A Tribe Called Quest. “Low End Theory”. Venticinque anni fa, già (il disco usciva esattamente il 24 settembre 1991, quindi siamo proprio in zona ricorrenze e festeggiamenti: come ad esempio ha fatto XXL qui, o Wax Poetics qui con un mixato speciale preparato per l’occasione). Dunque. Non è questione di essere nostalgici, occhio. Non è solo questo. O meglio: uno può e deve fare un’analisi, no? Poi, se ritiene ci siano gli elementi per essere nostalgici, ha tutto il diritto di esserlo, mentre invece se ritiene che “…ciò che è stato è stato, scurdammoce o’ passato” perché insomma il presente e il futuro sono più interessanti e più “vivi”, beh, c’è tutto il diritto. Ma tutto, proprio.
Perché ci sta anche, badate bene, che ad orecchie abituato all’hip hop di oggi pieno di tastiere e di suoni sintetici “urlati” e poderosi un disco come “Low End Theory” suoni basico, fiacco, essenziale, bidimensionale. I custodi dell’hip hop della golden age un giudizio del genere lo considererebbero e lo considerano un sacrilegio, va da sé, però ad un certo punto bisogna anche rendersi conto che i suoni cambiano, e se le cose trap o il rap con la cassa in quattro da Luna Park oggi sembrano da subumani o da decadimento dei gusti è anche vero che, per larghe fasce di pubblico nel 1991, era il rap tout court ad essere considerato subumano, sub-musicale e simbolo del decadimento. Sì, anche quello di Q-Tip, Phife Dawg e soci. Insomma, le prospettive sono sempre relative.
Per fortuna però non tutto è relativo. Venticinque anni più tardi, ci sono delle cose di “Low End Theory” su cui è il caso di spendere di nuovo qualche parola e sono cose abbastanza oggettive. Bisogna ragionarci sopra, su quel disco.
Intanto, la prima cosa da dire è che “Low End Theory” arrivava dopo quel “People’s Instinctive Travels And The Paths Of Rhythm”, l’album d’esordio del 1990, che per essere un debutto era andato anche abbastanza bene (la triade di singoli “I Left My Wallet In El Segundo”, “Bonita Applebum” e “Can I Kick It?” aveva funzionato piuttosto bene) però insomma, i fanciulli erano ambiziosi e a dirla tutta si aspettavano di più. Ventenni sì, ma motivati, ambiziosi. E con le idee molto chiare, e un sacco di personalità. Se infatti il tuo lavoro d’esordio va bene ma non benissimo ci vuole un sacco di coraggio a mettersi a lavorare sul suo successore dicendo “Dobbiamo essere ancora più originali, dobbiamo fare qualcosa che altri non hanno fatto!”. Questo discorso oggi si fa se il tuo primo lavoro è stato un mezzo flop; se invece è andato più che decentemente beh, cerchi di seguire la strada già tracciata. Sarà che il mercato discografico è asfittico, i fatturati si fanno ormai sempre più con l’ascolto usa-e-getta via Spotify, YouTube et similia, però davvero soprattutto a certi livelli arriviamo da anni e anni in cui si ha davvero paura di rischiare. Soprattutto, di rischiare alzando l’asticella della qualità.
Cos’hanno fatto con “Low End Theory” gli ATCQ? Hanno asciugato il suono. Hanno scelto un’essenzialità feroce. Basso e batteria. Via tutti i ganci e i rimandi ai suoni-del-momento. Sample pochi, ma scelti con cura maniacale ed usati al massimo delle loro potenzialità. Sono usciti dal funk e dall’electro, nemmeno tanto e nemmeno solo come suoni ma proprio come forma mentis, per entrare nel jazz più caldo e confidenziale: non un torrente di note (o un torrente di campionamenti), ma un magma caldo, avvolgente, elegantissimo, incredibilmente cool. Con ricami soul solo in filigrana, trasfigurati, giustapposti a frammenti e con equalizzazioni molto strane (lì dove invece tutto ciò che rimanda alla tradizione jazz è invece nitidissimo e ben definito).
Scelte nobili? Scelte altezzose? Di sicuro, non le scelte che oggi uno farebbe per “…vendere di più”, vero? In realtà potenzialmente erano scelte nobili ed altezzose, ma con la sfrontatezza dei vent’anni e col fatto – mai abbastanza sottolineato – che in realtà uno degli album di riferimento per gli ATCQ dal punto di vista musicale era “Straight Outta Compton” degli N.W.A. (in teoria uno dei vertici dell’ignoranza e della sfrontatezza gangsta-funk), Tip e Phife e tutto il team produttivo con loro decisero di pigiare tantissimo sull’acceleratore delle frequenze basse. In un modo mai fatto prima. “Low End Theory”: il senso del titolo sta anche qui.
Era una scelta straniante. Non era solo un mero “Esplodi le frequenze basse! Pompa! Tammarrìa senza vergogna! La gente ne va matta!”, che nell’hip hop c’era stato anche prima e oggi non ne parliamo nemmeno, perché in realtà questa scelta di produzione è stata applicata su un materiale, come si diceva sopra, essenziale ed elegantissimo. In questo è stato pazzesco il lavoro dell’ingegnere del suono, Bob Power, che del resto di suo era ben consapevole che stava lavorando a qualcosa di particolarissimo (“…”Low End Theory” è il “Sgt. Pepper’s” del rap” è arrivato a dichiarare più volte, ed è molto calzante come paragone).
Che non fosse solo una raffinata operazione intellettuale, buona per strappare gli applausi dei soliti soloni&saputi e poco altro, lo confermarono le cifre. Vendite grandissime, fino ad inerpicarsi al traguardo del Disco di Platino americano a quattro anni dalla sua uscita, nel 1995 (il lavoro precedente raggiunse il Disco d’Oro solo l’anno successivo, nel 1996, e solo grazie al traino dei successivi lavori, “Low End Theory” appunto e un altro capolavoro totale, il successivo “Midnight Marauders”). Segno che gli ATCQ avevano trovato la chiave per portare un suono raffinato fra le masse indovinando il giusto maquillage. Insomma: mettere d’accordo tutti. E farlo senza avere le hit: gli ATCQ mai le hanno avute (paradossalmente, forse solo i tre singoli del primo album sono stati tali), tantissimi loro brani sono sì di culto – ad esempio in questo album la posse track “Scenario”, quella che rivelò al mondo il talento folle di Busta Rhymes, oppure “Check The Rhime” – ma solo tra gli addetti ai lavori e gli appassionati più consapevoli delle faccende hip hop.
E’ che c’era un tempo, ci credereste?, in cui anche senza hit potevi catturare l’interesse di molti. Ma molti-molti. Lo ripetiamo: non parliamo delle cerchia della critica di genere specializzata o di quelli che sono oggi i blog e le webzine e i loro lettori, posti dove si è abituati a passare gli album al microscopio in lungo e in largo e dove si spendono un sacco di parole per analizzare un po’ tutto. Parliamo del pubblico su più larga scala. Quello che ti fa fare i numeri, non le pugnette. Tip e Phife riuscirono a parlare a tutti, in primis per la loro freschezza verbale. Un aneddoto sempre riportato è quello che racconta di come arruolarono il contrabassista Ron Carter, leggenda veneranda e totale del jazz: “Ragazzetti, mi piacete, io sul vostro disco ci suono anche volentieri, voi però mi dovete promettere che non dite le parolacce”. Quella era l’epoca in cui era esplosa la controversia sul rap come espressione sboccata e censurabile (gli adesivi “EXPLICIT LYRICS”, i processi in tribunale con Tipper Gore che strepita in nome del P.M.R.C., cose così…) e ovviamente la scena hip hop c’aveva marciato ben sopra, perché più una comunità di benpensanti pure tendenzialmente bianca si agita contro di te più significa che stai andando nel giusto. Bene: gli ATCQ riuscivano ad essere perfettamente urbani e credibili agli occhi dei loro pari potendosi permettere di non scontentare tipo come il buon vecchio zio Ron, che infatti lasciò delle tracce di contrabbasso memorabili sul disco. Come facevano? Lo storytelling, signori. Una parola di cui oggi si usa ed abusa, nella comunicazione pubblicitaria, ma come lo facevano Tip e Phife aveva e ha del meraviglioso. Riuscivano infatti a raccontare “storie” e veicolare concetti non banali senza dover sacrificare in minimo modo le classiche “catch phrases” da rapper (sì, c’è molta autoesaltazione nei testi degli ATCQ signore e signori, eccome, molta routine linguistica funzionale a questo solo ed unicamente scopo – che è uno degli scopi fondanti del rap, molto più del messaggio politico), ovvero quelle frasi e rime ad effetto costruite apposta come gioco virtuosistico per far vedere quanto si è bravi, e non quanto si è intelligenti.
Ma c’era talmente tanta umanità e tanta posata riflessione, nei testi ma anche nel flow di Tip e Phife, che la bravura diventava anche intelligenza. Ecco. Non urlavano (quanto mc oggi devono urlare per farsi notare?), quando si autoelogiavano lo facevano con calma e col sorriso (oggi invece quanta ansia c’è di dimostrare che si è avuto successo e si sta spaccando?). Quanto farebbe bene questa lezione oggi, all’hip hop? Non la vogliamo porre come domanda retorica. Perché anzi, certe svolte emo-introspettive di Ghali o Ernia paiono voler imboccare giusto questa direzione, dopo anni di applausi-per-me e di crassa ostentazione delle proprie canne e della propria playstation (cose che pure hanno avuto il loro senso, sia chiaro). Vediamo come andrà.
Però ecco, se le nuove generazioni rap spesso sono orgogliose di dire che loro con la storia dell’hip hop storico non hanno gran voglia di immischiarcisi (ha fatto abbastanza rumore in tal senso questa bella intervista a Sfera Ebbasta), è anche vero che se ti cimenti in qualcosa e non ti viene voglia di approfondirne le origini e le radici storiche – non seguirle: almeno conoscerle un minimo – le probabilità che il tuo sia un prodotto che funziona sì nell’immediato ma regge meno bene una consistenza diacronica, che superi cioè il battito effimero della moda del momento imposta dalle varie industrie dei media, aumentano di un tot. “Low End Theory” andrebbe (ri)ascoltato anche e soprattutto dalle nuove generazioni non per copiarne il suono, o la commistione fra jazz e rap, o le rime, no; ma per capire quali motivazioni e quali coraggio stavano dietro a quelle scelte di suoni, quelle scelte di commistioni, quegli approcci alle rime. Anche Tip, Phife e gli altri della cricca volevano seppellire la musica che c’era cinque minuti prima di loro, ma per farlo al meglio hanno dovuto ascoltare con attenzione non banale i dischi dei loro genitori e fratelli maggiori (questa lista lo spiega chiaramente).
E’ che il coraggio non invecchia mai. Venticinque anni dopo, “Low End Theory” continua ad essere un disco maledettamente interessante e particolare. Poi oh, se i vostri gusti vanno in un certo tipo di direzione allora ancora meglio: è soggettivo, ma per chi vi scrive c’è molto più sapore in un singolo rullante degli A Tribe Called Quest di “Low End Theory” e “Midnight Marauders” che nell’intera produzione autotunata dei Drake dei giorni nostri. E questo, occhio, senza per forza doversi avventurare nella discussione da nerd su quanto studio pazzesco c’era dietro il singolo suono di rullante in un brano degli ATCQ (diversi campionamenti mescolati e fusi fra loro, per ottenere esattamente il suono che si aveva in testa: un lavoro certosino, altro che preset), o quanto sia molto più elegante un piglio jazzy e stiloso di uno che al calcinculo delle giostre oppure in una discoteca commercialissima trova il suo habitat perfetto, esattamente come fanno un Nek o un Antonacci remixato. I gusti son gusti. Ma i fatti son fatti. E il jazz c’è chi ce l’ha, e chi…