A distanza di 7 mesi dall’intervista al super progetto Zeitgeber, rincontriamo Lucy, alias Luca Mortellaro, in stato di grazia. Maturato al punto giusto il giovane producer palermitano continua a crescere a vista d’occhio, bruciando le tappe del suo (meritatissimo) successo. Ce ne rendiamo conto soprattutto dopo aver ascoltato il suo secondo album “Churches, School and Guns”, uscito per la Stroboscopic Artefacts. Un prodotto da maneggiare con cura per quanto è fragile: lastre di vetro che rifrangono un caleidoscopio che esprime il suo mondo, costellato di esperimenti, pattern, visioni e speranze. Lo ricontriamo per fare il punto della situazione a Palermo, per la data del Wintercase Festival, in occasione del suo tour europeo per promuovere l’album.
Con “Churches School & Guns” esplori il sottobosco della techno: risaltano all’orecchio i tuoi esperimenti con i suoni e le atmosfere che crei. Ci racconti come è nato l’album?
Come sono in realtà tutti i grossi progetti non è stato così voluto. Come artista solista quando produco non vado in studio per produrre una traccia, vado lì per creare dei pattern, registro milioni di ore di roba, di processi sonori che vanno e vengono: insomma una specie di enorme pentolone che ribolle sempre. Ad un certo punto arriva il momento in cui tante frazioni di questo enorme pattern cominciano a risuonare tra di loro, ed è proprio quando risuonano corposamente che capisco che mi sto avvicinando alla chiusura di un album. Produco tanta roba ma non produco tanti prodotti finiti: però mi piace che quello che arrivi al pubblico sia un prodotto estremamente calibrato. La chiusura in sé è durata più o meno un anno ma c’è dentro del materiale che ho registrato ancora prima di pubblicare il primo di album, così come robe fatte e prodotte una settimana prima di chiudere il master.
Com’è cambiato negli anni il tuo modo di comporre musica?
Il mio modo di comporre è in continua evoluzione. Ho notato che il mio studio cambia spontaneamente forma ogni volta che c’è un grosso progetto: cambia continuamente e lentamente forma e poi quando vado a chiudere un album, una cattedrale, non un EP o un singolo, questo cambiamento accelera e tutto il sistema di processamento audio cambia completamente. Anche per quest’ultimo album è stato completamente una rivoluzione: tra le mille cose anche il registrare tutto su tapes ha dato una grana all’album che mi è piaciuta tantissimo, era la prima volta che cercavo di usare il rumore di fondo come rumore creativo.
Quando e perché hai sentito l’esigenza di creare la Stroboscopic Artefacts?
Con la Stroboscopic è cominciata in maniera un po’ per caso, come tutte le belle cose. Praticamente quando nel 2007 abitavo ancora a Parigi stavo già cominciando ad avere in testa un’idea di piattaforma per associare delle belle menti e fargli dire qualcosa di utile all’umanità. Dopo di che ci fu il trasferimento a Berlino per un milione di motivi tra personali, sociali e di quello di cui avevo bisogno in quel momento. Quando mi sono trasferito il primo anno a cavallo tra il 2008 ed il 2009, cominciai a vedere la possibilità che quell’idea che avevo in testa fosse la forma perfetta per un’etichetta discografica. E allora ho cominciato a montare la pre struttura prima di lanciarla: un processo che è durato un anno tra contattare, organizzare, distribuzioni e soprattutto la gente che ci volevo dentro come artisti. Lì tutto cominciò fondamentalmente con Dadub e Xhin. Daniele (Dadub) lo conosco dai tempi dell’università: con lui c’è sempre stato un gemellaggio mentale riguardo alla musica e i gusti che avevamo. Lui mi ha introdotto a tutta la cultura rave e ai rave illegali a cui andavamo insieme in Toscana: quella è stata un’esperienza molto formativa, è stato il mio primo vero contatto con la musica elettronica in quel senso, oltre al fatto che la cultura della dub ci legava da morire. Dopo anni che ci eravamo persi di vista ci ritrovammo per caso entrambi appena sbarcati a Berlino. Lo rincontrai e scoprii che si stava iniziando ad occuparsi in maniera più sostanziosa di post produzione. Lì mi suonò il campanello d’allarme e pensai che era l’occasione giusta per fare tutto in casa, alla familiare, senza andare a cercare mastering e post produzione esterni. E tutto è cominciato così, a costo di rischi. Perché adesso hanno uno studio stra affermato (Artefacts Mastering) ma all’inizio era proprio tutto sperimentale, anche l’approccio alla post produzione. Xhin invece lo conosco dai tempi di Merestif, è sempre stato un ragazzo con un sound veramente unico. Mi immaginai da subito che così avrebbero suonato i club tra qualche anno, e infatti così fù. Mi ricordo ancora quando stampammo “Fixing The Error/Link”, l’SA002: è stato impressionante il riscontro che ricevemmo, non me l’aspettavo proprio. All’inizio avevo fatto un‘etichetta per esprimere me e la mia visione musicale anche attraverso altri artisti, e quando uscì quello tutto cambiò prospettiva. L’album ebbe una risonanza inaspettata: tutti quelli che allora chiamavo i “big” cominciarono a suonarlo a manetta, ogni volta che uscivo a Berlino lo sentivo dappertutto. Più che semplicemente prendersi bene fu una cosa di dire “Aspetta, adesso sto capendo che forse facendo le cose in maniera giusta, al posto che stare lì in una scena già così esplosa come quella berlinese e “succhiarne”, posso contribuirne”, che è quello che stiamo facendo. Se la gente suona queste cose stiamo plasmando il taste del pubblico, allora il rapporto è a due vie. E da lì è cominciata la storia di Stroboscopic, che fù lanciata nel settembre 2009.
Cosa si prova ad essere a capo della Stroboscopic Artefacts e allo stesso tempo essere producer per la tua stessa label? Riesci a dividerti in maniera equa e distaccata tra i due compiti?
La mia è una specie di schizofrenia ricercata, perché quello che faccio è letteralmente dividermi la testa in due e dare linee guida come etichetta che poi seguo anche io. Perché mi sembra ormai molto chiaro che la Stroboscopic ha delle linee guida molto ferree, non facciamo release tanto perché ne abbiamo bisogno. Mi è capitato di gente che ha dato tanto alla storia di Stroboscopic e adesso non incide più perché si è allontanata da quelle linee che sono basilari ed essenziali. Se non c’è visione non ha senso; e quella visione che i tipi di Detroit chiamano the message è una linea a cui anch’io poi come produttore mi devo attenere. Quindi è come se mi dividessi da me e mi dico “Ok, ascolta quello che è successo nell’etichetta in questi anni, assorbine e poi produci”. È una specie di magia che è veramente una cosa meravigliosa quando succede: come se io Luca Mortellaro do una forma all’etichetta e dopo di che l’etichetta nel tempo insegna a me le sue forme. Faccio un challenge con me stesso: cerco di deformare me mantenendo me in funzione della piattaforma su cui stampo. E qui subentra il fatto del perché Stroboscopic non sia un’etichetta semplicemente per me ma è un collettivo di persone. Abbiamo un roster di artisti veramente numeroso ed è una cosa che voglio assolutamente mantenere. Nel senso che è questo che da un contributo diverso anche a me stesso come crescita personale. Tante volte ho delle enormi discussioni vere e non, anche con l’etichetta stessa: con Dadub parliamo molto di stili, canoni, archetipi, di cosa significano e di come deformarli, di quanto stiamo fallendo e riuscendo. È tutto un processo estremamente dinamico.
Recentemente sei stato incaricato dalla Red Bull Music Academy di curare il loro magazine online, e tra gli articoli che ho letto quello che mi ha colpito di più riguarda le tabla, un antico strumento percussivo indiano. Affermi che il procedimento e le modalità con cui viene suonato si riflettono molto nella composizione di un brano techno. Come è possibile?
Il ritualismo è attuale nella musica. Per me il concetto del rituale è fondamentale e lo è sempre stato: non è novità che la musica sia legata ad aspetti dell’essere umano e aspetti di rituale sociale, antropologicamente parlando è nata così nell’umanità. Non penso che questa caratteristica si sia persa, s’è soltanto trasformata. Quello che succede quando one of those nights, quando la serata funziona, è quando il rituale riesce: quando tu come dj sciamano riesci a fare uscire dall’orizzontalità della realtà di ogni giorno la gente che hai davanti, il tuo pubblico, e li trasferisci su un’altra dimensione che è verticale, diversa, è un altro mondo sensoriale completamente. Quindi da quel punto di vista tutte le musiche rituali hanno a che fare con la techno, e la techno ha a che fare con loro. In particolare le tabla hanno anche un’altra caratteristica: hanno un tasso di improvvisazione enorme, non è come la musica classica occidentale. Praticamente loro fanno un primo ciclo di suoni, e durante questo primo ciclo scelgono suonando un set di suoni a cui poi devono sottostare per il resto della composizione che magari può durare un’ora. Scelgono praticamente questi archetipi a cui sottostanno, e per quanto durerà la perfomance non potranno uscire da essi. Questa è una cosa che trovo molto in comune, perchè quando diciamo per esempio “lui suona techno”, tu riconosci una cosa come techno, per quanto tipo la mia è una techno “left-field” cioè non proprio classica. Quello che cerco di fare è giocare con quegli elementi base che ti fanno riconoscere come ascoltatore una cosa come techno: giocare su quegli archetipi, deformarli e farli andare su, giù e di lato è quello che succede quando poi esce un prodotto di cui sono contento.
Tuo fratello Ignazio Mortellaro è a capo dell’Oblivious Artefacts, il lato visual della Stroboscopic. Come è lavorare con lui? Che sintonia c’è tra di voi durante il processo creativo?
Lavorare con lui è una fortuna enorme. Essendo mio fratello siamo legati anche da un punto di vista di crescite artistiche e letture che abbiamo fatto insieme, a cui spesso da fratello maggiore è stato lui ad invitarmi a leggere e studiare certi aspetti delle cose. Essendoci tutto questo background dietro, il resto viene estremamente facile: c’è telepatia. Bastano due parole, ascoltare due cose e già ovviamente si rende subito conto di quello che ci vuole a livello visivo, e finora ha sempre funzionato. Obiettivamente io penso che parte del successo della label sia dovuto all’impatto grafico che ha avuto, a quanto è stata proprio esatta ogni volta la rappresentazione grafica delle produzioni musicali. Questa è una cosa che spesso la gente non capisce l’importanza: se ci pensi quando vai in un negozio di dischi la prima cosa che vedi è un’art work, è un titolo. Ed è tramite questo che tu già dai al pubblico una cornice dentro cui muoversi, se sbagli quello sbagli tutto: gli dai un disorientamento piuttosto che un orientamento. Per questo sono così fortunato che lavorando con mio fratello ovviamente il livello di intesa e comprensione è immediato.
Raccontami qualcosa in più del progetto “Stellate Series”: sedici producers per trentadue tracce a testa in quattro volumi. E il risultato?
Il concetto di “Stellate Series” era esplorare in techno, perché per me quella è techno, tutti gli aspetti di lato del genere. Immaginati un pittore che vuole dipingere un quadro e lo vuole fare il più preciso possibile: mentre lo fa ha la sua tavolozza di colori, e in quella tavolozza ci sono in potenza tutti i possibili quadri che lui può fare in vita sua. E diciamo che tutta la Stellate Series è concentrata sulla tavolozza piuttosto che sul quadro. Di quello che c’è sotto, o leggermente sopra o tra le righe degli elementi più classici della techno, isolati dagli elementi classici della techno: Il progetto in sé è nato come una cosa finita, come un circuito dove il punto A torna al punto A, quindi può considerarsi un capitolo chiuso.
In che fase è il progetto Zeitgeber?
Il progetto è nato in maniera spontanea e lo vogliamo mantenere il più spontaneo possibile. Con Speedy J ci stiamo rincontrando tante volte quando suoniamo come Zeitgeber in back to back, tra l’altro a luglio faremo un’apparizione al Berghain. Dopo di che ci sono delle idee che comunque vogliamo mantenerle ancora una volta il più spontanee possibili. Nel senso che le idee ci sono e la voglia c’è: semplicemente vogliamo fare le cose con calma, come la prima volta che ci siamo casualmente ritrovati in studio ed è nato il progetto. Se deve nascere altro legato a quell’idea deve nascere alla stessa maniera, non vogliamo metterci lì a ragionare e a pensare a tutto il lato business della cosa.
Essere apprezzati prima all’estero e dopo nel proprio paese è sempre stato una peculiarità tutta nostrana. Che mi sai dire della tua esperienza? Che rapporto hai maturato con l’Italia del clubbing ed il suo pubblico?
Io cerco di prendere la situazione italiana in quanto nicchia. Un pubblico interessante in Italia c’è: e non a caso ci sono tutte una serie di cose, delle realtà come Giorgio Gigli e Donato Dozzy, che escono come dei fiori splendenti da un posto in cui molto spazio non c’è. Quindi il clubbing italiano lo apprezzo in quanto clubbing di nicchia, mettiamola così. Anche nella maniera in cui scelgo a chi dire si o a chi dire no per venire a suonare, salvo poche eccezioni, cerco di limitarmi a delle situazioni in cui c’è un legame fidato, in cui si cresce insieme per tanto tempo. Per esempio per me il centro Italia è il Goa di Roma, non ci sono dubbi. Può capitare il festival, ma se parliamo di clubbing nel senso di club, a me interessa coltivarmi il pubblico che mi segue e coltivarci a vicenda con i club che sono interessati a crescere insieme.
Dal 2013 sei entrato a far parte del negozio PhiLSynth, specializzato nella vendita e riparazione di sintetizzatori analogici. Cosa ti ha spinto a lavorare accanto a un guru del suono come Philipp Home Rich? Passione per i synth o semplice curiosità da nerd?
Sono un grande amante dei synth vintage: Roland, Korg, Moog e compagnia bella, ce li ho tutti. Da parte mia è stata più l’idea e il finanziare la cosa e metterla su per bene: ma il vero scienziato è Philipp, che apre un synth e te lo risistema in tutte le maniere che vuoi. Lui è il vero genio là dentro. Ed è stata anche la stessa persona che riparava i miei synth, quindi mi sono detto: “Perché proprio a Berlino non ci deve essere un posto dove posso trovare un synth come lo voglio io, vecchio, che suoni in una certa maniera, che abbia un carattere di un certo tipo, e devo andarmene su eBay? Com’è che non c’è un posto dove posso entrare, sentire scegliere il synth e portarmelo a casa?”. E allora abbiamo fatto tutto noi fondamentalmente.
Come è stato festeggiare l’uscita del tuo album con una Boiler Room nel tuo negozio? Ti sei divertito?
Mi è piaciuto da morire. Anche perché avevo già suonato due volte per la Boiler Room “by night”, in un club, ma lì è stata la mia prima volta che facevo una day session: è stata stupenda. Ho invitato i miei amici e ho suonato circondato dalla gente a cui voglio bene direttamente, è stato bellissimo. Ogni tanto mi giravo e c’erano queste montagne di sintetizzatori che mi hanno fatto sentire nel mio studio. Inoltre ogni tanto mi passavano sotto la consolle i techno-cats di Philipp, quindi devo dirti che è stata una sensazione bellissima, era tutto molto intimo.