Sta suscitando tanto scalpore in rete, almeno dalle “nostre” parti, quanto emerso ieri in un articolo pubblicato dal sito di Radio Città del Capo (storica emittente bolognese), ripreso poi anche da altre testate come ad esempio Repubblica. In sintesi: roBOt Festival in quest’ultima edizione si è ritrovato con un buco – stimato a spanne – sui 300.000 euro, molti lavoratori non sono ancora stati pagati, a parecchi di essi è stato proposto un saldo pari a metà di quanto originariamente pattuito. Questi i nudi fatti. Le reazioni in giro sono state tante, e sono state svariate: da quelle di dispiacere, a quelle di “l’avevo detto io”, a quelli che addirittura sembrano i commercialisti segreti del festival (“No ma il buco in realtà è molto più grande, vi dico io di quanto è”), ai complottisti (più o meno, che sia tutta una scusa per pagare meno). Al solito: il mare magnum della rete. Com’è giusto che sia, è normale.
Ora: qua a Soundwall il rapporto con roBOt è consolidato, lo è da parecchi anni, e siamo orgogliosi delle collaborazioni che si sono succedute negli anni. Abbiamo ovviamente seguito con attenzione anche questa ultima edizione, e chi vi scrive queste righe è anche l’autore del report finale dell’evento. A dirla tutta: chi vi scrive, non è per nulla sorpreso da quanto emerso ieri. Lo sapevo già. Lo sapevo fin dal venerdì: chiaro, non si poteva sapere l’entità precise del deficit di bilancio finale, ma visti gli anni di esperienza nel seguire eventi, nel conoscerne i meccanismi, nel pensare non solo se questo o quel set è stato bello – che spesso è l’aspetto su cui la stampa specializzata purtroppo si ferma – ma nel considerare tutti gli aspetti possibili (valutare ad occhio le spese di produzione, provare ad immaginare il rapporto tra spese sui cachet, prezzo dei biglietti e pubblico presente, ecco, considerando tutto questo, vedendo com’era andato il venerdì in Fiera, sapendo quali erano le prevendite per il sabato, già dopo la prima serata il quadro era chiaro. E come era chiaro a me, era ovviamente ancora più chiaro a chi il festival lo stava facendo.
Ecco. Ci immaginiamo già i più polemici: “Lo sapevi! Hai insabbiato tutto! Non hai detto niente! Hai coperto le malefatte di roBOt solo perché sono amici tuoi, amici vostri! Il solito magna-magna”. I più polemici spesso sono anche quelli con dei deficit di comprensione e/o di attenzione. Perché ad esempio non hanno dato abbastanza attenzione ad un passaggio molto preciso del nostro report: “Chiaro, l’amaro in bocca resta. La sensazione di una accelerazione non riuscita è innegabile. Speriamo non sia questa accelerazione a metà a far finire fuori strada un festival che anno dopo anno ha sempre regalato tantissimo, in qualità vera e buone vibrazioni super-autentiche”. In realtà si andava ancora più a fondo alla questione, perché subito dopo aggiungevo: “D’altro canto, pare proprio che questa scelta “accelerazionista/gigantista” per gli spazi notturni tanto discutibile fosse una strada obbligata e non, appunto, una scelta libera (per contrattare un certo tipo di spazi devi dialogare in alto, molto in alto, così in alto che spesso gliene importa gran poco che tu stia facendo uno degli eventi più importanti di sempre per una cosa, però, che ancora non viene vista del tutto come cultura: quando tratti da posizioni di debolezza, in Italia va così). Ad ogni modo: l’anno prossimo, se tutto va bene, sarà comunque fondamentale calibrare ben più che accelerare”. Gli elementi ci sono un po’ tutti.
Ma il polemico, giustamente dal suo punto di vista, non si fa tacitare così. Lo sentiamo già pensare: “E allora? Sapevi che ci stavano andando sotto di centinaia di migliaia di euro, lo sapevi che non sarebbero riusciti a pagare le povere vittime che hanno lavorato per loro, ‘sti disonesti, e non li hai denunciati. Sei colpevole anche tu, solite robe da giornalisti, tutti compromessi, tutti prezzolati”. Voi che state leggendo, la vedete così? Va bene. Però permetteteci, prima di emettere la vostra infuocata sentenza di condanna, di inquadrare un po’ meglio il tutto. Così magari si evita di dare patenti di disonestà, e soprattutto di partire con la filostrocca “Solo in Italia succedono queste cose…”.
Ad esempio: solo chi è abituato ad organizzare serate singole (e magari nemmeno troppo grandi) può trovare mostruosa la cifra di 300.000 euro circa come deficit per una manifestazione. Tra i grandi eventi musicali in Italia – quelli capaci di trascinare dalle 10/15.000 persone in su – non è né la prima né tantomeno la più grande perdita mai registrata. Di più, e questo lo diciamo per i tanti che la mattina si svegliano e dicono “Ho avuto un’idea geniale! Faccio un festival!” (sono tantissimi, il sottoscritto ne becca tipo almeno uno al mese, di media): di solito i festival fino a quando non raggiungono un punto d’equilibrio sono strutturalmente in perdita. Le perdite si possono limitare facendo sempre il passo non più lungo della gamba, non superando certi limiti; ma non superando certi limiti, il festival in questione dovrà sempre fare affidamento su 1) fondi pubblici 2) e/o un sacco di lavoro volontario e non retribuito. Non se ne esce (e il punto 1, come noto, è di una difficoltà mostruosa, come ora spieghiamo). Ci sarebbe appunto un punto terzo, ovvero uno o più sponsor che fanno da mecenate coprendo una percentuale enorme delle spese, ma questo punto scordatevelo: siete mica un’opera o la fondazione di un teatro lirico, o una festa di piazza patrocinata dal Comune con un po’ di catafalchi sanremesi chiamati sul palco, o almeno un evento con degli ospiti molto “televisivi”, cosa credete! Perché questi, in Italia, sembrano ancora oggi gli unici contesti in cui pare “prestigioso” apporre degli investimenti effettivamente corposi, sia da parte delle istituzioni che da parte dei privati. Un corto circuito che è diretta emanazione della progressiva sclerotizzazione e stasi culturale-sociale che questo paese ha vissuto negli ultimi venticinque anni, tranne rare e benemerite eccezioni.
Quindi ecco, può capitare di perdere di 300.000 euro e passa, se vuoi fare in modo che organizzare festival possa diventare un lavoro nella tua vita, cosa che meriteresti anche visto che lo sai fare anche bene. Devi correre dei rischi, buttarti, e i rischi guarda un po’ non sempre vanno a buon fine: è la vita. Stiamo dicendo che roBOt non ha fatto errori e va tutto bene madama la marchesa? No. No e poi no. Sicuramente è stato fatto il passo più lungo della gamba. Sicuramente si è sovrastimato il proprio brand, la propria capacità di essere appetibile ed attrarre gente: nel momento in cui pensi di attrarre 25.000 persone – è qui che fissi l’asticella della sostenibilità economica – con dei nomi sì di grande qualità ma poco noti al grande pubblico, stai facendo o dell’eccesso di ottimismo o un peccato di superbia (perché pensi che il tuo marchio sia talmente conosciuto da attrarre la gente a prescindere). D’altro canto in questo errore può aver indotto quello che era successo nell’edizione dell’anno prima: quando rispetti agli obiettivi di partenza il risultato finale era stato molto sopra le aspettative, a livello di presenza. L’ottimismo nasce da lì. Su questo poi va innestato un’altra considerazione, già evidenziata in sede di report: scegliere spazi amplissimi della fiera (con conseguente moltiplicazione dei costi per l’allestimento) è stata una scelta obbligata, imposta dall’alto per motivi diciamo organizzativi (altri padiglioni, a misura più “umana”, ad un certo punto erano diventati non disponibili).
Insomma, un insieme di fattori. Oltre all’errore dell’ottimismo, c’è poi un errore più grave: non avere le spalle abbastanza larghe. Infatti, ora lo staff di roBOt sta proponendo come si diceva a molti un saldo della metà delle spettanze, ovvero un accordo che possa rendere sostenibile il piano di rientro: visto che i 300.000 (o quelli che sono) per appianare a zero tutti i debiti in cassa non ci sono. Si è giocato d’azzardo. Purtroppo, nel nostro tipo di società (turbo)capitalista giocare d’azzardo è una prassi comune. Lo è a tutti i livelli, a partire da quelli più alti della finanza: e non solo i “furbetti del quartierino”, ricordate?, ma anche grand commis ancora oggi lodati e riveriti vivono su una montagna di debiti che non potrebbero mai rifondere. Esattamente come fanno gli Stati Uniti d’America tutti, che hanno un debito pubblico e privato aggregato pari quasi a tre volte il PIL prodotto dall’intera nazione: se un giorno la Cina si svegliasse e dicesse “Amici americani, facciamo che domani ci restituite quello che vi abbiamo prestato?” l’America andrebbe in bancarotta immediatamente, impossibilitata a ridare i soldi prestati. E parliamo solo di Cina, gli stati con in mano dei titoli del Tesoro americano sono molteplici. Ma un’America in bancarotta, se da un lato sarebbe una questione di giustizia (“I debiti vanno onorati”), dall’altro creerebbe una catastrofe economica mondiale. Catastrofe che investirebbe anche la Cina – che vive di esportazioni – quindi i capi del governo e delle finanze cinesi si guardano bene dal pretendere una restituzione improvvisa del debito. Sempre per restare solo alla Cina.
Ora. Senza America non si può vivere, ok, ma senza roBOt si può vivere. Ovvio. Eccome. Sono due dimensioni completamente diverse, abissalmente diverse. Ma la domanda è: staremmo meglio senza roBOt? La nostra vita migliorerebbe? Che lo staff del festival abbia fatto un grosso errore di fondo, sopravvalutandosi e sbagliando per eccesso di ottimismo il business plan rispetto alle proprie risorse, è vero. Ma, questo è il punto, sono cose che succedono. Anzi: roBOt sta dando una bella dimostrazione di trasparenza non nascondendosi, rispondendo alle domande, spiegando qual è la situazione. Questa, signore e signori, è un’eccezione. Anche nel mondo musicale. Di attori, anche molto grossi, che non pagano subito e non pagano tutto ce ne sono a bizzeffe (esattamente come ce ne sono nell’economia reale, chiunque faccia l’imprenditore o il libero professionista lo sa, spesso lo sanno anche i dipendenti di aziende private). Denunciarli tutti? Boicottarli? Costringerli a smettere subito di operare? Si può anche fare. Ma serve? Migliora le cose? Aiuta ad avere saldati i propri debiti? La risposta, piaccia o meno, è un triplo no. Bisogna essere realisti, e ottenere il possibile.
Ovvio: chi in modo piratesco perpetra e perpetua il giochetto del “Faccio tutto a debito, ogni tanto fallisco, così poi riparto da zero e riprendo il giochino” è un criminale. Di sicuro non è questo il caso di roBOt. Il caso di roBOt è il caso di un insieme di imprenditori nel campo della cultura che hanno sbagliato e sono stati avventati, ma che non si nascondono e che ora cercano di onorare meglio che possono i propri debiti; incidentalmente, si tratta di un insieme di imprenditori che negli anni ha dimostrato competenza, professionalità, creando uno degli eventi migliori d’Italia, quindi ecco, non sono proprio degli scemi e/o dei truffatori. Gliene va dato atto. Hanno sbagliato? Hanno sbagliato. Devono pagare? Devono pagare. Ma è interesse di tutti che possano riprendere a operare, a fare cultura, a organizzare. A maggior ragione perché ci stanno mettendo la faccia. Che sia brutto doversi ridurre a proporre accordi stile “ti saldo la metà, e siamo apposto così” è indubbio, ma si può dire che non lo fanno perché così possono mantenere uno stile da vita da sceicchi (in altri campi dell’imprenditoria, chi sbaglia invece fa pagare i pesci piccoli e di suo non si intacca certo i benefit) ma perché è l’unica maniera per venirne fuori, anche mettendo in campo le proprie risorse personali.
Torniamo al concetto già espresso prima: se vuoi proporre qualcosa e renderlo stabile, autosufficiente, devi rischiare; se non rischi, sei destinato all’estinzione o al restare un volontario dilettante a vita. Se sei bravo e sei avveduto, nove volte su dieci il rischio va a buon fine oppure si chiude con un danno minimo e sostenibile. Qualche volta però anche se sei bravo ed avveduto e fai tutto per bene, beh, puoi andarci comunque sotto. I margini sono quello che sono, risicatissimi. Lo scrivevamo da altre parti: i soldi facili sono finiti, nella club culture. Finita la pacchia. Finito il guadagnare molto faticando così così e divertendosi parecchio. Per anni è stato questo il mood, soprattutto nei modelli più commerciali, ma questo è un modello non (più) sostenibile. E non provate nemmeno a dire che questo è un modello italiano: di grandi festival saltati per aria, con fragorose bancarotte e gente non pagata, all’estero ce ne sono in enorme misura. In Inghilterra (Bloc, anyone…?), America, qualche volta anche l’oculata Germania o la macchina da guerra Olanda. Tutti pirati, tutti briganti? Non necessariamente. E’ che è diventato un modo talmente competitivo, quello della musica, che bisogna correre dei rischi spesso estremi per stare a galla e raggiungere il livello di equilibrio nell’operatività. Questa la realtà. Non dissimile da quella da moltissimi altri settori dell’economia globale.
Se per voi fare un festival è scegliere gli artisti giusti, strapparli al miglior prezzo possibile, mettere un biglietto d’ingresso non troppo alto e voilà il gioco è fatto, beh, siete degli illusi. Non funziona più così. Non è più così facile, ammesso che lo sia mai stato. Spesso può capitare di fare bene delle cose e guadagnarci bene, ma di rifarle la volta dopo esattamente uguali perdendoci però un mare di quattrini (facilmente il doppio e il triplo di quanto guadagnato la volta precedente). Questo è quello che succede in tutti sistemi economici sofisticati, e anche quello della cultura è diventato tale, da quando ha smesso di essere visto come un campo su cui fare mecenatismo (anche se alcune sacche resistono ancora, tipo le già citate Fondazioni che controllano teatri dell’opera vari ed assortiti, dalla Scala in giù).
Attenzione. Siamo solidali con chi avrà da roBOt, se tutto va bene, la metà di quanto pattuito (anzi, siamo più che solidali: siamo fra questi, guarda un po’). Non è bello che questo accada, non è nemmeno giusto che questo accada, ma al momento è la soluzione più sensata. Riconosciamo il valore di quanto fatto da roBOt negli anni, ultima edizione compresa, e ci auguriamo sinceramente che possano proseguire in futuro, in qualsiasi forma questo accada. Sappiamo che hanno sbagliato, sono stati avventati; ma non li riteniamo dei dilettanti allo sbaraglio, in quanto hanno corso un rischio imprenditoriale che ormai è diventato abbastanza nella norma, come dimensioni, per i meccanismi che governano oggi l’industria culturale legata alla musica. Chi li irride dicendo “Incapaci, palloni gonfiati, io non avrei mai fatto degli errori del genere!” stia attento, perché la ruota gira (…mamma mia quante volte l’abbiamo vista girare negli anni…). Ci sono parecchi attori, nel campo dell’industria musicale, che operano con deficiti di bilancio ben maggiori (e non ripianabili in solido sul momento) e che si comportano in modo molto più scorretto ed elusivo nei confronti dei loro creditori. Insomma, (anche) l’industria dell’intrattenimento musicale è un mondo serio, complicato, pieno di situazioni difficili e problematiche, se non addirittura poco chiare. E’ così. Ma non per questo bisogna smettere di fare musica e di provare ad organizzare eventi che rendono migliori i weekend e le serate di molte migliaia di persone, e creano comunque un indotto economico che per molti professionisti è vitale (e meritato).