Un’intervista per l’Italia. Skype. Utente numero uno da Berlino. Utente numero due da Tokyo. Otto ore di fuso orario. L’utente numero due si chiama Lorenzo, mentre parla siamo in orario aperitivo nella “capitale orientale”. L’utente numero uno è il sottoscritto, dalle mie parti è metà mattina. Di comune accordo abbiamo atteso la chiusura del Club To Club 2015, ci siamo presi qualche giorno per raccogliere le idee e ora ci sentiamo.
Insomma, cosa ci fai a Tokyo?
Sono qui per due date, una seria in un bellissimo club a Shibuya, l’altra un po’ più arty organizzata da un collettivo di amici chiamato Bacon. Tra l’altro, ho suonato al Dommune, non so se ne hai mai sentito parlare. È il “preboiler room”, cioè la Boiler Room prima della Boiler Room. Secondo me lo facevano già. E’ un posto molto bello, in un piccolo basement, dove riescono ad entrarci solo cinquanta persone. Impianto della madonna. Nel 2010, quando sono venuto qui per la prima volta ci ho visto Dj Stingray ed era proprio lo stesso concetto; hanno tutte le camere e una regia video. Solo che hanno iniziato prima di quanto abbia fatto la Boiler Room. Poi farò un altro live, fra due giorni, in cui userò anche i laser. Lo show si chiama Oracle e l’ho presentato per la prima volta al Sonar di due tre anni fa.
Dai, il Club To Club 2015.
Beh, innanzitutto voglio dire che il mio rapporto con C2C è un po’ particolare, perché la verità è che loro è da molto tempo che mi supportano e mi sopportano. Non posso non dire che è un bel pezzo che godo del supporto di Sergio Ricciardone e di tutti gli altri, quindi per me il C2C è sempre un bell’evento che mi permette di incontrare gli amici che ho a Torino, ma anche per rivedere gli artisti che conosco o che sento via mail e che sono più lontani. Nicolas Jaar, per esempio, è tanto che ci scriviamo e che ci vogliamo vedere, Daniel Leopatin (Oneohtrix Point Never), Powell. Devo dire, però, che la cosa veramente interessante è che quest’anno più di quelli precedenti il C2C ha tentato di mettermi in difficoltà. (ride)
Ovvero?
La natura della mia musica fa si che possa essere sempre un pochino a disagio in ogni contesto in cui mi trovo a suonare. A parte gli scherzi, non aveva senso che mi posizionassero ancora nello stesso slot dell’anno scorso. Quindi mi hanno scritto e mi hanno detto: “Senti, cosa ne pensi se ti mettiamo al Lingotto in chiusura, alle 5 di mattina, per ultimo dopo Thom Yorke e Jamie xx?” ah, ed il Lingotto era già sold-out quella serata. Ho detto: “Oh ragazzi, siete voi che decidete.” Poi mi sono messo lì e ho capito le motivazioni e ci stava. Andava bene così.
E quindi com’è andata?
Ancora una volta diverso da tutti gli altri anni. Quando sono arrivato nel backstage, intorno a mezzanotte, ho buttato l’occhio, ho visto chi doveva suonare e mi sono paralizzato. Comunque quando ho iniziato c’era ancora il delirio, poi quando ho finito c’erano dalle 300 alle 500 persone che per me sono un buon pubblico. Però all’inizio ce n’erano, che ne so, tremila. Eh, mica è facile. Ho cercato di immaginare cosa poteva o voleva aspettarsi la gente. Alla fine mi sono sentito più libero, perché il contesto in cui mi sono trovato era così diverso da dove mi esibisco di solito che mi ha caricato. Infatti, ho iniziato in un modo più pazzo. Questi tre minuti di roba molto statica, con melodia nascostissima. Magari un paio se ne sono anche andati, ecco. Ma va bene.
Il resto del Club to Club?
Ti dirò che, in realtà, non ho ascoltato i miei amici, perché succede sempre così; li segui due o tre volte e poi smetti, è naturale anche se li rispetti molto. Ci parli nel backstage, non li ascolti più. Ho visto Thom Yorke, perché ero curioso. E’ stata una cosa epica, c’era un oceano di persone ad ascoltarlo.
Tra l’altro lui ti ha messo nella sua playlist di Natale.
Sì, infatti dopo che lo ha fatto mi sono andato ad ascoltare tutte le sue cose vecchie, quasi in segno di rispetto. Pensa che dal momento in cui mi ha messo in quella playlist, nei giorni seguenti, mi hanno scritto in non so quanti, su Facebook, gente che non avevo tra le amicizie, e mi dicevano: ”se Thom Yorke ha detto che quello che fai tu è bello, allora ha ragione”. Questo per farti capire che stiamo parlando di gente che sta su un altro pianeta. Personaggi che hanno venduto migliaia e migliaia di dischi e che hanno influenzato e fatto sognare tantissime persone con la loro musica. Tutto abbastanza ovvio ma molto affascinante. Devo dire una cosa sul concerto, però: è stato un live un po’ difficile da seguire, secondo me. Devi conoscere bene lui e ti deve piacere molto.
Ho visto Nicolas Jaar che, nonostante abbia dichiarato di volere fare cose più sperimentali, ha fatto un set molto dritto e classico. Ad ogni modo mi è piaciuto, questi breakdown con risalite di minuti e minuti. Molto oscuro. Non sono riuscito a sentire Jeff Mills, purtroppo. Oneohtrix Point Never, mi è piaciuto ma non so se ha funzionato molto su quel palco. Forse è stato troppo dispersivo.
Ecco, mi è piaciuto molto Vaghe Stelle, che ogni volta fa una cosa diversa. Io lo prendo in giro, e dico che fa un Ep alla settimana, sforna molta musica. In realtà sono invidioso, perché io sono lentissimo. Un set ancora diverso. Lui è troppo bravo, glielo dico sempre, quindi a volte risulta complicato. Ovviamente non è così immediato il feedback di chi lo ascolta, ma proprio perché è bravissimo. Sophie mi è piaciuto tanto. E’ un producer eccezionale, credo che abbiamo dei punti in comune.
[banner_box]
Va bene, chiudiamo il capitolo C2C e apriamo quello Lorenzo Senni.
Dai.
Parliamo del tuo Discogs.
Oddio.
Nella breve biografia c’è scritto “multidisciplinary artist”. Cosa vuol dire?
Credo di aver rubato questa definizione da una delle biografie che mi fecero quando andai a suonare le primissime volte all’estero. Secondo me e sono d’accordo si riferiscono al fatto che, seppur mi sono sempre concentrato sulla musica e quello è il mio background, le mie cose barcollano tra il contesto musicale e quello più “arty-farty”. Alcune cose che facevo ai tempi potevano trovare il giusto spazio anche in contesti più artistici. Alla fine, quando ho iniziato io, facevo musica legata al teatro, colonne sonore, però non solo, perché proprio in quegli spettacoli io controllavo le luci e i laser. Siccome la mia passione era la programmazione di software cosa che facevo in cameretta mi sono trovato a fare cose differenti, come piccole installazioni nelle gallerie con i laser controllati dal mio pc. Diciamo che mi sono sempre mosso in direzioni diverse e anche adesso mi ritrovo a fare live set e progetti che coinvolgono anche altro rispetto alla musica, come per esempio l’ultimo lavoro che include anche dei cannoni a CO2.
Esatto, perché non me ne parli?
Sì, ho presentato per la prima volta al Club Transmediale a Berlino il mio progetto “AAT”, Advanced Abstract Trance. Non credo che sarebbe stato molto facile proporlo da altre parti, se non fosse stato per loro, dato anche il costo della produzione. Di base è un pezzo composto da diverse centinaia di sample provenienti da hardtrance, gabber, hardcore, tutto basato su build-up, breakdown e sulle parti statiche presenti in questi generi che conservano un altissima dose di tensione. Spessissimo l’architettura di questi brani è chiusa in se stessa e grazie a questo ogni traccia custodisce una parte che a me interessa molto. Sono andato a cercarmele, le ho editate e ne ho fatto una composizione che si basa su un concetto di drop che non arriva mai. È un buildup, però decontestualizzato. In questo caso assume un altra funzione ed è materiale vivo con cui lavorare, ma è anche vero che emotivamente è molto forte ed è difficile rimanere impassibili a questi input. Il fatto che in questo mio brano, che dura circa 40 minuti, ci siano degli interludi costituiti da pattern e sequenze composti da questi cannoni di CO2 permette di avere uno show davvero potente.
Nella pratica cosa sono i cannoni di CO2? magari non tutti lo sanno.
Sono quei cannoni che ci sono nei festival enormi, come il Tomorrowland, oppure li puoi trovare a Ibiza o al Cocoricò. Sono un segnale tattile e visivo e anche acustico del drop. Se tu vedessi un festival da sopra una montagna, quindi senza poter sentire la musica, vedresti comunque i cannoni di CO2 sparare e capiresti che, esattamente in quel momento, c’è il drop. Per questo è un segnale molto forte che viene dato al nostro cervello. Una roba tipo: “Oh, se nel caso aveste qualche dubbio, questo è il drop.” Insomma, io ho giocato, con AAT, anche su questa cosa; un continuum di aspettative disattese e per renderlo ancora più palpabile ho usato i cannoni di CO2.
E’ snervante, non credi? Sei sempre lì che aspetti un qualcosa che non arriverà mai.
Sì, credo di si… sopratutto perché dopo un po’ capisci quello che sta succedendo ed il suo meccanismo ma rimane difficile liberarsi totalmente da questa necessità perché il nostre cervello risponde a determinati impulsi in modo molto preciso.
Era nella tua intenzione spossare il pubblico?
No. Io sono affascinato da questo materiale sonoro e da come funziona. Non c’è un unico obbiettivo nel mettere il pubblico a disagio rispetto a quello che stanno ascoltando, nonostante sia una reazione molto comune. E’ una questione legata alle aspettative, che spesso non sono soddisfatte al 100%. Quaranta minuti così sono faticosi, io lo so, ma l’ho fatto anche per rendere esplicito il mio processo creativo e il modo in cui lavoro. Si tratta di una via per far capire come ragiono quando produco musica mia, quella che poi va a finire su disco.
Comunque il Club Transmediale è stato il contesto giusto. Sicuramente una parte del pubblico ha cercato di immedesimarsi in quello che stavo presentando e quello che volevo dire senza troppi pregiudizi.
Evidentemente sei riuscito ad arrivare alla gente nel modo in cui ti aspettavi di arrivare.
Guarda, io ci ho speso davvero tanto tempo a studiare come approcciarmi a questa cosa, anche perché c’erano diverse vie che potevo prendere, però alla fine ho deciso di rendere chiaro il processo piuttosto che dedicarmi solamente alla composizione L’idea è di presentare il tutto come una sorta di “Display”. Nessuno dei sample è sovrapposto all’altro, si scorre attraverso un “archivio composto”.
Senti, tu sei un nerd?
(ride) Allora, questa è davvero una bella domanda. Se non dovessi rispondere direi di si. C’è sempre questa diatriba sul “nerd is cool”, ovvero il nerd fa figo perché non fa figo. Non capisco perché. E’ un circuito strano. Di base, se dovessi vedermi da fuori direi che sono un nerd, perché ho sempre avuto questo cruccio del dover programmare, spippolare. Allo stesso modo, però, ti direi anche di no, che non lo sono, perché mi è sempre piaciuto anche trasportare queste cose nerd in un contesto più pop. In ciò che m’interessa ci vado sicuramente a fondo, ma cerco di tradurlo in un linguaggio più comprensibile. Tutte le mie cose, seppur “complicate”, voglio che arrivino a tutti. Potremmo dire che sono nerd, ma che sono anche in grado di tirarmici fuori, capendo cosa posso fare per non rimanere ancorato al nerdismo puro.
Tra le prime cose che mi hai detto oggi, hai fatto riferimento ad un te ragazzino a cui piaceva lavorare sui software.
Certo, quello l’ho sempre fatto e lo faccio tutt’ora. Per dirti, sono andato a suonare ad un festival a Marsiglia e alcuni ragazzi mi fanno notare di aver contato circa 450 sample differenti durante il mio live. Io c’ho pensato un attimo e mi sono detto: “Sono un bollito. C’ho il cervello fritto.” Perché vuol dire che sono andato a lavorare su almeno 500 tracce, per tagliare tutti quei sample. Il mio è un nerdismo onesto, ecco. Mettiamola così.
Mi ha colpito una cosa: il termine pop. Voglio dire, prendere le tue cose, che partono da una sperimentazione e poi renderle più popolari, in qualche modo.
E’ una cosa che m’interessa tanto. Con tutte le mie uscite, per esempio, mi sono interessato soprattutto a lavorare sul dry/out, spogliare tutte le influenze forzatamente trance, la sua pomposità e lavorare in sottrazione, percependo cosa sarebbe successo, ma mantenendo come costante un’idea di base. Comunque, cosa ha reso la trance e le sue strutture musicali tanto popolari? La facilità con cui arriva a tutti. M’interessava mantenere anche quella cosa, capire dove potevo andare a giocare nell’estremo, sia da un verso che nell’altro. Che poi è sempre molto complicato, perché se sei in bilico il rischio è quello di cadere da una parte oppure dall’altra. Però, quando sono in studio la cosa che m’interessa di più è stare in bilico. Trovare il compromesso perfetto. Quando si palesa quella cosa che anche ai minimi termini mantiene intatto e percepibile il suo apporto emotivo. Questo è il mio pop. Descrivere un emozione con una cosa ridotta all’osso, sempre in relazione a ciò da cui sono partito, ovvero la trance.
Sempre rimanendo su questo discorso, tu sei molto legato al passato a livello sonoro. Tanta della musica che proponi ha “un sapore “antico”, in qual che modo.
Beh, solamente per il fatto che mi riferisco ad un genere che è tutt’ora popolare, ma che ha avuto la sua “golden age” diverso tempo fa è una cosa che porta le mie produzioni a confrontarsi con sonorità di dieci, quindici anni fa. Non è soltanto per il fatto che in quegli anni ero molto giovane. Ci sono delle cose che ti porti dietro cercando di rivivere determinate emozioni che ti sei lasciato alle spalle, anche perché quando avevo quindici anni suonavo in band punk. Io ho vissuto tutto quel periodo trance, gabber e hardcore con i miei migliori amici, che non erano i membri della band con la quale provavo durante la settimana. Nel week end che andavo con i miei amici più stretti ed è con loro che ho vissuto quei momenti. Erano hardcore warriors e frequentatori di Cocoricò, Gheodrome, Echoes. Io però io l’ho vissuta in maniera diversa rispetto a loro, perché non ho mai usato alcol e nessun tipo di droga, la vedevo in maniera oggettivamente molto diversa. L’ho vissuta in modo più distaccato, mi piaceva andarci, mi piacevano le ragazze che giravano in quei contesti, più che le ragazze punk, ma ero comunque sobrio e mi relazionavo con quel contesto in maniera differente. Ero più un voyeur di quello che stava succedendo. Ballavo con i miei amici, non ero quello che stava seduto sui divanetti aspettando di andare a casa, ma ero più analitico, perché mi accorgevo di quali pezzi mi piacevano maggiormente, per esempio. Invece i miei amici erano in un flusso, capito? Loro erano molto più dentro la musica, in tutti i sensi. Seguivano i dj, conoscevano i pezzi, io mai. Non conoscevo nemmeno un nome e non m’interessava.
T’interessava il suono.
Sì, mi ha sempre coinvolto a livello emozionale, perché era impossibile non esserlo. Quando partiva un pezzo di Tiesto con un buildup di due minuti e mezzo era difficile non caderci, soprattutto quando hai quindici anni.
Voglio precisare anche un’altra cosa: se tu ascolti Rihanna, i Black Eyed Peas, oppure Justin Bieber è tutta gente che ci butta dentro la trance, o meglio quel suono. Queste sonorità si ritrovano spesso, perché hanno la capacità intrinseca di esprimere emozioni. Probabilmente la musica trance interessante è ormai scomparsa, si è trasformata in EDM, però questo suono lo si continua a ritrovare. Non è ancora andato in pensione, e difficilmente ci andrà.
Allora ti faccio un’altra domanda bizzarra: dammela tu una definizione di che cos’è la trance.
Per quanto mi riguarda è una questione di suono. Cioè, quando io mi sono affacciato a questo mondo, la prima cosa che ho fatto è stato prendermi il synth con il quale il 99% di quei pezzi erano stati fatti, perché volevo capire come funzionasse. Era un Roland JP 8000, il synth che implementò la prima forma d’onda Super Saw, una wave form a sette denti di sega detunabili, ovvero quella che ha dato vita alla trance. La Super Saw produce un suono ricchissimo di armoniche, ovvero intervalli perfetti fra le note e questo all’orecchio umano e al cervello piace molto. Ci sono trattati di teoria e filosofia della musica che parlano di questa cosa, è una cosa su cui si discute da vari secoli. Ci sono serie di accordi che accostiamo all’amore, altri che accostiamo alla paura. Ecco, la serie di armoniche che produce la Super Saw soddisfano l’orecchio quindi il cervello. Non c’è un cazzo da fare. Quindi ogni genere è legato tanto ad una macchina particolare oppure ad una tecnologia, come l’Acid è legata alla 303. Poi dipende, può essere anche che chi l’ha usata ha definito un suono. Non è un feedback così certo. Insomma, io ho preso questo synth e, parallelamente, mi sono messo a tagliare e archiviare i buildup da una montagna di pezzi trance, in questo modo ho potuto capire cosa stava succedendo.
Voglio dire, quando parte una cassa, dopo tre secondi sono già annoiato. E’ una cosa mia personale. Tutti i pezzi sono uguali o molto molto simili ed è questo che definisce il genere, però il buildup è quella parte in cui ogni artista, a suo modo, riesce ad esprimersi. La cosa interessante è che questa parte ha anche una sua funzione.
Il tipico pezzo trance parte con 30/40 secondi di beat, così che puoi mixarlo con quello prima e poi hai il breakdown. A quel punto serve un modo per tornare di nuovo alla casa: ecco il buildup. A me interessava, ai tempi, quel compromesso tra funzionalità e contrappunto musicale, ma soprattutto come ogni artista ci lavorasse a suo modo. Mi sono ritrovato a pensare che fosse la parte più interessante e qui torna il mio nerdismo, perché, prima di produrre pezzi miei, ho fatto dei mix in cui loopavo i buildup che avevo tagliato. Non mi stufavo mai di ascoltarlo. Era una melodia che era fatta in modo da funzionare benissimo in un contesto di loop. Questo per me è la trance. Dopo la cassa, cinque secondi e sono stufo.
Beh, si sente nelle cose che fai. Qual è stata la tua evoluzione personale, invece?
“Quantum Jelly” è stato il primo con il quale mi sono messo a sperimentare questa cosa. Non ero sicuro di quello che stavo facendo, ma era già da un po’ di tempo che spippolavo in questa direzione. Sono stato fortunato perché non ho mai mandato in giro demo, non ero il tipo, non so bene il motivo. Invece quella volta, essendo in contatto con Peter Rehberg di Editions Mego (dato che con la mia label avevo fatto uscire artisti che aveva prodotto anche lui) gli ho mandato una mail scrivendogli di provare ad ascoltarlo. Questo perché secondo me anche lui, nel suo modo impazzito di approciare la computer music, aveva affrontato in qualche modo il mio stesso discorso, o almeno sonorità simili. Prendi uno dei pezzi uscito come Pita, nell’album “Get Out”, è un loop di Morricone in reverse per undici minuti e che diventa sempre più distorto, o per esempio la traccia “Acid Udon”. Ecco era molto simile alle cose che avevo iniziato a fare io. Lui solitamente mi rispondeva dopo due settimane, invece in questo caso mi rispose dopo mezz’ora scrivendo: “Let’s do it. Track number three, should be twice longer.” Ed io mi sono detto: “Let’s do it, cosa?” (ride). Insomma, voleva fare il disco. Per “Quantum Jelly” sono stato molto fortunato, lo ripeto, Editions Mego era una label che avevo sempre seguito e dava anche una certa credibilità al lavoro che stavo facendo. Quello è un disco molto più asciutto rispetto a quello che venuto dopo, “Superimpositions”, quindi aveva bisogno di credibilità, proprio perché i pezzi erano “secchi”, melodie a loop o a cavallo di loop. La mia idea era quella di spiattellare questi buildup in pezzi da sette/otto/dieci minuti e con una modulazione molto più graduale. Con “Superimpositions” mi sono addolcito; La mia idea era quella di usare lo stesso approccio e lo stesso suono, ma non utilizzando una sola linea di synth al contrario di “Quantum Jelly” che è stato registrato tutto in presa diretta, ma editandolo anche con due o tre linee, prendendo in esame altre strutture musicali. Volevo aprirmi ad un range più largo. Le cose che sto facendo adesso, aprono ancora di più la visione.
E invece “Early Works” e “Dunno”?
Ecco, mi fa piacere che me lo chiedi, perché di solito tutti partono da “Quantum Jelly”. Non che li rinneghi, anzi “Early Works” l’ho ascoltato pochi giorni fa ed ho ripensato che quello è il disco più facile da collocare tra le mie influenze di quel tempo. Ero dentro la computer music, il glitch, i droni leggeri. Mi ricordo che Simon Scott, batterista storico degli Slowdive mi scrisse su Myspace. Aveva messo in piedi quest’etichetta. Io ero un loro fan sfegatato e quando vidi il suo messaggio quasi non ci credetti. Quelli erano davvero i tempi della cameretta. Mi chiese se volevo fare un’uscita sulla sua nuova label. Io stavo facendo partire la mia etichetta Presto!?, lui proponeva un CDr, mentre io avrei voluto fare un CD, allora gli proposi di farlo uscire insieme. Non l’ho mai incontrato lui, ci siamo sempre e solo scritti, anche per contestualizzarti i tempi: Myspace, cameretta, software. Tutto quello che c’è su quell’album è stato generato dal computer. Mi ricordo che il titolo “Early Works” fu additato come un titolo presuntuoso, ma a me è sempre piaciuto giocare un poco con l’ironia. E’ una cosa che ho sempre ritrovato anche in Editions Mego; sdrammatizzano nelle loro copertine, nei titoli dei dischi, anche se poi musicalmente affrontano cose che sono paradossalmente molto accademiche. Questo mi ha influenzato tanto. Infatti il disco dopo l’ho chiamato “Dunno”. Tutti mi chiedevano il motivo, il significato e per me era scontato chiamarlo così, perché a quei tempi mi si domandava “ma tu che musica fai?” ed io rispondevo sempre: “Non lo so.” Facevo tutto molto istintivamente. “Dunno” è computer music astratta.
Beh, c’è una traccia che è un link di YouTube.
Sì, infatti. Pensa che hanno detto che sono stato il primo a fare questa cosa. Non ne posso essere totalmente sicuro, ma potrebbe essere. Che poi, anni dopo, ho scoperto che Evian Christ e Vessel hanno suonato insieme ad un festival e, una volta in albergo, hanno fatto una “jam di spippoli” utilizzando il video sorgente che deriva dalla mia traccia di “Dunno”. C’è un video anche su youtube in cui me la dedicano. Poi dopo quando li ho incontrati, mi dissero che avevano ascoltato tutti e due “Dunno” e si erano presi bene. Gli era piaciuto.
Che disco è “Dunno”?
E’ computer music pura. Stavo dietro a tutti i pionieri del genere datato anni cinquanta e sessanta. Quelli erano i miei eroi. Per fare “Dunno” mi sono comprato dei PC vecchi per poter far girare alcuni software che non erano real time. Cioè, tu inserivi i dati e poi aspettavi quei trenta secondi prima di avere il risultato. Se tu pensi al giorno d’oggi, non abbiamo nemmeno la pazienza di aspettare che una pagina di internet si carichi, se tu devi inserire dei dati e aspettare trenta secondi per ricevere un risultato sonoro e poi ne inserisci altri e devi aspettare ancora, beh insomma, stai molto attento a quello che inseriscii. Ragioni molto di più. Il processo è di una bellezza unica. M’interessavano queste cose qui. Lì ero veramente nerd, ma ho imparato ad andare a fondo.
Hai tirato fuori una cosa a cui penso spesso e mi piacerebbe avere un tuo parere; la velocità della tecnologia attuale, la quale in qualche modo, credo si riflette anche sulla musica. Cosa ne pensi?
Guarda, le poche volte che ho pensato “adesso produco un pezzo pop, andando attraverso a tutti gli strumenti che posso avere a disposizione” mi sono messo le mani nei capelli. Oggi ci si perde dentro la vastità di strumenti che abbiamo a disposizione. Se pensi che adesso una 303 o una 909 costano 2000 euro e ci lamentiamo che c’è chi specula su queste cose, però questi strumenti, anche ai tempi in cui uscirono costavano parecchio, quindi ci si poteva permettere di fare musica con poca strumentazione. Ci si concentrava sulle cose. Adesso, chi si mette a fare musica, se non ha le idee chiare, è un po’ più in difficoltà. Quindi la fortuna che ho io nell’essermi fritto il cervello su determinate cose, mi giova oggi. Mi trovo a sapere cosa voglio. Abbiamo tantissimi strumenti a disposizione, ma non sappiamo cosa vogliamo farci.
Quello che penso è che ogni cosa diventa vecchia nell’istante dopo essere stata concepita. Siamo diventati esseri umani che bisognosi di cose fruibili e spendibili immediatamente.
Sì, è assolutamente così. La velocità con cui possiamo avere le cose ci trasforma in personaggi che ne vogliono altre subito dopo. Arriva e già pensiamo che forse dietro l’angolo ce qualcosa di migliore. Io mi sorprendo quando trovo in giro delle persone che dimostrano di avere ascoltato i miei pezzi in toto. Lo trovo poco comune, ma d’altronde io stesso faccio fatica ad ascoltare tutto.
Scivoliamo verso la fine: da che parte sta andando la musica elettronica?
Non lo so, sinceramente. Se lo sapessi sarei già in ritardo, quindi meglio non saperlo. Sicuramente una cosa che mi affascina è quanto il mainstream e la music industry buttino sempre più l’occhio verso le cose più difficili.
In che senso?
Per esempio, nel mio piccolissimo, io ho prodotto due pezzi nell’ultimo disco di How to Dress Well e uno dei due ha settecentomila view. Per me è una Hit. Grazie a questo mi hanno contattato in molti per fare delle collaborazioni, però quello che mi hanno sempre detto tutti loro è stato: “Non vogliamo che ci vieni incontro. Non vogliamo che produci una cosa che avremmo potuto fare noi. Non snaturarti.” Per me è bellissimo. Mi da la possibilità di sperimentare in contesti meravigliosi. Non m’interessa a livello di ritorno economico, ma quanto più andare a toccare quelle cose nel tuo piccolo modo. E’ una cosa da raccontare ai propri nipoti.
Quando torni da Tokyo?
Dopo la data mi fermo altri cinque giorni in vacanza.
C’eri già stato, vero? Ricordo un tuo tour in Giappone.
Esatto. Quella è stata un’esperienza epica, ti giuro. Prima volta in Giappone, tour organizzato da solo con i contatti che avevo tramite la mia etichetta. Erano tempi in cui non avevo lo smarthphone per trovare le strade e non c’erano i driver che mi venivano a prendere e mi portavano in albergo o in stazione. Non so come ce l’abbia fatta. Ti racconto questa cosa: Avevo fatto una carta con cui potevo girare per tutto il Giappone per due settimane su tutti i treni. Ultima data faccio tre ore di un treno veloce, poi altre tre ore di un altro treno. Insomma, arrivo, scendo e mi ritrovo in mezzo ad una sorta di deserto. Doveva essere Fukoka, una città enorme del sud del Giappone. Mi sono detto: “Dove cazzo sono?” Chiedo ad una inserviente della stazione, si mette le mani nei capelli e dice: “Un altro che si è sbagliato.” Ero a 1.500 chilometri dalla città dove avrei suonare. Ho chiamato il tipo del locale e gli ho detto che mi sembrava difficile riuscire ad arrivare in tempo per il concerto. (ride)
Il giorno stesso sono tornato a Tokyo e non sapevo dove dormire e sono finito in un capsule hotel, che non so se hai presente cos’è.
Purtroppo sì.
Ecco, ti lascio immaginare.