Inutile girarci attorno: sono anni ed anni che il mondo musicale è affetto in maniera brutale da milanocentrismo. Sì. Pare tutto collassato su Milano: i concerti, gli artisti, le opportunità, gli affari. Ovviamente c’è vita oltre la Madonnina, ma il fatto che attorno alla musica abbiano ripreso a girare soldi, e se è per questo manco pochi (grazie allo streaming che rivaluta i cataloghi, grazie alla musica live in salute come non mai, grazie ai brand che hanno scoperto quanto cantanti e producer siano un veicolo efficace), ha creato un circolo più o meno virtuoso secondo cui, nelle robe di musica, ormai si guarda parecchio al guadagno, alla possibilità insomma di “farcela”, ciascuno nel suo campo (come artista, come manager, come responsabile di produzione, come faccendiere, come facchino, come quello che volete voi). Prima, gravitare nell’orbita della musica aveva per lo più il connotato di simpatica e nobile attività hobbystica, extralavorativa, part time. Oggi, no. Oggi, se ci entri, nel mondo della musica, ci credi davvero. Ci credi tanto.
Sta di fatto che se si parla di guadagno, e di strutturazione professionale ed industriale nell’ecosistema musica, Milano vince appunto su tutto. Di svariate piste. C’era un periodo in cui le major avevano sedi a Roma (ora non più), c’erano fasi in cui gli stimoli artistici e sociali migliori arrivavano dalla provincia (accade in realtà ancora), oggi però per tutti la regola è una e una sola: prima o poi, se la musica la prendi più o meno sul serio, da Milano ci devi passare.
Bene. Questi sono i giorni dove tutto questo si celebra. La Milano Music Week si è ormai consolidata (anche se sembra sempre dispiegare solo una parte del suo potenziale: ma questa è una storia lunga), Linecheck a modo suo è diventato un ricco appuntamento B2B e non più solo un’idea temeraria e dalla direzione indefinita. Per sette giorni la città è piena di eventi, incontri, confronti, panel, workshop, networking session, aperitivi “professionali”, eccetera eccetera eccetera. Ad uno sguardo d’assieme, praticamente la totalità di questi incontri e di queste opportunità “urla” una cosa ben precisa: come diventare il più professionali ed efficaci possibili qui&ora, qualsiasi cosa si faccia. E per quanto riguarda nello specifico la Milano Music Week, quest’anno c’è una attenzione veramente forte ai suoni nuovi, alla musica urban che ormai è il pop 2.0: quindi alla voglia di intercettare e valorizzare subito i prossimi campioni genera-fatturati, siano essi rapper, producer, manager o quant’altro. Che Milano pensi soprattutto al business è una vecchia storia, vecchissima; ma che questo pensare maniacalmente al business abbia definitivamente colonizzato il mondo della musica e in realtà anche di chi la segue non strettamente da addetto ai lavori (l’affluenza quest’anno alla MMW pare davvero ottima), è una notizia. Perché per anni non è stato così.
Una notizia non per forza negativa. Anzi.
L’ultima cosa infatti che si vuole fare qui è un elogio del dilettantismo, del “si stava meglio quando si stava peggio” (…perché no: quando si stava peggio, si stava peggio), così come del “la musica che deve restare un hobby e qualcosa su cui non si campa e non ci si arricchisce se vuole restare pura e non piegata ai compromessi brutti e cattivi”. Questi discorsi, onestamente, anche no. Sono tossici, se diventano l’unico orizzonte possibile.
…la verità però che è tossico anche l’esatto contrario. E questo “esatto contrario” sta sempre più prendendo preoccupantemente piede. Oggi già a vent’anni vedi rapperini o cantantini o gruppettini col manager, col social media manager, col fotografo, con lo stylist, con l’assistente personale, col galoppino sbriga-tutto. Già da poco più che teenager senti o cantanti o proprio semplici ascoltatori parlare e dissertare di musica pensando ai numeri ed alle strategie, invece che alle emozioni. Davvero: i discorsi attorno alla musica sempre più spesso sembrano diventare una riunione collaterale di Confindustria Giovani, dove poco ci manca che si tirino fuori gli Excel, i Keynote, i Power Point per qualsiasi sciocchezza (…beh: c’è chi lo fa).
Se dovessimo dare una rappresentazione plastica ed immediata di questo fenomeno, vi diremmo: guardate i brani in classifica, guardate improvvisamente quante collaborazioni, quanti featuring. È scoppiato l’amore universale fra i musicisti, fra i rapper, un “comunismo della creatività”? No: semplicemente si è capito che a raccattare i featuring, aumenta il potenziale di streaming. Altro che streaming. Qui siamo al capitalismo più selvaggio.
Ecco. Tutto questo è il bagaglio di pensieri che si siamo portati dietro andando il 17 novembre al Blue Note, a Milano, pochi giorni fa, per un evento molto speciale ed insolito.
Ora: se leggete i nostri report con attenzione non vi sarà sfuggito che il collettivo Malasartoria è a dir poco nei nostri radar. Ad esempio, sono stati una delle cose più belle dell’ultima edizione – splendida di suo – di Jazz:Re:Found. Per loro abbiamo speso stravolentieri parole lusinghiere, in quell’occasione.
Stiamo parlando di un collettivo di musicisti ad organico variabile ma con uno zoccolo duro costituito da Bolo al basso, Veezo alle tastiere, Jacopo Boschi alla chitarra, Matteo D’Ignazi alla batteria, a cui via via si aggiungono altri a seconda delle occasioni. Fra quelli che si stanno aggiungendo più spesso, in questi tempi, sono il percussionista Nico Raccamo e l’ottimo turntablist Dj MS: e quest’ultimo, tra le altre cose, è socio storico del rapper Nitro.
(Sul palco: Malasartoria Milano featuring, su comodissima sedia, Nitro; foto di Giacomo Dal Ben)
Ora, fateci spendere qualche parola su Nitro. In un mondo di MC che ha scoperto – giustamente e, in alcuni casi, meritatamente – quanto è bello guadagnare e fare i numeri, lui i numeri li fa, qualche strategia la addotta pure, ma tra tutti quelli coi numeri dal successo vero e solido è uno dei più intransigenti in assoluto.
Intransigente? Oh sì.
È intransigente nel rap: trova ancora sia necessario ed ineludibile di fronte ad un microfono avere una tecnica della madonna, avere fiato, gestire il ritmo, tenere il flow dal vivo. È intransigente nei messaggi che lancia, e nella forma che usa per lanciarli: e lo è negli ultimi tempi sempre più spesso, invece di esserlo sempre di meno. Il “rap da Instagram” che va oggi per la maggiore, dove lo spessore si conta più a colpi di follower più che di gente che ti ascolta con coscienza, ha in lui un critico duro ed esplicito. In due parole: Nitro è maledettamente bravo, è maledettamente cazzuto. E lo è costo di non massimizzare i risultati: perché siamo in una fase storica in cui se sei bravo sei demodé, se sei cazzuto rischi di scontentare parte dei tuoi seguaci e allora non ti sbilanci, una fase storica cioè in cui se ami il rap dal profondo (ovvero conoscerlo, farlo bene, metterci l’anima dentro) sei cringe, o quasi; mentre se lo usi come un accessorio di moda – buono per fare brutto nei ricevimenti di gala del mainstream, ma addolcendosi appena necessario ed appena ti offrono il caviale e un ritornello di Petrella – sei un vincente. Nitro, il rap lo ama. Eccome se lo ama.
Lo ama così tanto che, chissà se pungolato dal socio MS o già per i fatti suoi, ha accettato anche lui di sottoporsi al “Malasartoria treatment”, quello da cui già sono passati Tormento, Ensi, Nerone ed altri ancora. Di tutti questi MC appena nominati, comunque Nitro era quello che aveva di più da perdere: perché è il più quotato nel mainstream, è quello con la cifra stilistica apparentemente più lontana dalla blackness funk/jazz, è quello che più avrebbe dovuto sbattersi per reggere questa prova restando credibile, integro, consistente.
Invece, accidenti se ci è riuscito. L’ora e passa regalataci da Nitro al Blue Note assieme alla cricca Malasartoria (…e attenzione: in quel club vige la regola, tipica del jazz, del doppio concerto a serata, quindi ha ripetuto tutto un’ora dopo la fine del primo live set, una faticata), dicevamo, quell’ora è stata una lezione di rap fatto a modo, di emceeing magistrale. E non parliamo solo di tecnica, di precisione metrica, di flow, occhio: parliamo anche e soprattutto della capacità di essere se stesso da un lato, e di porsi invece umilmente al servizio della musica e della cultura hip hop dall’altro. Senza anteporre il proprio “personaggio” a tutto il resto ma nemmeno senza sacrificarlo in un “volemose bbene” dove la bandh jamma, il rapper giogioneggia, la musica rassicura, i cinquantenni jazzofili applaudono e pensano che tutto quanto sia oh così pittoresco.
No. Altra storia è stata. Nitro ha trovato il giusto equilibrio: ha aggredito il microfono ma usando classe, ha raccontato se stesso ma facendo trasparire una continua, autentica emozione verso al ricchezza musicale che lo stava circondando. Suonare con una backing band di gente brava&cazzuta non è la stessa cosa che avere tuo cugino che preme play su un CDJ precaricato. Nitro l’ha capito. Nitro l’ha trasmesso.
Arriviamo al punto, adesso. Seguiteci.
In quell’ora abbondante di concerto, abbiamo scoperto quello che potrebbe e dovrebbe essere il vero tesoro di Milano, oggi: essere cioè un potente polo aggregatore di talenti e contesti, prima ancora che di fatturati o potenziali numeroni di streaming. Malasartoria, che “Milano” ce l’ha pure nella ragione sociale, nel nome, col suo porsi al servizio di progetti specifici (che si tratti di accompagnare altri rapper oppure fare reinterpretazioni filologiche/potenziate di monumenti della musica black del passato e del presente) sta seminando cultura e stile. E badate bene: potrebbe essere una band “da circo”, dove c’è la gara all’assolo e al virtuosismo spaccone, ma non lo è, non lo è mai, non l’abbiamo finora mai vista cadere in questa trappola. Come già scritto altre volte, l’interplay è costante e fra tutti soprattutto quello fra basso e tastiere – che setta costantentemente la trama armonica – è di altissimo livello nell’andare a cercare sempre quella “idea in più” che però arricchisca invece di appesantire, razionalizzi e renda tutto più geometrico invece di confondere e sbrodolare.
Insomma: competenza altissima al servizio della generosità artistica e dell’essenza della musica. Non degli ego. E nemmeno della musica che funziona, che oggi pare l’ossessione di tutti (…e a Milano, di più).
(Saluti finali al Blue Note; foto di Giacomo Dal Ben)
Che poi attenzione, auguriamo a tutti i singoli componenti di Malasartoria di diventare i mejo sessionmen a disposizione, chiedendo cifre alte per i propri servigi; o magari ancora di più ci auguriamo che smettano di essere un “servizio a noleggio” e si mettano al 100% in proprio, diventando una band sia di culto che di forte seguito. Lo dirà il destino, e gli sforzi che loro singolarmente e come band decideranno di fare.
Ma quello che è sicuro è che il concerto Nitro + Malasartoria al Blue Note ci ha aperto il cuore. Non solo e non tanto perché finalmente il rap entrava nel “sacro tempio” del jazz, quindi di una musica cosiddetta rispettabile e nobile (sì: abbiamo ancora bisogno di queste gratificazioni). No, quello che ci ha toccato ancora di più è stato vedere che a Milano, nella capitale italiana della musica e dell’industria musicale, è ancora possibile vedere del cuore, vedere del coraggio, vedere della gente che si mette in gioco non per sfondare o fatturare di più, ma perché ha un’idea (e un’ideale) musicale da seguire. Mettendoci soldi, tempo e passione: più di quelli che qualsiasi management o qualsiasi business plan consiglierebbe.
PS. Sarebbe bello ci fossero più riviste, più quotidiani, più siti, più blog a raccontarlo: invece pare esserci un’attenzione solo a cose consolidate (ma si sa i quotidiani in Italia che servizio fanno alla musica, anzi, in questi anni va molto meglio di prima), oppure a quelle che possono far fare i numeroni su Instagram. E la colpa, come dicevamo pochi giorni fa, è forse più dei lettori che delle entità editoriali stesse.