A volerla dire tutta, una prima chiave di lettura di quest’edizione di I Love Techno ce l’ha data lo stesso mix dedicato di Brodinski, rilasciato qualche tempo prima del festival, che alle nostre orecchie era suonato come la rappresentazione perfetta del miglior profilo possibile per la techno di oggi: serio, cerebrale, che non si lascia andare ai facili piaceri di pancia ma che instaura un contatto più profondo, che punta alla testa e poi al cuore. Una specie di conversazione privata con gli appassionati di genere, per un’edizione che fin dalla line up, prima ancora di esserci, ha trasmesso la chiara intenzione di ristabilire la connessione con la natura genuina della techno, dopo che l’edizione passata ci aveva colpito (ed esaltato) per le tante aperture fuori dai propri steccati naturali.
È stata l’edizione del ritorno alle origini, della via di casa, della riscoperta del focolare. Ed è stato bello viverla così, come una faccenda per pochi (giusto quei quarantamila e passa come ogni anno, forse stavolta anche di più), come il rito di una setta che non vuole infiltrazioni. D’altronde, se evento dev’esserci capace di parlare da reverendo ai propri fedeli, quello è I Love Techno: per quel che rappresenta per il suo pubblico, per quella sensazione di raccoglimento di compagni che provi già alla stazione di Bruxelles, dove ragazzi provenienti da mezz’europa si incrociano cantando cori da stadio come tifosi arrivati finalmente alla tanto attesa finale di Champions.
Per molti è il momento dell’agognata liberazione, I Love Techno. E di questo momento di raccolta, la messa cruciale stavolta ovviamente è stata il live degli Underworld: è per loro che la blue room quest’anno è stata costruita in una sezione separata, raggiungibile con corridoio apposito, grande due volte e mezza le altre aree. Ci siamo voluti arrivare con dieci minuti di anticipo, per gustarci l’attesa e la venuta di una band che rimane culto e tocca le corde della passione storica, dell’emozione che non capita ogni giorno. Sì, sembrava un conclave allargato, ognuno con la sensazione di star vivendo attivamente un momento storico importante. Alle prime luci scatta il boato, e mentre gli Underworld dal loro altare suonano il vangelo dei cardinali dentro la propria cattedrale, il pubblico se lo gode senza eccessi, contenendo ogni movimento dentro una cornice di rispetto che sa di preghiera. Voluta o meno, è stata la risposta a chi l’anno scorso s’era lamentato delle derive non richieste. Chi voleva tornare a perdersi nel proprio amore puro e inossidabile era lì, e se l’è goduto tutto fino alla fine.
Eppure non è tutto qua. Tornare a stringere il focus sulla techno significa far luce su tutte le espressioni e le sfumature di un genere che non sta mai fermo, che da sempre poggia la sua mano su superfici diverse tra loro. È quello che vedi scorrendo le sale, passando da momenti aggressivi a altri più aggraziati, da protagonismi dell’individuo a onorificenze al suono, da circuiti fatti per sorprendere a rituali che riflettono le aspettative. Sono le tante pose dell’organismo in continuo movimento, ed è stato caratteristico vederle dipinte nei volti dei protagonisti delle varie sale. Come fosse un gioco di ruolo, o una piece teatrale. La sfilata dei personaggi ve la proponiamo qui sotto, come se ognuno agisse e reagisse in base all’atteggiamento dell’altro. Nel dialogo sui massimi sistemi ognuno ha una propria teoria, e quella notte le tesi erano tutte sul tavolo.
A vincere quest’anno è stata l’intenzione di base. Non un passo indietro, ma la capacità di poter dare risposte a quesiti perfettamente odierni, che trasudano preoccupazioni e timori, che accettano ogni evoluzione ma hanno anche a cuore la preservazione dello spirito originario. I Love Techno 2014 forse rappresenterà solo un momento isolato, magari le nuove direzioni torneranno e con essa il noto intreccio di esaltazioni e timori. Ma anche preso singolarmente, questo momento ha significato sicurezza. Sicurezza che qualsiasi cosa succeda, il valore prezioso delle cose resta. Sempre. È sempre lì, sapientemente conservato dai detentori del sapere, pronto a tornare quando se ne sente il bisogno. Quelli qui sotto son stati “semplicemente” gli oracoli di quella serata. Il messaggio a questo punto lo conoscete bene. Fatene tesoro, dovrebbe bastarci per almeno altro mezzo decennio.
ILT14: gli oracoli
Jimmy Edgar: nel pieno di un momento artistico sfuggente e inafferrabile come mai era stato nel suo percorso personale, tira fuori un set dove niente è circoscrivibile in una cornice ben precisa. Non c’è via alternativa che non prende per offrire il massimo dell’imprevedibilità. Seguire il filo è impossibile, tocca mettersi lì e farsi manovrare come inconsapevoli burattini. Cosa combina non si sa ma ci fidiamo ciecamente. Messia.
Daniel Avery b2b Erol Alkan: dopo quel che hanno fatto all’ultimo Melt! ci presentiamo con grandi attese e ne usciamo con tutte le conferme del caso. Con loro non c’è sorpresa, non ci sono esperimenti. C’è solo qualità, altissima e irreprensibile qualità. Ronzavamo come api dentro e intorno all’alveare, era lì che si produceva il miele. Infallibili.
Vitalic: momento popolarità. Sala stracolma e rovente, chi c’era era lì per avere tutta la techno esplicita che si poteva desiderare. C’era un tacito accordo tra il dj e il pubblico: non tenersene nessuna. È lì che rispuntano di nuovo i cori da stadio, il rischio di overdose, la pompa inaudita. Pusher.
Brodinski b2b Gesaffelstein: momento euforia. Il padrone di casa di quest’anno e quello dell’anno scorso, insieme a passarsi tutti i capricci del mestiere. Un set che scivola via con ingegno e tenacia, tempi veloci e sapori robusti. Per chi non deve chiedere mai. Stilisti.
Boys Noize: prende il carro armato e passa sopra al mood del festival col suo infallibile esercito. Il modo in cui catalizza e inebria la folla ha qualcosa di autoritario, militare, quasi violento. Bisogna stare al gioco della sottomissione, con l’ebbrezza del rischio e la consapevolezza che le cose potrebbero prendere la piega sbagliata. L’eccitazione del masochista. Prepotente.
Paul Kalkbrenner: come diceva lui? Se tutto funziona sempre alla perfezione, perché cambiare anche solo una virgola? Il suo live è il momento logisticamente più critico di tutto il festival, per mezz’ora l’ingresso è bloccato nonostante stia nella sala più grande del polo. È il suo live, è il suo pubblico. Quando entriamo è il momento di “Jestrüpp” e cinque minuti bastavano per cogliere l’andazzo dell’intero show. Niente poteva essere fuori posto. Voce del verbo “soddisfare”, senza muovere di un centimetro i propri binari. Matematico.
Paul Woolford: è il vincitore della prima fase del festival, quella di riscaldamento. C’era già chi randellava incazzato (tipo Marco Bailey in Red Room), e chi spingeva incurante del momento (Mumbai Science intrattabili), lui gioca di stile e propone un set più gioviale e accattivante, ricco di groove e cambi di passo. Sfizioso.
Jamie Jones: ne viene fuori pulito come il culetto di un bambino. Messo a metà tra gli Underworld e Paul Kalkbrenner, capisce he aria tira e fa un set lineare, profumato, praticamente house. Innocenza.
Happa: il ragazzo ha un atteggiamento aristocratico, usa un linguaggio altolocato e strutture che richiedono attenzione, tempo, impegno. Forse non il prodotto ideale da offire in un festival dove i tempi corrono velocissimi e ti ritrovi a dover convincere il pubblico nel giro di un quarto d’ora, ma il talento c’è e per sentirlo bastano trenta secondi. Segnarsi nell’agenda di goderselo con più calma in un’occasione diversa. Virtuoso.
Ten Walls: più che Jeff Mills, DJ Rush o Len Faki, più di qualsiasi apoteosi di perfezionismo e professionismo dei maestri, la chiusura ideale di questo I Love Techno ce la dà un giovane che ci mette cuore, fantasia, luce. Un set che decolla fin da subito e non smette di aprire panorami, puntando lo spazio. Un piacere per le orecchie, una carezza che rassicura ogni timore. La techno ha futuro. La techno è futuro. Risolutore.