio tu ti fai dare i biglietti omaggio”. La mia risposta è stata: “Ma a voi piace proprio essere presi per il culo”. La maggior parte delle persone nella mia posizione magari avrebbe fatto l’ipocrita, nascondendo il fatto che fossero biglietti omaggio; quando in realtà il mondo va in una certa maniera… Onestamente, se un giocatore della Juve vuole venire ad un mio spettacolo io lo vengo a prendere in braccio, non solo non lo faccio pagare! Figuriamoci. A volte la gente ha bisogno di essere presa per il culo, proprio…
Per un sacco di tempo l’accusa verso Radio Deejay è stata quella di condizionare il mercato: per certi versi “stabiliva” lei quali dischi potevano avere successo o meno, o almeno questa era un po’ la vulgata. A parte il fatto che credo che oggi, anche volendo, le cose non stiano più così visto come è cambiato il modo di approvvigionarsi di musica, quando queste accuse circolavano come bisognava reagire? E anche, quanto c’era di vero?
Beh, negli anni ’80 producevamo anche musica, quando la radio era di Claudio Cecchetto. Lui aveva anche un’etichetta: da Jovanotti agli 883, un sacco di roba era sua. Quindi sì, in quegli anni volendo era un appunto sensato… Però oh, la radio era sua, e giustamente ci poteva fare quello che voleva – se alla gente non va bene, può sempre decidere di non ascoltarti, è un attimo. Dopodiché, chi successivamente è arrivato a condurre la radio ha sempre fatto scelte slegate da interessi diretti. C’è stato un momento negli anni ’90 in cui il Deejay Time condotto da Albertino faceva talmente tanto successo che sì, di sicuro influenzava quello che succedeva nel mercato dance; ma Alberto non ha mai fatto dischi suoi, non ha mai prodotto cose sue, al massimo avrà fatto qualche favore a qualche amico – che ci poteva anche stare, o magari era in parte discutibile – ma era roba talmente marginale che le accuse che potevano arrivare, in quei casi lì, erano più che altro quelle di chi si lamenta perché in discoteca non lo fai entrare nel privé. Detto questo, noi le scelte le facciamo adesso in totale autonomia e in totale buone fede; siamo e saremmo contenti di essere sempre in grado di influenzare il mercato, sarebbe un merito, non un difetto.
Che poi, parliamo di un mercato che è drasticamente cambiato negli ultimi anni. Un tempo quella potente era la discografia. Poi, caduta a pezzi lei, dimezzatasi o peggio, è la radio che è sembrata la vera potenza. Ma adesso?
Adesso, di sicuro la radio continua ad essere molto più potente della discografia. Senza contare che la discografia oggi è talmente priva di risorse che, anche volendo, non potrebbe corrompere proprio nessuno. La radio, nonostante il mezzo sia apparentemente obsoleto, pure in questo momento – lo leggevo qualche giorno fa anche in un’inchiesta americana – continua ad essere il primo veicolo per diffondere le novità musicali: insomma, un suo ruolo ce l’ha ancora. Poi: ci sono radio, alcune, che prendono soldi per mettere certi dischi – ma non la nostra. Ci sono radio che suonano a dismisura dischi prodotti da loro – ma non la nostra. Su questo, posso tranquillamente dire che siamo al di sopra delle parti.
Ti è mai capitato di ascoltare un altro programma, su un’altra radio, e di provare sana invidia?
Poco. Raramente. A volte magari ascoltando alcuni programmi di Radio Rai puoi provare invidia per la struttura redazionale che vi intravedi; che so, il programma di Sabelli Fioretti, che di suo non è il mio tipo di programma ma l’ho sentito un paio di volte e accidenti se mi faceva invidia questa presenza costante di personaggi importanti uno dopo l’altro, al telefono, in studio – lì capisci che c’è un grandissimo lavoro redazionale dietro, con molte persone coinvolte. Noi siamo molto più terra terra: in un nostro programma c’è lo speaker, un redattore, una ragazza al centralino, e stop. I nostri programmi sono “isole produttive” molto piccole. Quindi sì, quella è una cosa che mi capita di invidiare, ad alcuni altri. Oppure, altra questione, ci sono programmi come la “Zanzara”: Cruciani è un simpatico stronzo, ma è molto bravo. Uno come il suo è tuttavia un tipo di programma che noi a Deejay non ci possiamo permettere: ci sposterebbe troppo su mondo che – credo – non ci appartiene, almeno per ora. Quindi sì, c’è dell’invidia: ma quando c’è è per cose diverse dalle nostre, che noi per vari motivi non possiamo o non vogliamo permetterci. Ogni tanto magari viene la tentazione di tornare un po’ indietro nel tempo e fare dei programmi musicalmente più aggressivi; ma anche lì, sai, siamo diventato un po’ una radio mainstream, non è che possiamo essere troppo estremi. Trovare il giusto bilanciamento è sempre difficile, in ogni caso.
Che effetto ti fa ascoltare m2o, che è dello stesso gruppo editoriale vostro e per certi versi vuole essere oggi quello che era Deejay in un certo periodo degli anni ’90?
Mi diverte. Mi verrebbe qualche volta voglia di metterci becco, perché io non sono capace di ascoltare una radio – qualsiasi radio! – senza farmi venir la voglia di dire “Qua secondo me sbagliate, qua potresti fare così…”; però mi trattengo, ecco… (ride, NdI) Sì, mi ricorda un po’ la Radio Deejay che fu; ma credo oggi non ci siano più i tempi, o almeno diciamo che oggi una radio di quel tipo a me non piacerebbe ascoltarla regolarmente. E’ pure vero che forse sono io che non ho più l’età; forse i miei gusti si sono nel frattempo non dico evoluti, ma modificati.
Ma club e discoteche, nella tua percezione, sono meglio adesso o erano meglio negli anni ’80 e ’90?
Dover dire “Si stava meglio una volta” è una cosa che odio, mi fa sentire vecchio, mi imbarazza tantissimo. Ma da quel poco che le frequento, posso dirti che vero, oggi le discoteche non mi piacciono.
Come mai?
Sono asettiche. La gente balla solo, come dire?, per pregiudizio. Io sfido il 90% del pubblico presente in una serata, oggi, a dire con cognizione di causa se il dj che sta suonando davanti a loro è bravo o è un cane. Perché oggi fino ad un certo livello grazie alla tecnologia sono bravi tutti, con la tecnologia che c’è adesso è impossibile essere incapaci. Poi c’è la questione del gusto, che è quello che è: si va in discoteca perché “qualcuno” ha stabilito che quel dj è bravo, e allora per partito preso va bene tutto. Un atteggiamento che trovo un po’ supino. Quando lavoravamo noi, la gente era molto più diffidente, molto più difficile da accontentare: quindi dovevi essere bravo veramente, se stavi ad un certo livello. Ci voleva qualità, ci voleva personalità. Ovvio, i bravi ci sono anche oggi e il loro valore viene comunque fuori, però mi sembra che club e discoteche oggi siano diventati dei posti un po’ anonimi. Ed anche autoghettizzanti: ci va solo un certo tipo di pubblico, una certa fascia d’età.
“Io sfido il 90% del pubblico presente in una serata, oggi, a dire con cognizione di causa se il dj che sta suonando davanti a loro è bravo o è un cane.“
Un pubblico per giunta poco esigente.
Probabilmente sì, si accontentano di quello che gli passa davanti. Anche perché ci sono cresciuti, con quello che gli passa davanti; noi invece siamo cresciuti con Michael Jackson…