Cultura è stata forse la parola più usata durante tutto il festival. L’idea forte degli organizzatori che la musica da ballo non sia solo un miscuglio di sintetizzatori suonato ad alto volume per far scatenare un gruppo di ubriachi, ma che sia il filo conduttore di tutto un movimento, di una sottocultura, di una parte della società, con i suoi riti, il suo vocabolario e i suoi valori. Il Lisboa Dance Festival vuole essere proprio il punto d’incontro per tutti coloro che bazzicano l’ambiente più underground della musica elettronica, una casa sicura in cui chiacchierare e fare festa sotto lo stesso tetto. Noi siamo passati di là per la seconda serata, quella del 10 marzo, e abbiamo voluto raccontarvi le nostre impressioni.
Sono tanti piccoli elementi a confermare la qualità del festival: c’è il freak che balla da solo alle 6 di sera e nessuno attorno che lo giudichi, c’è Prins Thomas che sorride dietro i piatti quando riversa i colpi di cassa sulla pista e c’è il pubblico sincronizzato, sul ritmo e rivolto verso il palco, quasi a venerare chi li sta prendendo per mano e trascinando sulla pista da ballo. I buttafuori sono addirittura gentili e di schermini luminosi intenti a filmare se ne vedono davvero pochi, anche senza il bisogno di bollini sulla fotocamera. Ci sono i notevoli set di Midland e PEDRO (fka KKiNG KONG), Bawrut parte un po’ sottotono ma si riprende con dischi vecchia scuola del calibro di Computer Madness. A stridere con l’ambiente sono solo alcuni turisti inglesi, di quelli con i cappelli di paglia e gli starlight, troppo esuberanti nell’invadere lo spazio altrui. Ci penseranno alcool e droghe scadenti a metterli fuori gioco dopo poco.
(Una delle sale del Lisboa Dance Festival; continua sotto)
Una delle discussioni più interessanti del pomeriggio si è imperniata proprio sull’impatto che il turismo ed in generale l’immigrazione verso Lisbona sta avendo sulla città. Il dibattito si trasla perfettamente anche in ambito club e festival: se da un lato quest’invasione ha portato nuovi introiti e permesso di migliorare la qualità dell’offerta, è vero anche che molti club e festival stanno adattando le loro line up per accontentare un pubblico più eterogeneo, a scapito della loro identità, accelerando l’inflazione dei prezzi. Lisbona è una delle città europee in cui la cultura è più accessibile, per quanto questo modello sarà sostenibile? Il prezzo del biglietto del festival è già un segnale di omologazione con gli standard europei. Chiaramente non sono solo gli stranieri ad influenzare la cultura locale, è un processo globale per cui tramite internet si ha accesso praticamente infinito ed immediato alle informazioni, avviando un processo di omologazione generale di cui ancora non conosciamo bene le conseguenze. Per alcuni è un problema, per altri un’opportunità, ed è giusto parlarne.
Una delle soluzioni più gettonate è stata quella di istituire un “sindaco della notte” seguendo il modello di successo applicato ad Amsterdam, per unire le forze e definire una linea comune da seguire. In generale comunque il clima è sembrato positivo e ottimista, i portoghesi si stanno rendendo conto che il mix culturale unico di questa città sta producendo risultati notevoli e sono sempre più gli artisti che mettono Lisbona nel loro itinerario o che stanno pensando di andare a viverci.
(l’esterno dell’Hub Criativo di Beato, la sede del festival; continua sotto)
Si è parlato anche del rapporto tra brand e musica, questione sempre spinosa quando si mette in dubbio l’autenticità dell’artista piegato da questioni economiche. Con la rivoluzione industriale l’avvento del capitalismo finirono i tempi del mecenatismo, quando erano gli imperatori e i nobili abbienti a contribuire al sostentamento degli artisti. In tutto il mondo dell’arte ci fu un radicale cambiamento, si apriva una nuova era in cui era il pubblico a contribuire al sostentamento dell’attività artistica, con tutte le nuove logiche e le contraddizioni del caso. Nel mondo di oggi stiamo assistendo ad un nuovo cambio di paradigma, è diventato molto più facile accedere gratuitamente a musica e cultura, sia legalmente che illegalmente, e gli artisti sono spesso costretti a cercare nuove forme di sostentamento per sopravvivere in un mercato sempre più saturo e competitivo. È qui che entrano in gioco le aziende più illuminate che hanno compreso il potere comunicativo di situazioni come festival e concerti. Lo fanno con sponsorizzazioni dirette ad eventi e artisti, ma anche indirettamente: un esempio lampante sono Spotify e Youtube, che ottengono una grossa fetta dei loro ricavi proprio dalla pubblicità che decidiamo di sopportare in cambio di musica gratis. Ad oggi la mano dei vari marchi è ancora molto evidente e naïf, avere una macchina esposta ad un festival stride un po’ con l’ambiente circostante, è molto più semplice chiudere un occhio quando il main sponsor dell’evento ti offre un passaggio per tornare in centro città. I direttori marketing stanno comunque iniziando a parlare la stessa lingua degli addetti ai lavori e ci si aspetta presto una simbiosi più fluida: siamo ancora agli inizi di quest’influenza massiccia delle aziende nel mondo della musica, una specie di mecenatismo 2.0.
Lisboa Dance Festival non è stato solo panel e musica: una doverosa menzione va all’esperimento portato avanti dal BoCa, biennale di arte contemporanea, che ha organizzato l’esposizione all’interno del festival, tra cori femminili che intonano i Kraftwerk e video di rave nordeuropei dall’audio terribile passati in tv. Proprio quest’ultima opera ha la forza e l’arguzia di mostrare l’effetto straniante di essere ad un party e guardare altre persone festeggiare dietro ad uno schermo. Sarebbe una sfida interessante per la prossima edizione quella di sfidare gli artisti a fondersi maggiormente con il festival e dialogare con il pubblico, cosa peraltro riuscita meglio ad uno degli sponsor tramite pannelli interattivi, anziché restare relegati ad una sala marginale, che è un po’ una “comfort zone”.
Quando la Filarmonica di Vienna suona, non lo fa in una sala qualsiasi, ma solo in teatri dall’acustica studiata maniacalmente da ingegneri del suono. Spostare l’orchestra in una sala qualsiasi creerebbe un effetto straniante, una collisione tra qualità evidente e condizioni ambientali che non la fanno apprezzare. Questa è stata un po’ la sensazione al Lisboa Dance Festival, un’idea giusta nel posto sbagliato. Se fare festa nei capannoni di un ex complesso industriale solletica le fantasie dei nostalgici della scena rave delle origini, è innegabile che l’acustica di una sala pensata per contenere macchinari mastodontici non giochi molto a favore della musica. Aggiungici una posizione non proprio semplice da raggiungere con i mezzi pubblici e la coincidenza di cadere proprio nell’unica settimana di freddo e pioggia a Lisbona e riceverai una risposta non proprio travolgente da parte del pubblico, non abbastanza per riempire un complesso di edifici mastodontico.
(Hub Criativo di Beato, gli spazi interni; continua sotto)
L’Hub Criativo di Beato ha chiaramente tutte le carte in regola per diventare uno dei poli creativi e innovatori più importanti d’Europa ma, ad oggi, è solo una collezione di edifici spogli e grezzi, con qualche macchinario lasciato qua e là. Probabilmente è solo troppo presto, bisognerà aspettare che la gentrificazione dell’area faccia il suo corso. Stiamo cercando il pelo nell’uovo di un’iniziativa comunque più che positiva positiva, i margini di miglioramento ci sono e sono anche abbastanza evidenti, ma c’è solo da essere ottimisti in vista della quarta edizione. Se l’idea era quella di costruire un luogo confortevole per accogliere gli adepti delle feste a base di musica elettronica, la strada è decisamente quella giusta. Magari entra qualche spiffero di troppo dalle finestre e il divano non è comodo come quello della nonna, ma è comunque sempre bello avere un posto da poter chiamare “casa”.