Negli ultimi anni, abbiamo visto le menti migliori della nostra generazione – ma anche le peggiori… o quelle mediamente medie, come quella del sottoscritto – usare tutta la loro cultura, intelligenza e capacità di analisi per sviscerare (supposti) meriti di una schiera di ventenni che hanno il merito (il merito?) di aver visto quello che succedeva nella musica hip hop americana più paracula e stradaiola, averlo preso, averlo combinato con una sensibilità pop molto banale. Che poi abbiano colpito ed inciso nell’immaginario collettivo e nel panorama sonoro della nazione, è verissimo: e quello è un fenomeno significativo a prescindere. Di cui, appunto, giustamente si è parlato. Ma a furia di accapigliarsi se la Dark Polo Gang valga o meno, se Sfera Ebbasta sia un peto o un genio (e ripeto: mi ci sono messo pure io, a scrivere di cose così), l’effetto collaterale è che – manco fossimo noi, i discografici o i commercialisti dei diretti interessati – abbiamo iniziato a guardare con più attenzione ai numeri su YouTube e Spotify che al resto.
Il che è un peccato. Per la cosa in sé, ma anche perché stiamo sprecando un momento di grandissima attenzione – forse inedito, forse irripetibile – attorno alla musica italiana che viene fuori dall’underground vero, ovvero non da un talent, non dagli allevamenti tipo polli di batteria delle major, ma dalle scene di “base” vera. Che poi i nomi più in vista di questa schiera abbiano semplificato un po’ la loro offerta per venire incontro ai gusti del pubblico, abbandonando la militanza “avant” e controcorrente inizialmente insita nel loro voler sfuggire a talent e major, è un effetto collaterale nemmeno troppo grave. Non fa male a nessuno che Thegiornalisti riempiano le arene e le playlist degli stronzi, che Calcutta mieta sold out nei palasport invece di continuare a scroccare ospitate sui divani dopo un concerto davanti a quindici persone, che Levante sia un’influencer, che Motta sia un eroe da rotocalco e che Brunori sia il nuovo De Gregori anche per i vincenzimollichi di tutto il mondo; non fa male nemmeno a nessuno che il rap più disimpegnato, commerciale e cazzone faccia grandi numeri, visto che a cascata questi grandi numeri hanno rimesso in moto pure la carriera di un Murubutu (ignorato per anni, ora solidissimo act che miete biglietti venduti), giusto per dire.
No, non fa male a nessuno. Forse facciamo quasi fatica a credere che, per una volta, “tocchi a noi”: l’interesse dell’italiano medio consumatore di musica è alto come non mai, ed è indirizzato non nei soliti posti su cui è stata indirizzata negli scorsi decenni, dove la cosa più originale, perturbante ed irregolare era Vasco, e così è detto tutto, ma è invece molto sintonizzata sulle frequenze d’onda più fresche, nuove, atipiche. Un tempo era un miracolo che il mainstream si accorgesse dei Subsonica (quando già riempivano palazzetti); oggi la Rai fa servizi su Ariete. Ehi: Ariete.
Non fa male a nessuno che Thegiornalisti riempiano le arene e le playlist degli stronzi, che Calcutta mieta sold out nei palasport invece di continuare a scroccare ospitate sui divani dopo un concerto davanti a quindici persone, che Levante sia un’influencer, che Motta sia un eroe da rotocalco e che Brunori sia il nuovo De Gregori anche per i vincenzimollichi di tutto il mondo
E’ una grande occasione per tutti. Per chi vuol fare soldi, per chi vuole costruirci una carriera o una ricchezza, ma anche per chi lo fa per l’arte, la cultura, per un’ideale. E’ un peccato che gli stakeholders della percezione collettiva sulla musica – insomma, i nuovi “influencer” della musica, non per forza i giornalisti, ma per dire anche i direttori marketing delle aziende o opinionisti vari – siano stati troppo occupati sulle disfide tra Gué e Ghali (diciamo due nomi a caso, via, è per capirci…) giocate magari via Instagram, e meno su cose più di sostanza, con un background più solido e meno “instant” dietro. Viviamo in tempi interessanti, tempi in cui perfino Colapesce e Dimartino possono diventare icone pop (ce l’avessero detto e gliel’avessero detto anche solo sei mesi fa, ci sarebbe stata una risata omerica collettiva). Approfittiamone. Cogliamo l’occasione. Cerchiamo di essere coraggiosi nelle proposte e nelle richieste, senza accontentarci del ribasso, senza accontentarci del cazzeggio. E’ già abbastanza doloroso vedere che chi dieci (ma anche cinque…) anni fa sarebbe finito nel calderone del LOL rap, oggi è considerato invece un maître à penser – o quasi. O comunque non un simpatico pagliaccio da cagar per cinque minuti e poi ciao, ma qualcuno a cui dar corda. Ed è altrettanto doloroso che dai nuovi re dell’indie italiano non si pretenda un minimo di originalità musicale (appunto: sarebbe indipendenza, indipendenza artistica), ma più sono appiattiti su modello già unti e bisunti e battisti più siamo tutti rassicurati.
Ecco. E’ per questo motivo che oggi è un giorno importante. Sì. Perché esattamente oggi escono due dischi, anzi, tre (uno lo aggiungiamo in corsa, come nota a margine, ma ha i suoi piccoli motivi per essere significativo) che sono davvero meritori. Sono importanti, sono coraggiosi, sono “evoluti”. Su uno di questi è anche – per fortuna – ben puntato il riflettore degli stakeholders di cui sopra: “Ira”, di Iosonouncane. Ne stanno parlando un po’ tutti. Il precedente “Die” era già stata una cometa imprevedibile: molto bello e molto più a fuoco del suo predecessore (quella “Macarena su Roma” molto interessante ma un po’ troppo arty e sofista fin dal titolo), aveva davvero catturato cuori inaspettati. Improvvisamente un po’ tutti si accorgevano della forza di Jacopo Incani: uno capace di inseguire una personalissima via espressiva che era una manata in faccia a tutta la musica troppo solubile, troppo pronto-uso, troppo preconfezionata per un ascolto agile e redditizio; ed era, attenzione, una manata non da “beautiful loser”, che era la massima ambizione negli anni ’90, ma da uno che sa il fatto suo e vuole il fatto suo – non per vincere, non per perdere bellamente, ma perché ci crede, punto.
Bene: il seguito lungamente atteso, “Ira”, è ancora più lungo, ancora più ambizioso, ancora più altezzoso nel rinchiudersi in un modo solo ed unicamente a propria misura (in cui si scontrano e collassano Sigur Ros, Sebastian Tellier, i Godspeed You Black Emperor!, il prog, Biosphere) e dalla durata smisurata: le tracce sono diciassette, ogni traccia è lunghissima ed è di suo una matrioska in cui stanno due o tre sezioni molto diverse fra loro, con le idee e le scritture contenute in “Ira” altri ci farebbero almeno sedici anni di carriera). Poteva essere un disastro, tutto questo, un passo più lungo della gamba e un display di presunzione; invece è un disco ispirato, compatto, ammaliante, che ti cattura dall’inizio alla fine e pretende da te due ore della tua vita senza distrazioni – e tu accidenti se gliele dai con gioia, e pure con un po’ di emozione. Rari, dischi del genere. Non c’entrano onestamente un cazzo i Radiohead, che qualcuno ha provato a tirare in causa, se non nel “Famolo strano” di fondo: però la compostezza di Incani è molto lontana, per stile ed attitudine, rispetto a quello che hanno Yorke e soci anche nei loro episodi più sperimentali e concettosi.
Volendo invece un po’ di spirito Radiohead c’è in “How To Leave Your Body” di Not Waving. Soprattutto per la visione più cosmica e prismatica. Eccolo, il secondo grande disco di un italiano in uscita oggi. E se abbiamo coperti di lodi “Ira”, beh, sappiate che invece il disco Not Waving – Alessio Natalizia, all’anagrafe – è ancora più bello. E’, molto probabilmente, uno dei dieci migliori dischi dell’anno 2021, se non proprio il migliore: lo diciamo già a metà maggio. Non se lo filerà nessuno o comunque non se lo fileranno in tanti, perché Alessio ha (semi)tagliato i ponti con l’Italia già da tempi non sospetti, quindi non si giova in alcun modo dell’ondata di interesse verso gli italiani-che-fanno-musica italiana di cui parlavamo sopra, e perché comunque la sua musica non è semplice. Ma la maturità che ha raggiunto con questo disco, che sfiora anche il pop “intelligente” in più di un passaggio, è pazzesca, è stupefacente: tutto è al proprio posto, i suoni sono grandiosi, l’equilibrio tra forza espressiva e sperimentazione è sublime, alcuni tracce ti commuovono alle lacrime dalla bellezza. Anche gli ospiti “famosi” (Mark Lanegan, Jim O’Rourke, volendo anche Marie Davidson) non sono figurine da sfoggiare ma invece personalità perfettamente funzionali alla traccia per cui sono stati cooptati (che, per inciso, è ogni volta stupenda). Not Waving era già bravo, quando era l’expat che si faceva un nome nell’elettronica “intelligente” o quando era lo scudiero di Powell, ma qui compie un salto di qualità davvero strepitoso. Qualora non fosse chiaro: probabilmente, il disco migliore del 2021 (non il disco italiano migliore, ma proprio quello migliore tout court) sarà il suo. Almeno per chi scrive. Ma sentite un po’ anche voi.
C’è infine un terzo disco da citare, in uscita oggi, sempre in mano ad un artista di casa nostra: “Pantea” di Lorenzo BITW. E’ lontano dai vertici e dalle intensità di Iosonouncane e Not Waving, è un simpatico ed amabile disco di elettronica da dancefloor evoluto e multiculturale (quindi le striature afrolatine che piacciono alla gente che piace, nella scena); ma se a dire tutto questo e a dirlo così sembra che lo sminuiamo, è solo perché lo mettiamo in confronto con due LP monumentali. In realtà Lorenzo ha fatto il miglior lavoro della sua carriera, ha unito leggerezza e qualità, ed ha anche fatto scelte molto intelligenti a livello di ospiti (le collaborazioni funzionano tutte, ma quella con Clap! Clap! è semplicemente super e figlia la traccia migliore dell’album). In più, per presentarlo, Lorenzo ha avuto una idea veramente bella: una serie di podcast in cui incontra non solo musicisti ma anche giornalisti e responsabili per l’export della musica italiana nel mondo, di modo da ragionare insieme sulle cose. Podcast in inglese: così non siamo sempre noi a parlarci addosso, ma se qualche straniero è incuriosito dal sapere come butta a casa nostra ecco, ora sa cosa andare ad ascoltare. Una piccola, bella idea che dimostra come Lorenzo BITW abbia a cuore non solo se stesso ma anche il quadro complessivo: sa che il successo suo dipende dal maggior successo e dal maggior accesso di tutti. Una verità che l’underground tutto, nei secoli dei secoli, ha sempre fatto fatica a capire, ammazzando così spesso i suoi stessi figli – e davvero, qui non stiamo parlando solo di elettronica. Insomma: pure “Pantea” può essere inserito come una delle grandi uscite di oggi, operazioni che illuminano come non mai la (rinnovata) consistenza della scena musicale italiana.
Ieri parlavamo del pop, perché si può fare bene ed intelligentemente anche il pop, oggi i riflettori sono sulla meno facile, meno immediata, ma non per questo meno importante – anch’essa in questa determinata congiuntura storica può giocarsi delle carte davvero importanti. E può contribuire ad alzare la soglia di qualità del gusto della nazione, musicalmente parlando. Sarebbe bello non perdere questa occasione. E se per caso la perderemo, beh, tra un anno o dieci o venti rileggeremo queste righe e ci ricorderemo che il 14 maggio 2021 almeno sono usciti due dischi eccezionali, veramente eccezionali, ed uno molto carino. Tutti fatti da italiani. Tutti poco provinciali, tutti poco furbetti, tutti con lo sguardo aperto e la voglia di fare quel “passo in più”, ciascuno a modo suo e con la sua gravitas. E in più, un nome sulla bocca di tutti ha fatto uno scarto davvero sorprendente.
Ecco, tiriamolo fuori per queste cose, l’orgoglio italiano. Non per le cazzate sovraniste; non per gli egoismi, le ipocrisie e le avidità. La musica è importante, anche se Franceschini non lo sa; la musica fa stare bene le persone, la musica fa circolare sogni, sensibilità ed idee. Oggi ne abbiamo bisogno più che mai.