A volte, ripensandoci, non ci si crede. Sembra impossibile che una cosa del genere sia potuta succedere, che uno come Lou X sia stato per circa un lustro uno dei rapper italiani più grossi. Seppure in un’Italia molto diversa e con un’industria dello spettacolo altrettanto diversa, seppure in un mondo musicale in generale e hip hop in particolare assai più avvezzo ai contenuti rispetto a quello attuale.
Bisogna fare uno sforzo dunque, anche se siamo nati nei ’70 o nei primissimi ’80 e sappiamo di cosa stiamo parlando. Bisogna concentrarsi e pensare che il rap italiano, quello che invade le classifiche e i negozi della grande distribuzione, quello diventato linguaggio dominante spingendo sostanzialmente “egotrip e ideali da italiano medio” (grazie Masito), un tempo non fosse neanche lontanamente prevedibile, nemmeno negli incubi più sudati.
Cancellati almeno per un istante nani e ballerine, bisogna tornare ai primi anni ’90 e immaginare un rapper che entra in quella scena come un elefante in un negozio di porcellane, con un debutto su cassetta di rara violenza verbale (Rappresaglia, 1991) e una strofa devastante nel capolavoro degli amici Assalti Frontali (Terra di nessuno, 1992).
Bisogna immaginare un “bastardo senza dio né stato” che mette pochissimo filtro fra vita e palco, che rappa a rotta di collo su basi dense e rumorose con i Public Enemy nel cuore, che affronta la politica con ringhio da strada e la strada con consapevolezza politica, che si nutre di conflitto a un livello che pare da subito più bruciante, vero. Seppure in anni di rap politico diffuso, è necessario sottolinearlo.
Bisogna pensare a un antagonista che faceva il rapper, quando era casomai più comune il contrario. E che lo faceva molto bene, sempre meglio. Un ragazzone di provincia che da un panorama in parte già proiettato all’apparenza più che alla sostanza, ma col senno di poi nemmeno così da buttar via, prendeva le distanze senza mezzi termini (“Scappa da Lou X se preferisci il rap cha cha cha“, canterà in seguito). Figuriamoci cosa direbbe adesso.
Saperlo, così come sapere direttamente da lui cosa ricorda di quegli anni così intensi, o come mai è praticamente scomparso dalle scene dopo un ultimo, amaro e meraviglioso album vecchio ormai diciotto anni (La realtà, la lealtà e lo scontro, 1998), pare impossibile. È cosa nota: l’uomo Luigi Martelli da Tortoreto, Abruzzo, non rappa e non parla più, da tantissimo tempo (se si escludono le quattro parole contate del ritornello di A ferro e fuoco del collega salentino Aban, fulmine a ciel sereno di fine 2015 non si sa quanto indicativo di una reale volontà di ritorno). Nessuno sa bene perché, se ne sono sentite di ogni genere, ma una cosa è certa: a tutti manca, tantissimo. I suoi dischi toccano quotazioni a tre cifre, le sue canzoni continuano a girare, resistendo e tramandandosi come tasselli di una vicenda dai caratteri quasi leggendari.
Abbiamo parlato, però, con uno che in quegli stessi anni gli è stato molto vicino, fino a firmare con lui il suo primo vero album (Dal basso, 1994) e a produrre quello successivo (A volte ritorno, 1995): Marco Fioritoni in arte Disastro, o Dsastro. Produttore e DJ d’eccezione, mano e orecchio fondamentali nella definizione dello stile di Lou X, tanto aggressivo e potente quanto creativo e raffinato. L’occasione è la ristampa proprio di Dal basso, uscita da qualche mese nella serie Vinili Doppia H della veronese Tannen, e proprio da lì abbiamo cominciato.
Che effetto fa riascoltare il disco oggi, a più di vent’anni dalla sua uscita?
Ogni tanto in questi anni l’ho rimesso su, anche prima di lavorare alla ristampa, e mi ha sempre fatto piacere risentirlo, mi è sempre venuto un piccolo brivido dietro la schiena. È un lavoro molto crudo, nato di getto, senza troppe pippe. Mi emoziona, è legato a situazioni che abbiamo vissuto in strada. È un disco che, seppur grezzo, segna un momento importante per me. Ed è un lavoro creato in un determinato periodo storico, che ne contiene situazioni e avvenimenti.
Su cosa hai lavorato in particolare per la ristampa?
Ho rielaborato le grafiche da vecchi negativi originali che ho ritrovato, e ho rifatto la copertina quasi uguale a quella dell’epoca. Ho rimasterizzato le tracce in uno studio delle mie parti, con un tecnico: gli ho detto di restare fedele all’originale, di non stravolgere la dinamica, il suono, l’equalizzazione, di rifarlo come è nato. Ho aggiunto un po’ di volume e di bassi, e fatto qualche ritocco.
Veniamo a quegli anni, allora: come vi conoscete tu e Luigi?
Qui in città, a qualche festa o per la strada, non ricordo bene. Eravamo ragazzi, entrambi seguivamo l’hip hop, ci siamo beccati tramite il ragazzo che gli aveva prodotto Rappresaglia. Era un DJ amico mio, mi disse che c’era questo ragazzo che faceva il rap in italiano, me lo fece conoscere e dopo un mese eravamo chiusi in studio a fare Dal basso.
Vi siete trovati subito?
Sì. Mi propose di andare con lui al concerto di Parco Lambro, a Milano. Il concerto del ’91 con tutti i gruppi storici di allora. Il mio primo live, c’è anche su YouTube. Poi ne facemmo tanti altri, sempre nel circuito dei centri sociali, con Lion Horse Posse, Assalti Frontali… durante la lavorazione dell’album nacque una serie di contatti con quelle che poi diventarono le posse italiane.
Tu comunque già producevi musica, avevi fatto singoli house se non sbaglio.
Avevo fatto un 12″ hip hop con C.U.B.A. Cabbal, il cugino di Luigi: Cuore di rabbia/Affari di droga. E poi delle produzioni house, sì, con lo stesso ragazzo che mi fece conoscere Lou X, Enrico Mantini, che nei credits di Rappresaglia si chiama DJ Erik. Sono uscite per la UMM e altre etichette.
Cosa ti piaceva del rap in generale, e di quello italiano in particolare?
Era semplicemente un gusto musicale mi attraeva, credo a causa di qualche gene nascosto. Un po’ di curiosità, i libri che leggevo, le gestualità eccentriche e i colori che accompagnavano quella scena musicale, il suono accattivante dello scratch, i vestiti strani, i motivi per cui era nata quella musica.
E Luigi? Cosa ti colpì di lui? Perché decidesti di lavorare con lui?
Perché ascoltavo un certo tipo di rap italiano, e ritenevo che dietro al rap dovesse esserci un messaggio, e se questo messaggio era politico e di denuncia meglio ancora. Lou X era l’unico rapper italiano a farlo, al tempo, insieme all’Onda Rossa Posse e a pochi altri. Conta che avevo 16 o 17 anni, non c’era Internet… mi prese proprio, mi dissi “Cazzo, senti cosa dice!”, e poi era della mia città. Mi ci sono buttato.
I tre anni che passano da Rappresaglia a Dal basso sono anni di concerti e lavoro fitto, ho letto che praticamente vivevate insieme…
In realtà fra le due uscite passano due anni, due anni e mezzo. Rappresaglia è di fine ’91 e Dal basso di inizio ’94, e poi io Luigi l’ho conosciuto mesi dopo l’uscita della cassetta. Come ho detto, mentre fabbricavamo l’album suonammo anche molto in giro per l’Italia, tant’è vero che alla fine il disco lo produsse il gruppo romano della Cordata per l’Autorganizzazione, quello creato al Forte Prenestino da Assalti Frontali, AK47, Musica Forte, One Love Hi-Pawa. Decisero di stamparlo subito dopo Terra di nessuno degli Assalti Frontali. Lou X aveva collaborato a un pezzo nell’album, Assalto frontale, e ricordo che mi aveva gasato parecchio…
Hai detto niente, è una delle strofe più belle della storia del rap italiano…
…e quindi mi sono messo a fare ‘sta roba con i campionamenti, nastri e nastri registrati da Blob, videocassette, cose prese praticamente ovunque. Tornavo a casa da scuola e fino a sera ci chiudevamo in studio, o a casa di amici a prendere campionamenti. A tempo pieno. Lavoravo con le macchine che c’erano all’epoca, come l’Akai S950, il campionatore che si usava al tempo facendo hip hop.
Dovendo lavorare con Lou X e avendo sentito le sue cose precedenti, che suono avevi in mente?
Un suono legato alla musica che ascoltavo ai tempi, quindi Public Enemy e NWA, quella roba lì. Rap d’assalto.
Molto denso, pieno.
Infatti. Nel disco ci sono tantissimi campionamenti, e nel mixaggio ci sono stati dei problemi per quanto era denso il suono.
Ci sono tante cose sovrapposte…
Sì, sì, come si usava al tempo in un certo tipo di hip hop. Tantissimi campioni insieme e voci che si sovrapponevano.
Il suono dell’album è molto rumoroso, ma allo stesso tempo anche molto funk.
Sì, in qualche pezzo soprattutto. Considera a 17 anni non avevo né la maturità musicale né gli ascolti che posso avere adesso. L’ho fatto come mi veniva, magari sentivo un campione e dicevo “Cazzo, questo mi ricorda un pezzo dei Public Enemy, lo voglio fare simile”. La disponibilita di dischi che si aveva al tempo era quella, e anche le conoscenze. Volevo un sound d’attacco, tipo quello degli Assalti di Terra di nessuno, anche.
Qualche campione in particolare?
Ho lavorato molto, ad esempio, sulla manifestazione di Torino del settembre ’92, quando la celere attaccò il furgone dei centri sociali su cui stavamo suonando. In tutto l’inizio di Che sta succedendo? ci sono cose prese da videocassette di Blob e telegiornali, quando facevano vedere gli scontri. Voci di giornalisti e della piazza, che avevo registrato io stesso o mi erano state date da amici.
A quel pezzo sono legato in maniera particolare: su quel furgone c’ero anche io, rapper alle primissime armi che per fortuna poi è passato ad altro. Sentendola sul disco ricordo di aver percepito la potenza del rap come cronaca, dopo aver vissuto in prima persona il tentativo di fermarlo con i manganelli. Cosa ricordi di quella giornata?
Fu una delle mie prime esperienze a una manifestazione… che dire, una bella botta. salirono sul furgone mentre c’erano anche i 99 Posse, se ben ricordo, e spaccarono tutto: piatti, mixer, soundsystem. Mi è passato qua il manganello, a momenti…
Altri campioni usati?
Un nostro amico aveva un negozio di dischi e ce li prestava, siccome era un nostro fan. Io li campionavo e glieli ridavo stando attento a non rovinarli, perché lui poi li doveva vendere… Le Mystère Des Voix Bulgares, Dead Kennedys, Officine Schwarz, Dead Can Dance, rock progressivo tipo Atomic Rooster, roba industrial, roba di qualsiasi tipo. Non funk, Dal basso è stato fatto quasi senza campioni funk o black.
In Quando la patria chiama c’è un riff di chitarra molto hard.
Quella è I Love Lucy di Albert King, il bluesman. Di roba riconoscibile ce n’è poca in realtà, sono quasi tutte frasi molto brevi. Per Italia ho campionato molto dalla televisione, da Schegge, quando di notte mandavano il jazz. C’è Foxy Lady di Jimi Hendrix rifatta jazz da un gruppo che non ricordo…
Ci sono anche parti suonate comunque, linee di basso ad esempio.
Sì, i bassi e i rinforzi delle melodie sono fatti da nostri amici. Ci sono linee di basso suonate in Solo… (Come un cecchino), Intro 2 e Dal basso. Il tipo mi suonava tante linee e io le campionavo in diretta con l’Akai, che aveva poca memoria e quindi dava un suono grezzo, poco compresso. Ecco perché non è che l’album suoni benissimo, anche se poi siamo andati a registrarlo in studio con un tecnico. Che però era uno che faceva cose tipo la figlia di Claudio Villa…
Classico. Per il rap in Italia erano proprio tempi da pionieri, erano usciti pochissimi dischi e il giro era di poche persone. Immagino la reazione del fonico di uno studio di registrazione normale.
Non sapeva proprio che genere fosse, era spiazzato: “Ma che roba è? Parlate?”. Era ancora a ‘sto livello, gli ricordava Celentano. Alla fine si è messo da parte e ce lo siamo mixato noi, con le nostre incompetenze. Anche perché lui comunque tendeva a mettere la voce molto fuori, altissima, con le basi inesistenti sotto.
Chiaro, all’italiana
Esatto, senza cassa e basso. Dopo un po’ ha detto “Vabbè dai, fate come cazzo vi pare”.
La cassetta mi era piaciuta molto anche per i contenuti, perché seppure in anni in cui il rap politicizzato era più comune di adesso, quella era un’altra cosa ancora. Un altro livello di scontro. In Dal basso però c’è un salto netto di Luigi per quanto riguarda lo stile, la scioltezza, la sicurezza. C’è un grande passo in avanti sia nelle cose che dice, sia nella maniera in cui le dice.
È vero. L’ho notato, e ci stavo pensando proprio da poco guardando All’assalto, il documentario sul rap in italiano di Paolo Fazzini, che all’epoca era nelle Menti Criminali e adesso fa il regista. Nel film c’è una sequenza inedita di Luigi in studio con gli Assalti Frontali proprio mentre registra la sua strofa per Assalto frontale, a cappella praticamente, con la musica in cuffia. Mi è venuto in mente proprio questo, c’è un’evoluzione enorme, un cambiamento di stile e flow netto. Meno cadenzato, meno lineare. Forse è stato l’incontro con Militant A, frequentando lui ha preso quel modo di rappare.
Il fatto di non andare necessariamente in rima, ad esempio, ma anche la scioltezza.
Citi bene Assalto frontale: la prima cosa del “nuovo” Lou X che ci arriva è quella, ed è pazzesca. Pur in un disco epocale come Terra di nessuno, quella strofa ruba la scena. Ricordo di essere rimasto a bocca aperta la prima volta, soprattuto avendo nelle orecchie il Lou X della cassetta.
Certo. È più professionista, più evoluto. Quella canzone è veramente la miglior cosa italiana che fosse uscita ai tempi, e per un bel po’ lo è rimasta.
Tu che lo vedevi tutti i giorni: era un lavoro quotidiano il suo?
Le parole erano pesate. Ogni parola. Lui non viveva e non vive nella mia città, i testi li faceva per conto suo. Mi dava un titolo o un’idea e io su quello sviluppavo un’atmosfera, oppure il contrario, io facevo una strumentale, gliela davo e lui si faceva venire in mente un tema. Altre volte invece scriveva il testo tipo poesia a casa sua, su una base qualsiasi, e poi lo adattava alla mia.
Ho sempre trovato che fossero pochi, purtroppo, i testi narrativi. Quelli dove racconta una storia, rispetto al classico flusso alla Lou X: Quando la patria chiama su Dal basso, Cinque minuti di paura su A volte ritorno e basta. È strano, anche perché sono quelli che la gente ricorda per primi e con più piacere. Come mai non ne ha scritti di più?
Non so bene come risponderti. Anche quello di Che sta succedendo? è basato su una storia, quella manifestazione di Torino, ma tra le righe, se uno non lo sa non puo capirlo. Sono questi, e basta. Vuoi sapere il perché?
La cosa mi incuriosisce perché sono pezzi praticamente perfetti, e sono quelli in cui meglio di tutti si conferma l’impressione che si aveva al tempo ascoltando. Ovvero, che ci fosse pochissimo filtro fra la persona Luigi e l’artista Lou X. Che la sua vita fosse in quei dischi, e ancor di più in canzoni come quelle: è evidente che sono storie che ha vissuto.
Sì, certo. È vero per i pezzi più descrittivi, ma anche quelli dove la cosa è meno esplicita sono sempre situazioni sue, di vita, magari nascoste fra le righe attraverso descrizioni di stati d’animo, o interpretazioni che lui dà della realtà.
Un’altra impressione era che ci fosse un equilibrio fra politica, intesa soprattutto nel senso di conflitto, e vita di strada pura, esperienza quotidiana in una città che poteva essere qualunque piccola città italiana del tempo. E questo lo rendeva diverso sia da quelli solo di strada, sia da quelli solo politici. Era una cosa vera, e penso sia uno dei motivi per cui è rimasto nei cuori della gente più di tanti altri. O sbaglio?
No, lo penso anch’io. Il fatto di vivere in una piccola città… non è che nella piccola città vivevi tutto quello che raccontavi nei testi, qui non è che eravamo a Milano negli anni ’70, o a Roma. Però… (Voce fuori campo: ” Qua era peggio” – ndr) Qua era peggio! No, vabbè, dici? Comunque, la domanda la dovresti fare a lui.
Mi interessava capire come fosse vivere in quegli anni da outsider, da antagonisti, a Pescara. Facendo quelle cose.
Com’era… noi viaggiavamo molto, quindi bene o male penso che che questi testi siano stati elaborati sulla base di cose che lui vedeva in giro, situazioni che viveva anche altrove. Eravamo giovani, ma Luigi si era già fatto un’idea del mondo, di ciò che succedeva, non solo stando qui ma viaggiando.
Pescara e l’Abruzzo comunque ci sono in quei pezzi, tramite espressioni gergali o dialettali, riferimenti. Si sente che non venite da Roma, da Milano o da Torino, e che c’è anche un certo orgoglio…
C’era sempre un senso di appartenenza alla nostra terra, ma quella abruzzese era anche una realta anche più provinciale e chiusa, una chiusura che soffocava e che veniva espressa sotto forma di testi. Credo comunque che nei testi sia descritto ciò che lui sentiva nei confronti del mondo. E stando qui, ci metteva ovviamente anche cose che riguardavano la sua esperienza, il servizio militare di Quando la patria chiama, storie di vita come Cinque minuti di paura. Per quanto riguarda le musiche, il vivere qui ha effettivamente condizionato il mio sound. È sempre così, anche nell’hip hop americano: il sound di New York, dove fa freddo, è diverso da quello californiano. Sicuramente, Dal basso è così confuso e nevrotico anche per le esperienze che vivevo qui nella mia città.
Dal basso esce dunque prodotto dalla Cordata. Frutto del vostro contatto con una scena romana all’epoca molto forte, ricca di gruppi ed esperienze. Com’era andare a Roma in quegli anni, prima da semplici ascoltatori e poi da artisti che suonavano insieme a quei gruppi?
Le prime volte ci andavo per vedere i concerti, e a 17 anni mi sono ritrovato catapultato sul palco. Ero piccolo, molto gasato, e quasi sentivo di rappresentare anche i ragazzini come me che magari non erano riusciti ad avere un certo tipo di contatti con quei gruppi. Mi sentivo sia fortunato ad essere capitato lì, sia contento di me stesso per aver scelto quel tipo di strada, e una musica che avesse a che fare con quel tipo di messaggi.
Ricordo di aver visto Assalti Frontali dal vivo per la prima volta proprio nel tour di Terra di nessuno, con Lou X sul palco: una forza della natura.
Era una cosa forte, una cosa importante.
Era potentissimo musicalmente e artisticamente. Ma ricordo anche la sensazione di aver trovato finalmente della musica che poteva incidere sulla realtà. Poi non è successo niente, però… era qualcosa di veramente forte, non solo musicalmente.
Esatto. Avevamo riproposto in chiave italiana la musica che ascoltavamo, ed ero felice anche di aver conosciuto quei gruppi, di essere entrato in contatto con la scena hip hop in generale. Far parte di quel gruppo, di quella crew, mi faceva più che piacere.
Con chi altro avevate legato in particolare?
Nel panorama hip hop italiano eravamo abbastanza isolati. Non avevamo troppi contatti con l’altro tipo di hip hop, quello non politico. Tutto qui. Però, mentre a me piaceva comunque ascoltare i dischi della Century Vox, ad esempio, so che alcuni odiavano il rap politico, non lo classificavano nemmeno come rap, dicevano che le posse non erano rap. Che te devo di’?
La divisione c’era ed era netta per molti, sicuramente più in un senso che nell’altro…
Non penso ci fosse nulla di male nel descrivere la realtà del tempo, piuttosto che parlare solo di graffiti e di breakdance. E comunque, anche i gruppi americani erano politici. Se prendevi Jungle Brothers o A Tribe Called Quest, KRS One o la Zulu Nation, erano del tutto hip hop ma erano anche politici, il loro era hip hop politico, non erano MC Hammer. Io la vedevo così, e invece era un tabu: il rap non è politico, per carità! Non ho mai capito perché, sembrava quasi che alcuni odiassero questo tipo di rap.
Come giravate all’epoca? Con i vinili delle strumentali americane?
Un misto, quelli e un DAT portatile con le nostre basi in sequenza, preparando quindi il concerto prima. Io poi ci scratchavo sopra.
Come era la risposta dal vivo? Tanta gente?
Sì. Andavamo anche a suonare in posti grandi, ricordo Bologna con Onda Rossa Posse e Sante Notarnicola in un’arena… c’era tutto un discorso dietro, non era solo una serata hip hop. Era una situazione densa, non il solito concertino. Suonavamo sopratuttto nei centri sociali, ad Ancona ci è capitato di farlo anche durante uno sgombero, è entrata la polizia mentre suonavamo. Siamo andati anche Sardegna, c’è il video su YouTube con un botto di gente che salta. L’Italia tutta l’abbiamo girata, c’era sempre qualcuno che ci chiamava, qualche collettivo legato alla politica. Ma ci è capitata anche qualche jam hip hop, e nonostante la diatriba politica sì/politica no c’era chi apprezzava, la risposta era buona.
Vi rendevate conto dell’importanza di quello che stavate facendo? Dell’enorme impatto che stavate avendo, e avreste continuato ad avere a lungo, sulla vita di tanti ragazzi e ragazze? O magari ve ne siete resi conto solo dopo?
La nostra intenzione era di lasciare dei messaggi e qualcosa su cui riflettere. Facevamo la nostra musica, ci divertivamo e volevamo portare avanti delle idee. Certo non pensavo che a distanza di vent’anni sarebbe successo questo, non immaginavo di andare a finire sui libri, o che i nostri dischi venissero quotati centinaia di euro. Assurdo. Grazie, comunque.
Dopo Dal basso tu e Luigi fate insieme anche A volte ritorno, che esce però per la BMG. Come arrivò l’interesse di una major, su una delle cose meno “da major” in giro in Italia in quel momento?
La major in realtà non è la major. È Carlo Martelli, un ragazzo come potresti essere tu, che faceva il giornalista, bazzicava quei giri e lavorava per BMG. Ci disse: “Sentite, io ascolto a palla Lou X e lavoro per questi qua, che volete fare? Non ci sono censure o filtri, potete dire quello che volete. Decidete voi.”
Di fronte alla proposta fu duro per voi decidere di passare a un’esperienza cosi diversa, o la cosa non vi creò problemi?
A parte che ero piccolo, neanche maggiorenne, mi dicono “vai con la major”… la cosa la misi al vaglio di alcune persone. Il contatto ce lo diede Sante, del giro Assalti, che lavorava da Disfunzioni Musicali a Roma. Andavo da loro a cercare campionamenti, scendevo nei sotterranei e lui mi metteva a disposizione i vinili che erano lì da vendere, io mettevo i campionamenti su DAT e me ne andavo. Martelli non ci è venuto a cercare attraverso altri canali, diciamo che è stato prefiltrato da Sante.
Da gente di cui vi fidavate, insomma.
Sante era una specie di ufficio stampa degli Assalti. Ci disse: “C’è questo mio amico che lavora in BMG, vi dà carta bianca, ha ascoltato Dal basso e vuole riproporlo in chiave più commerciabile. Se volete avete questa opportunita.” Neanche ce lo avrebbe proposto se non fosse stata una cosa buona per noi. Ci fidammo: se ce lo proponeva lui, il tipo era tranquillo.
Quindi, la major non solo non la vivete in contrasto con l’arrivare da un’esperienza di movimento come la Cordata, ma anzi il contatto arriva proprio dall’interno della Cordata stessa!
Sì, arriva da lì.
Era sembrato strano, che fra tutti quelli che poteva prendere la BMG prendesse proprio Lou X.
Capisco che il messaggio espresso in Dal basso e Rappresaglia è un po’ in contrasto con una major…
Guarda, non la penso neanche del tutto cosi. Tutti noi abbiamo cominciato ad ascoltare musica in qualche modo alternativa grazie a qualcuno che era andato a farla su major “vendendosi”. Né ne io né te né nessuno avrebbe ascoltato la musica che ha ascoltato.
Io non mi sono sentito proprio un venduto. Magari posso essere stato un complice, complice di un business, che ti devo di’…
Dipende, tanto più se uno ha un messaggio e vuole farlo girare.
Mi hanno criticato anche per aver ristampato con Tannen. Riccardo l’ho conosciuto tramite il Danno, non è che faccio le cose… Mi hanno detto: “L’avete fatto con Tannen, è la fine”. Manco ho risposto, ma che cazzo vuoi?
Non vedo cosa ci sia di male. Tra l’altro, a proposito di ristampe, come mai BMG non ha mai ristampato gli altri due, o non li ha tenuti in catalogo?
Non so, forse perché non erano tanto vendibili?
Non direi. Secondo me a quest’ora avrebbero venduto tante di quelle copie che non ci crederebbero nemmeno loro. Sono dischi che in fin dei conti hanno in pochi, di cui la gente inizia a sentire parlare senza trovarli, o trovandoli carissimi quando spuntano su Discogs. Farete anche quelli con Tannen?
Non ho idea. Io qualcosa farei, ma dobbiamo sempre consultarci fra noi, vedere. Mi piacerebbe.
La prima cosa che si nota di A volte ritorno è il cambio d’etichetta, come detto. Poi lo si mette su e si sente che è molto diverso da Dal basso. Per quanto riguarda la musica, immagino che i mezzi a disposizione fossero migliori, oltre a essere ulteriormente cresciuto tu come produttore.
Avevo ascoltato altre cose, altri generi, avevo più cognizione di quello che stavo campionando, e avevo anche preso qualche altro macchinario per suonare. Il sound non è grezzo come quello di Dal basso, ma più elaborato, diverso. Forse è diverso anche ogni pezzo, più frammentato, più vario. Dal basso è più omogeneo come suono e come ambientazione, in A volte ritorno invece trovi cose molto varie, e tecnicamente suona meglio.
È venuto come volevi? Ti piace?
Alcuni brani sì, altri meno, altri li considero incompleti. Tutto sommato, non mi piace come Dal basso. Ho avuto meno tempo per farlo, c’era fretta, e forse è questo e il contro del farlo con una major: mi avevano dato tot mesi, quattro mi pare… è poco!
Mentre per Dal basso avevate lavorato liberi, quando è pronto è pronto?
Infatti, e lavoravamo anche in altre condizioni, di vita. Quello di A volte ritorno era un altro periodo.
È anche il periodo in cui arriva la fama. Come gestite la situazione? Cambia qualcosa?
No. Dici fra di noi?
Non necessariamente. Intendo che una cosa è fare i dischi con gli amici e farli uscire quando sono pronti, un’altra è avere delle aspettative proprie e altrui da tenere in conto, avere sempre più gente a sentirti che magari ha un’idea di te non corrispondente a quello che sei davvero, ad esempio. La fama non sempre è facile da gestire.
Beh, ma che fama è? Con A volte ritorno non è che ci siamo trovati catapultati in alto come fossimo un gruppo… che ne so…
Il video però si vedeva in televisione, e vendevate migliaia di copie…
La nostra vita non era cambiata. Non eravamo un gruppo preso dalla strada da un manager e catapultato sotto le luci di un palco. Avevamo fatto solo un disco su major, continuando a suonare nei centri sociali come prima, non è che lo portavamo a Domenica In. A livello di rapporti umani non era cambiato nulla.
Dopo l’uscita del disco, però, le vostre strade si divisero.
Sì. Io andai a vivere fuori, a fare altro. Per i cazzi miei, mi assentai. Prima comunque avevamo fatto il tour di A volte ritorno, suonato al concerto del primo maggio a Roma e con i Cypress Hill sempre a Roma. Poi io me ne andai, e Luigi si mise a lavorare all’altro disco.
Come mai hai mollato e sei andato via?
Non non ho proprio mollato… poi ho ripreso fra l’altro, ho fatto anche altri dischi, i dischi con C.U.B.A. per la Relief ad esempio. Diciamo che in quegli anni avevo un po’ di cazzi e sono andato a vivere fuori. Ho continuato a fare musica però, anche serate come DJ, ma non con Luigi. Quando sono tornato La realtà, la lealtà e lo scontro era finito, e ho detto: “Lui’, che facciamo? Ci mettiamo un po’ all’opera? Facciamo qualcosa?”, e lui: “No, no, io accanno tutto.” Tant’è vero che ha rescisso il contratto con la BGM appena uscito il disco, e il tour dell’album non è stato fatto. Non so perché.
Ti sei fatto un’idea?
Tutte queste domande falle a lui. Io non lo so, in tutto quell’anno io non l’ho frequentato. Ti dirò, sinceramente non lo so.
Da 4’12”, Danno (Colle der Fomento) spiega Lou X in quattro minuti.