Stampare un album è una prova importante per un musicista, di fronte alla quale hanno fallito in molti soprattutto in ambito elettronico/dancefloor oriented. Spesso e volentieri capita che produttori in grado di incendiare la pista sulla breve distanza delle tre-quattro tracce di un EP si rivelino inadatti al grande passo dell’album intero, col risultato che non di rado le produzioni sulla distanza più lunga si rivelano noiose, anonime e buttate lì tanto per il gusto di dire “ho stampato un album” o per svuotare l’archivio di tracce carine ma non sufficientemente buone da “meritarsi” un EP.
La verità è che quello che noi ascoltatori ci aspettiamo tipicamente da un album lungo un’ora o giù di lì non è la stessa cosa che ci aspettiamo da una singola traccia, o da un EP: se con questi ultimi è lecito accontentarsi (si fa per dire) di un buon impatto sulla pista, magari una pausa che ci faccia commuovere e una ripartenza esplosiva, con gli album il discorso si fa più complicato, almeno per chi scrive. Ascoltare un album per intero dall’inizio alla fine, soprattutto in un periodo in cui la quantità di musica a disposizione è pressochè infinita, è un investimento cospicuo in termini di tempo, per cui credo sia lecito essere più esigenti e aspettarsi che un album intero, una volta arrivati alla fine, ci abbia lasciato qualcosa che vada oltre il semplice sottofondo musicale: purtroppo, per Luke Solomon sembra che le cose stiano diversamente.
“Timelines”, infatti, è un’ora e quarantadue minuti – neanche un album corto, oltretutto – di dancefloor tools, costruiti in tutto e per tutto come tracce da suonare all’interno di un set: un minuto e mezzo di intro, un paio di minuti di loop, pausa, ripartenza, un altro paio di minuti di loop, un minuto di outro, ripetuto per quasi tutte le diciassette tracce (dodici originali e cinque remix) del lotto, fatta salva l’eccezione per l’obbligatoria traccia downtempo che serve giusto a dire “vedi? non è solo un accozzaglia di tool” e forse giusto un paio di tracce. Diciassette tracce, mediamente anche piuttosto lunghe, in cui dopo un paio di minuti si sa già grossomodo dove andranno a parare i successivi cinque e quindi la tentazione di schiacciare il tasto “skip” del player è fortissima, soprattutto quando hai passato metà dell’album a fidarti sperando che succedesse qualcosa di interessante e invece no.
Quello che invece succede è che a metà della prima traccia ti sorprendi intento a pensare a tutt’altro anzichè a quello che stai ascoltando, pensi “vabbè questa gli è uscita male, pessima idea metterla all’inizio, le altre saranno meglio”, ma capita anche con la seconda, e poi con la terza e così via, che l’unico momento in grado di attirare la tua attenzione sia il silenzio tra una traccia e l’altra; poi arrivi al fondo dell’album, in cui ci sono i remix, sperando che magari qualcuno sia riuscito a imprimere un po’ di personalità all’insieme di discreti riempitivi che hai appena ascoltato, e invece l’unico a salvare la faccia è Ewan Pearson, perchè gli altri si sono lasciati coinvolgere dal mood dell’album e hanno partorito prodotti che ascoltare o non ascoltare non fa alcuna differenza.
In un momento in cui la quantità di musica ascoltabile è pressochè infinita, è forse questo il peccato più grave possibile: sarei stato più contento se avessi passato un’ora e tre quarti ad ascoltare un album genuinamente brutto, di quelli magari raffazzonati alla bell’e meglio buttando assieme quattro sample in un pomeriggio o di quelli eccessivamente intellettuali che almeno provano a fare il passo più lungo della gamba e falliscono miseramente, piuttosto che un disco completamente anonimo come questo.
Un’ora e tre quarti che nessuno mi ridarà più, durante la quale ho ascoltato Luke Solomon e il suo lavoro fatto disfatto e rifatto negli ultimi sei anni, ma non ho sentito niente, al termine della quale sono esattamente la stessa persona di prima, solo con un’ora e tre quarti di vita in meno.