Qualcuno dirà che il tema è clamorosamente anni ’90, quello delle occupazioni e della musica che vi ci si fa; quel qualcuno evidentemente è più abituato a ragionare per mode che per contenuti. Perché se una questione è spinosa e profonda, non ha età. Vale sempre la pena tirarla fuori. Anche perché rischiamo di dimenticarcelo: negli anni ’90, il fior fiore di techno e house e della cosiddetta club culture è girata tantissimo attorno al tema degli spazi occupati (o, se volete una citazione davvero anni ’90, delle T.A.Z. teorizzate da Hakim Bey). Valeva per l’Inghilterra e per la rivoluzione dell’acid house, che è nata sì in locali più o meno “normali” (lo Shoom, per dire) ma che ha avuto vera amplificazione solo quando è fiorito il fenomeno dei rave, non prima. Eventi che si svolgevano senza autorizzazioni legali o con autorizzazioni a metà, in luoghi che di loro non avrebbero dovuto essere posti da concerto e da adunata dance, spesso fattorie di campagna (ma i fattori britannici che affittavano il terreno, beh, chiudevano un occhio e aprivano il portafogli).
Discorso simile pure per l’Italia. Sì, le discoteche ovviamente c’erano anche prima. Anzi, per certi versi è stato proprio il “modello italiano” dell’intrattenimento danzante notturno (vedi alla voce Baia, Cosmic…) ad essere stato faro guida e catalizzatore di pubblico e d’attenzioni, in anni eroici pre-house e anche un po’ dopo, anche negli anni ‘90. Ma quel modello lì, quello delle discoteche, tolte schegge impazzite ed eccellenze (…e per essere un’eccellenza dovevi essere almeno in parte scheggia impazzita, all’epoca), aveva generato dei modelli molto statici da un punto di vista musicale, culturale, sociale. Molto statici, e molto provinciali. O meglio: molto banali e superficiali.
E’ stato il grande scossone della seconda metà degli anni ’90, quello con Pergola a Milano, Maffia nel reggiano, Link a Bologna, Brancaleone a Roma (e varie cellule minori ma sorprendenti, ad esempio Cayenna / Hangar Zone a Feltre giusto per fare un esempio bizzarro) a scrostare finalmente via delle dinamiche musicali che erano appunto stagnanti, anche perché erano strettamente collegate – o per meglio dire abbarbicate – a delle dinamiche da “localaro” che tenevano lontane le persone più sveglie ed interessanti culturalmente. Non vogliamo tirare fuori i luoghi comuni ritriti anni ’70 della discoteca come “luogo da fascisti”, ma è vero che ad un certo punto nelle discoteche venivano ammessi e ben visti solo quelli che volevano “consumare divertimento” senza fare domande ed avere esigenze particolari. Ovvero, quel tipo di fauna che – anche legittimamente – a un lato socio-culturale della faccenda non vuole dare nessun tipo di contributo manco per sbaglio: vuole solo divertirsi, cuccare e sbocciare. Ripeto: è un approccio alla notte e al ballo più che legittimo, ci mancherebbe. Ma è un approccio che fa fatturati; non ha fatto, non fa né mai farà la storia. Fidatevi. E quindi ci interessa fino ad un certo punto.
Ad ogni modo: dei posti citati sopra, solo uno (il Maffia) era in qualche modo legale. Gli altri avevano una caratteristica comune: erano nati come spazi occupati. Quindi: illegali. Lo ripetiamo: illegali. Eppure sono loro ad aver portato avanti e fatto da incubatore a quel tipo di club culture che oggi, esattamente oggi ci piace tanto, il modello che chi legge Soundwall più segue: quello dove non importa come sei vestito, non importa che censo hai, importa la musica; e la musica dev’essere non una cascata delle hit dance radiofoniche del momento ma qualcosa di frontiera, di ricerca, qualcosa che rappresenta una scena e un’appartenenza, qualcosa che ti fa viaggiare senza il truffo facile dello strofa+ritornello e che ti fa sentire al centro di qualcosa di particolare, di specifico, di riconoscibile. Quando la grande house americana storica è diventata ostaggio, in Italia, delle dinamiche da serata coca&champagne (un contesto antropologico umanamente miserello, se chiedete a noi), è negli spazi occupati e non-del-tutto-legali che si è andati a cercare nuove socialità e nuovi stimoli col ballo e con la musica elettronica (ri)cercando techno, jungle, drum’n’bass, minimal, industrial, eccetera eccetera eccetera. Oh, non è che prima dei centri sociali non si facesse ricerca e visionarietà in musica, sia chiaro (risentire i set della Triade Leo Mas, Fabrice e Gemolotto, per fare un esempio), ma è un dato di fatto che da metà anni ’90 in poi la situazione era nitida: se volevi andare a cercare situazioni dove l’entusiasmo verso la musica era puro, lo stimolo socio-culturale alto e la libertà di suonare quel che si voleva maggiore, dovevi andare nei centri sociali. Il “grande mondo dell’house” istradato sui binari delle “solite” discoteche si era impigrito: si accontentava di mietere fatturati, doppie e triple, alé, pareva andare tutto bene, ma culturalmente c’era non magari il vuoto, non esageriamo, ma una stanca coazione a ripetere questo sì. Chiedere ai diretti interessati per credere (…a quelli più lucidi e consapevoli, naturalmente).
(la Triade in azione nel 1990; continua sotto)
Tutta la sfera house ha subito uno scossone pesantissimo con l’avvento di Berlino (e della minimal, o di un certo tipo di techno). È quando la città tedesca ha iniziato a diventare così di moda che si è compiuta una saldatura fra clubber e gente-che-va-in-discoteca, tra cultori della materia e ballerini da weekend (in più, c’è stato un sano ricambio generazionale). Come mai? Perché adottando un suono “morbido” non aggressivo e/o non eccessivamente complesso, sono comunque state fatte entrare delle vibrazioni socio-antroplogico-politiche molto particolari e nuove, in grado di parlare a tutti. Le vibrazioni di Berlino, città storicamente tollerante, rilassata, quindi potenzialmente inclusiva e di sicuro seducente, almeno nel momento in cui decide di non tirarsela più (a Berlino all’inizio di una fase artistica gli artisti se la tirano parecchio, in questo modo cresce la loro aura, poi mollano gli ormeggi: vale per techno e house, ma anche per altri generi nei decenni passati).
La scena elettronica di Berlino, è stato raccontato migliaia di volte, nasce comunque dalle occupazioni, dalle sperimentazioni; nasce da un grande caos dove l’illegalità era regola (perché la legalità col crollo del Muro era momentaneamente collassata ed indisponibile). Un senso di libertà, dell’andare contro le regole & oltre le regole che ha regalato a tutti una grande suggestione collettiva, in grado di riverberarsi a lungo anche cadute le istanze politiche e libertarie originarie, e di questa suggestione l’elettronica da dancefloor è stata la colonna sonora perfetta. Una suggestione di fascino così incredibile da aver colonizzato, guarda un po’, l’immaginario di tutta Europa e anche di parte del resto del globo. Anche perché, giustamente, recuperava pezzi importanti dell’esperienza inglese anni ’90: rendendoli però più universali, meno specificatamente britannici, conservandone comunque l’amore per le radici chicagoane, detroitiane e, in parte, newyorkesi. Fruite però “all’europea”.
(la storia del Tresor, e di tutta la Berlino “techno”; continua sotto)
Ma di nuovo, qual è il punto? Senza occupazioni, senza illegalità, senza l’andare contro le regole – caratteristiche di Berlino nel passaggio da vecchio a nuovo millennio – nulla di tutto questo sarebbe nato. E anche Ibiza, non fosse stata “l’isola della libertà” (vi siete chiesti cosa significa “libertà”? Significa non essere oppressi da regole, regolamentazioni…) non sarebbe diventata quello che è. O che era, ok, ma non divaghiamo.
Insomma. Se anche solo lontanamente siete appassionati di elettronica e club culture, essere al tempo stesso dei gendarmi inflessibili e senza deroghe della legalità, della legalità a tutti i costi, è una grande contraddizione in termini. Se per voi gli occupanti da centro sociale sono tutti zecche comuniste che sono un rifiuto della società, voi al Cocoricò o al Social Music City – se foste coerenti con voi stessi – dovreste rifiutarvi di mettere piede (citiamo questi due luoghi non per altro o non per loro colpe, ma perché lì abbiamo visto coi nostri occhi gente con tatuaggi fascisti e nazisti sui bicipiti e polpacci felicemente esibiti: bravi, coglioni). Che poi, in realtà, va bene così, veniteci pure a ballare techno e house: il clubbing è qualcosa di inclusivo. Lo è per DNA. E quindi, alla fine, se dà spazio a tutti lo dà anche ai fessi e agli ipocriti di comodo. Anche perché spesso capita che con l’esperienza del ballo i coglioni diventino un po’ meno tali, acquisendo nuove e diverse consapevolezze. Non capita spesso, ma capita. Ed è sempre una vittoria per tutti.
Ok. Tutta questa era una premessa. Lunghissima, lo sappiamo; ma necessaria. Veniamo al punto.
Soprattutto se gravitate in qualche modo attorno a Milano, vi sarete accorti che in queste settimane si tornato a parlare molto – lo ha fatto anche Resident Advisor, che originariamente lo adottò qui – di Macao, lo spazio occupato più chiacchierato, frequentato e popolare nella metropoli lombarda da qualche anno a questa parte. Il motivo è semplice: dopo mesi e mesi di traccheggio, di abbozzi di dialogo, di progetti più o meno realistici presentati ed elaborati, il Comune di Milano – o una parte di esso – ha buttato tutto a mare e ha freddamente ricordato che la palazzina di Via Molise, che ospita Macao, va sgomberata. Punto. Rientra in un’area che può essere ceduta a un fondo di investimento immobiliare per 22 milioni di euro (cifra ghiotta da mettere in bilancio, per la casse comunali): ma chiaramente nel cederla per valere un certo tipo di cifra non ci devono essere situazioni critiche. Leggi: deve essere tutto sgombro. E non nel senso del pesce.
La reazione di Macao è stata durissima a parole (una durezza che, affermano, nasce anche dalla delusione perché invece sembrava esserci un percorso condiviso che permettesse una regolarizzazione della posizione degli occupanti e delle attività dello spazio occupato, percorso improvvisamente bocciato ed ignorato). Hanno tra le altre cose indetto una manifestazione, per venerdì 5 ottobre, dove il primo nemico viene identificato nel “vicino di casa” politico: Milano infatti non è (ancora) governata dalla Lega, il cui capo politico Salvini più e più volte ha fatto campagna elettorale puntando molto sulla demonizzazione delle occupazioni e sul ripristino della legalità, è governata invece dal centro-sinistra, da Sala, continuazione dell’esperienza Pisapia che, piaccia o meno, comunque ha dato una bella spinta e un bel boost (almeno d’immagine) al ruolo di Milano e alla sua forza propulsiva rispetto ad altre città italiane dopo gli anni bui della Moratti e delle giunte precedenti, (dove alla cultura non mainstream si mettevano i bastoni fra le ruote e si pensava più che altro a dare il via libera alla costruzione di inutili parcheggi sotterranei, tra l’altro non pubblici ma privati. O altre amenità del genere).
Certo: Sala e il centro-sinistra milanesi sono “vicini di casa” politici della sinistra di Macao solo perché di sicuro Lega e Salvini e in generale la destra e il centro-destra sono l’esatto opposto. Si va per esclusione. Ma “vicini di casa” lo sono fino ad un certo punto: quello che a Macao ci stanno dicendo è anzi “No, non c’è più nulla di sinistra nel PD, ciò che è di sinistra lì è morto e non c’è più, sono uguali agli altri”. Giusto? Sbagliato? Fatevi voi la vostra idea, in piena autonomia. Ragionate tranquillamente secondo i vostri metri di giudizio e le vostre opinioni (e ragionate anche su quanto sia giusta e sensata la sovrapposizione automatica tra “sinistra” e “ragione”, “sinistra” e “giustizia”: questo rientra nel campo delle opinioni contendibili, ed è una cosa su cui riflettere).
Ma che il clubbing sia una esperienza che si richiama più ad un certo tipo di valori ben specifici (libertà, rispetto e valorizzazione delle minoranze, rifiuto delle regole “normali” e tradizionali, rifiuto di una logica per cui la nostra vita è destinata al buon senso, all’ordine e al profitto) è un dato di fatto. Poi, le sfumature sono mille; mica devi essere per forza un militante trotzkista o foucaultiano per amare Blawan o Lotic, questo sarebbe una stronzata. E poi ancora, lo ripetiamo, il clubbing è di per se stesso inclusivo: vuole abbracciare tutti, indipendentemente da fedi, religioni, razze, orientamenti sessuali, credi politici. Gli snobismi esclusivi ne sono solo uno spin off minoritario, e in vari gradi strumentalizzante; non lo dico io, lo dice la storia stessa del clubbing – per chi la conosce.
Quindi: che vi vogliamo dire? Che appoggiamo la lotta di Macao in modo incondizionato? Questo? Che viva gli spazi occupati? Che solo pigne in testa a chi solleva il problema della legalità, del fatto che certi posti fanno “concorrenza sleale” non pagando tasse, non emettendo scontrini, non pagando la Siae e non rispettando regole di sicurezza varie?
Boh. Sarebbe facile. Sarebbe comodo. A più di qualcuno piacerebbe leggere una cosa così. A noi no. A noi non piacerebbe leggerla, né scriverla, né pubblicarla. Onestamente, crediamo di fare un servizio migliore a Macao non facendo da corifei acritici ed entusiasti delle sue istanze solo perché “…ci fanno delle serate molto fighe”. Peccato che, a dirla tutta, vediamo invece un po’ di gente che ha più o meno inconsciamente questo approccio qui… che è tanto superficiale quanto il “Chiudiamoli, non fanno gli scontrini”: stessa garrulità di pensiero.
Il problema della legalità e del rispetto delle regole esiste. Non considerarlo, snobbarlo, deriderlo, è infantile. Di più: è pericoloso. Perché se per Macao diventa “giusto” non rispettare le regole, allora perché non dovrebbe esserlo per una realtà che al contrario per un motivo o per l’altro non ci piace? Due pesi due misure? Il punto è: le regole non possono essere considerate un impiccio quando non ci piacciono, e una cosa data invece per scontata e doverosa quando ci difendono da violenza a prevaricazione.
Non solo. Esiste anche il problema della “concorrenza sleale”, appunto emerso più o meno esplicitamente da vari addetti ai lavori, e va affrontato: sì, Macao fa grandi numeri e offre concerti interessantissimi di grande ricerca culturale a prezzo ribassato, ma lo fa (anche) perché può tenere prezzi bassissimi all’ingresso – non paga tasse sull’incasso – e ha delle spese fisse (sicurezza, personale, obblighi di adeguamento strutturale, affitto) molto più basse di qualsiasi concorrenza “regolare” perché non si pone il problema di rispettare vari standard di legge per i locali adibiti a pubblico spettacolo ed intrattenimento. Ignorare questi aspetti, o peggio ancora deriderli, è infantile. Perché sono dei dati di fatto: e negare la realtà pro domo propria è, appunto, infantile.
Il punto è che bisogna essere in grado, da entrambe le parti, di fare un’analisi più profonda. Punto numero uno, la legalità non è un feticcio né un totem immutabile: rispettare le leggi così come sono non significa automaticamente avere un mondo migliore, più giusto, più bello. Proprio per nulla. In più, le leggi non sono “calate dall’alto” per volontà divina e mano di Dio, sono l’espressione di discussioni, di scontri più o meno pacificati, di lotte, di guerre, di morti, di drammi. Sono “mobili”: fino a nemmeno troppo tempo fa schiavitù, razzismo, il non voto delle donne erano “legge”. Il “rispetto della legalità” non è la soluzione di tutti i problemi, e la risposta ad ogni domanda. Sennò saremmo ancora qua con la schiavitù, l’apartheid e donne che non votano. L’unica soluzione a tutti i problemi è: accendere il cervello. E anche: accettare il confronto. Infine: capire su quale piano si vuole portare lo scontro. Perché lo scontro è inevitabile. Soft o duro che sia.
Macao, e le esperienze come Macao, sono risorse preziose per una città come Milano. Non solo perché ci fanno dei bei concerti, o fanno dei dj set che piacciono tanto ai critici musicali 2.0 più all’avanguardia e cool, sai che culo, o perché “hasta la victoria siempre”.
In generale, il punto è che a Macao operano su un piano che gli permette di andare al di là degli automatismi e delle imposizioni di mercato; sono contesti dove oggettivamente è più facile sperimentare, dove conoscenze e professionalità vengono diffuse e condivise in modo più orizzontale, dove nascono e si sviluppano nuove idee e nuove pratiche che, nel lungo periodo, possono poi migliorare la vita di tutti. Anzi: in un mondo ideale, creare degli ecosistemi in cui le regole del mercato non la facciano da padrone dovrebbe essere compito primario delle istituzioni, che in questa maniera appunto investono su un miglioramento futuro della condizione della cittadinanza. Ma sappiamo che il nostro mondo non è ideale e, probabilmente, mai lo sarà. Ben vengano quindi le forme di lotta ed azione attiva contro l’economia di mercato, anche e soprattutto in campo culturale: “Quello che abbiamo è quello che ci siamo presi / ed è tutto quello di cui abbiamo bisogno” si diceva nello storico primo bellissimo disco di Assalti Frontali. Una frase che riassumeva una generazione che si appropriava di (e ri-costruiva) codici e comportamenti etico-estetici che il sistema tradizionale di circuitazione socio-culturale non ci pensava nemmeno a poter offrire, troppo preso dall’idea di guadagnare sulle cose e/o di non spezzare e perturbare lo status quo. Anche Macao, se parli con le persone che lo fanno e ne leggi i comunicati ufficiali, insiste molto sull’aspetto dei “desideri” e delle forme libere/alternative di associazione dove “prendersi” le cose attivamente, dove “fare” attivamente. La matrice è quella. E quelli bravi possono vedere il continuum con certe rivendicazioni anni ’70, ’60, della Scuola di Francoforte, via via fino a ridiscendere a certi passi di Marx ed Engels. Un fil rouge evidente.
(“Quello che noi abbiamo è quello che ci siamo presi, e quello che ci siamo presi è solo una piccola parte di quello di cui abbiamo bisogno”, 1992, Assalti Frontali; continua sotto)
Ok. Ma pensare e piegarsi solo ed unicamente sul proprio desiderio è una forma di narcisismo, se si pensa che questa cosa sia ovvia e soprattutto “dovuta” e non debba affrontare sul suo percorso delle resistenze. E’ veramente questo ciò che si desidera? Vedere solo il proprio “desiderio”? Bisogna trovare i giusti equilibri. Ce ne sono tanti, di equilibri possibili; quello che suggeriamo noi – non a Macao, ma proprio in generale – è quello del rispetto. Nel caso specifico però, visto che di Macao stiamo parlando: non irridere chi non la pensa come loro, non considerarlo un minus habens o uno stupido “schiavo del sistema” (che poi, o sei figlio di ricchi o per sopravvivere sei sempre in parte “schiavo del sistema”: come la mettiamo?), non sentirsi migliori di altri solo perché si è un sacco alternativi o un sacco femministi o si fanno dj set un sacco belli o si citano molto pensatori di vera sinistra o, o, o [aggiungere altre voci a piacere].
Significa, per esperienze come Macao, anche rendersi conto che sì, ci possono essere delle persone che sono negativamente colpite (o direttamente toccate) dal fatto che loro operano senza rispettare degli obblighi legislativi, una scelta che ha conseguenza pratiche e pecuniarie su più persone. Portare avanti uno spazio occupato non è però un gioco o una furbata, è questo che va spiegato. Non è una scelta fatta solo per abbattere le spese e gli adempimenti burocratici: si fatica il triplo proprio come lavoro fisico rispetto al portare avanti uno spazio regolare e regolamentato invece, e si vive in una eterna incertezza perché si lavora appunto dichiaratamente al di là dei canoni legislativi. Insomma: rischi il culo. Ma davvero. Da un momento all’altro potrebbe arrivare lo scontro, il conflitto; da un momento all’altro ti possono sgomberare, togliere tutto quello che hai.
Da un momento all’altro possono decidere che l’edificio in cui stai ti va confiscato, tolto se necessario con la forza (la legge è dalla loro: possono usarla, la forza); e se ti metti a fare lo scontro militare con loro, beh, devi essere tanto ma tanto organizzato, tanto ma tanto numeroso, se non vuoi essere sconfitto pesantemente e senza appello. Cosa che negli anni ’70 e anche negli anni ’80 sapevano bene, con ancora echi bellici da resistenza partigiana e rivoluzione bolscevica in certi ambienti; poi dagli anni ’90 un po’ tutti quanti hanno iniziato nella sinistra più o meno antagonista a pensare un po’ di più alla cultura, al loisir. E infine – è un quadro molto approssimativo, lo sappiamo, ma ha un suo perché di massima – è arrivato il G8 a Genova a ricordare che la disobbedienza esplicita al potere, lo sfidare le “zone rosse”, la legalità e l’ordine costituito, non è una bella scampagnata dove gridare in corteo slogan belli e giusti e viva viva così con la musica dei soundsystem sui camion su cui ballicchiare, ma se la vuoi combattere davvero e dare effetto concreto agli slogan è una guerra sporca e piena di colpi bassi e bastardi. Da entrambe le parti.
Non c’è scritto da nessuna parte che Macao debba restare in quell’edificio, quello di Via Molise, senza se e senza ma, e non basta dire di aver provato a comprarlo tramite l’esperienza e la collaborazione del Mietshäuser Syndikat (operazione arenatasi). Tuttavia, al tempo stesso, ci sta rivendicare l’importanza dell’esperienza di Macao negli anni spesi dentro la palazzina di Via Molise, facendo capire quanto sia stata e sia un valore aggiunto per la città e quanto questo valore possa (e debba) mettere in discussione l’importanza di mettere a bilancio una cartolarizzazione di 22 milioni di euro – perché poi è tutto da vedere se saranno soldi veri che affluiranno subito nelle tasche del Comune di Milano e quindi di noi contribuenti: quanti edifici occupati sono stati sgomberati per poi restare di nuovo anni in abbandono? Ve lo diciamo noi: tantissimi. Tantissimi. La speculazione immobiliare è una merda. Agisce in modo cieco. E’, en passant, quella che ha fatto morire definitivamente un sacco di esperienze importanti pure nel clubbing (anche se quasi sempre è stata una morte “chiamata”: le dismissioni e speculazioni immobiliari hanno preso il via quasi sempre quando la vera spinta propulsiva di una serata o di un luogo erano in calo).
Crediamo quindi una soluzione possa e debba esserci. Una soluzione in cui le due parti in causa, Comune di Milano e Macao, (con)cedano ciascuna qualcosa. Stiamo difendendo la liceità di una esperienza illegale come l’occupazione di uno stabile di proprietà altrui? Sì, lo stiamo facendo. Stiamo difendendo un posto dove non viene pagata la Siae, non viene pagata l’Enpals ai musicisti, mille altre irregolarità vengono compiute? Sì, lo stiamo facendo. Perché la storia ha dimostrato che spesso e volentieri questi posti sono stati (versione romantica) un incubatore di nuove idee e nuove pratiche che poi hanno migliorato la vita di tutti; e sono stati (versione cinica) l’incubatore di nuove idee e nuove pratiche che poi hanno creato grandi ricadute positive economiche per tutti, dando vita a nuove esperienze, nuovi posti di lavoro, nuove forme di imprenditorialità, valorizzando poi lo stesso patrimonio immobiliare di un intero territorio, rendendolo più attraente. Chi sta lucrando un sacco sulla compravendita di case a Berlino deve ringraziare un sacco quei drogati di merda, magari pure froci, che occupavano e ascoltavano techno per ore ingollando pasticche e creando party infiniti pieni di sballati e scansafatiche: sono diventati ricchi grazie a loro.
Macao però, dal nostro punto di vista, deve accettare l’eventualità che venga spostato in altra sede; e se dà del “morto” al proprio interlocutore, beh, di questo alzare il livello dello scontro deve accettarne le possibili conseguenze (tipo, decidere da parte del Comune anche di bloccare ogni forma di contrattazione e passare allo sgombero coatto sic et simpliciter: se tu alzi un muro lo alzo pure io, e vediamo chi ce l’ha più duro). In generale, il fatto di dare vita nuove forme di cultura ed associazionismi non mercatili non deve farti sentire “migliore”. “Diverso” sì, più “culturalmente” ricco anche, ma non per forza “migliore”. Mentre invece l’impressione, da qualche dichiarazione raccolta sul web, è che spesso ci si senta in qualche modo illuminati da una specie di “raggio gamma” che infonde un gran senso di superiorità, che si esercita non tanto su chi è conclamatamente avversario politico – chi vorrebbe gli sgomberi tout court e basta – ma anche e soprattutto su chi invece è su posizioni meno distanti e in qualche modo più trattativiste. Ha senso? E’ utile? L’obiezione a questa posizione più “mediana” è, a spanne: “Chi è trattativista finge; in realtà ci sta solo facendo perdere del tempo, per sfiancarci e indebolire la nostra lotta e alla fine sgomberarci senza pietà” (crediamo di non fare un torto a nessuno riassumendola così).
A questo cosa si risponde? Si risponde che finché c’è uno spiraglio di trattativa, vale la pena percorrerlo. Se invece non lo si vuole percorrere, ok, c’è la lotta, il conflitto, lo scontro; lì bisogna vedere se si è disposti ad affrontarlo, in quanti si è disposti ad affrontarlo (sì, le migliaia di persone alle serate organizzate dal Tavolo Suono, sì, la solidarietà perfino di Resident Advisor, sì, i like su Facebook, ma comunque il traguardo della “massa critica” di persone pronte ad andare allo scontro, a farsi del male, ad andare in prigione per resistenza a pubblico ufficiale è da valutare per bene). La popolarità da sabato sera di Macao, con code infinite di gente che brama di entrare e di esserci, nasce anche da molte persone che vogliono andare in un posto dove paghi solo 5 euro come ingresso, puoi fumare in santa pace, la musica è interessante, la gente è interessante, soprattutto fa figo esserci. Non è una critica: è fisiologico sia così, quando a venire da te sono migliaia di persone. Abbiamo visto lo stesso accadere al Link dei bei tempi, a Bologna, anni ’90, o al Livello 57, dove i rave, l’elettronica “intelligente” e l’hip hop puro la facevano da padroni. Vogliamo davvero credere che per qualche anno, nella seconda metà degli anni ’90, la città felsinea è stata rapita dagli ufo ed improvvisamente tutta la gioventù, indistintamente tutta, era insurrezionalista marxiana-cyberpunk e un po’ Pantera Nera? E se davvero è stato così, ora questa gente che fine ha fatto? Osservano la terra dall’alto sull’astronave guidata dagli alieni che ogni tanto appaiono nei “Simpsons”? Triccheballacche?
Mai sopravvalutarsi, guardando il proprio ombelico e rimirandoselo, pensando che si è tanti e belli, e soprattutto più tanti e più belli degli altri. Macao è una esperienza molto ricca e molto utile per la città di Milano e, in generale, per chiunque stia attento a nuove dinamiche e nuovi stimoli in campo socio-culturale; la sua componente “illegale” è (anche) un pungolo positivo per far capire che con la pura e semplice illegalità raramente si ottengono risultati che vadano al di là del luogo comune, e il luogo comune, nella cultura, piano piano è una entità che si spegne e si ingrigisce (e ti spegne e ti ingrigisce). Ok. Ma questo non autorizza, o non dovrebbe autorizzare, a dare patenti di “morto” o comunque di idiota o rinnegato a chi non la pensa esattamente nel modo in cui la pensano loro, adeguandosi ai loro diktat, né a trattare con sufficienza e sarcasmo chiunque non sia sintonizzato sulla loro identica lunghezza d’onda socio-politica. L’antagonismo milanese, del resto, è storicamente un po’ snob, ha storicamente una grande opinione di sé; ma ha anche avuto, negli anni, più di altri, dei periodi in cui invece ha saputo essere inclusivo, parlare a tutti, elaborare nuove pratiche e renderle comprensibili e sostenibili nella vita reale, non solo nelle parole spese in assemblea il mercoledì o giovedì sera. Macao da che parte vuole stare? E fino a che punto considera un diritto il fatto di occupare, per le proprie attività, uno stabile occupato?
Già. Occhio alla parola: “diritto”. In questa intervista (scorrete a fondo pagina nel link), fatta per Radio Popolare, ad un certo punto uno degli intervistati dice “Gli artisti che arrivano da noi sono allibiti per la bellezza della location”. Indubbiamente: la location è pazzesca. Ma l’allibire nasce forse anche dalla domanda, più o meno implicita, “Com’è possibile che vi facciano stare qua, illegalmente? In un posto così?”. Il punto è che a furia di mandare avanti con legittimo orgoglio quello che si fa, negli spazi di Via Molise, si confondono i diritti con le scelte. Occupare uno spazio e starci è una scelta, non un diritto. Occupare uno spazio è una scelta coraggiosissima, difficile, che ti obbliga a farti un culo tanto e a rischiare parecchio come si diceva, e che fai solo se hai un grande fuoco ideale dentro di te: non è, come dicono gli idioti e/o i superficiali, una scelta di comodo, fatta per lucrare più degli altri, non pagar tasse e fare così “concorrenza sleale”. Ok. Ma resta una scelta, non un diritto. E come qualsiasi scelta, ha i suoi pro e i suoi contro. La chiave è tutta lì.
(e ora un po’ di Torino, un po’ di OGR; continua sotto)
Per quanto ci riguarda, possono esistere diverse vie. Possono coesistere ad esempio Macao e le OGR, a Torino. Seguiteci: il secondo è una specie di “nemesi” del primo, un suo omologo speculare e contrario. Entrambi gli edifici sono archeologia industriale, entrambi gli edifici sono rimasti abbandonati ed inutilizzati per un sacco di tempo. Le OGR però da un certo momento in avanti sono entrate in tutto e per tutto nell’alveo costituzionale (addio agli epici rave illegali di qualche anno fa…), cedute dalle Ferrovie dello Stato a una fondazione bancaria, quella di CRT, che si è presa in cura in tutto e per tutto dello spazio, affidandolo infine nelle mani di un curatore (insospettabilmente giovane e smart per le attitudini ed abitudini italiane, classe 1985). Tutto è a posto, tutto è a norma, tutto è dannatamente regolamentato. Ci sono anche contenuti di alta qualità, vista l’alleanza di ferro che si è stretta con alcune realtà specifiche (è chiarissimo il marchio di Club To Club su un sacco di eventi che si svolgono lì dentro di matrice diciamo “elettronica”, ed è come sempre roba di qualità). Per quanto belle siano le OGR, e lo sono parecchio, non andranno però mai perfettamente bene per una esperienza intensa e viscerale come il clubbing propriamente detto, o come l’elettronica di frontiera dove la vocazione non è solo “arty” ma è anche quella del “party”. Sono sicuramente un momento molto interessante in cui cultura vera ed autentica dell’elettronica incontra contesti più istituzionali, più regolamentati, più “educati”, e dimostra di poter parlare da pari a pari con questi contesti, esattamente come fanno da sempre lirica, classica o jazz, in certi casi perfino il pop. Lo diciamo: finalmente. E’ qualcosa di molto, molto importante. Per tutti. Ottimo. Complimenti a chi ha reso questo possibile.
Ma l’esperienza non può essere solo quella delle OGR. La complessità di tutto ciò che è – usiamo il termine generico – “elettronica” e di tutto ciò che è “club culture” non si può racchiudere in un posto come le OGR attuali, con quelle dinamiche di controllo e regolamentazione a starci dietro. E’ una versione salottiera ed educata. E’ una versione che comunica solo in parte e in modo pallidamente simulato l’idea di rischio, di avventura, di scoperta, di superamento della routine diurna che è storicamente alla base di tutto ciò che è club culture, oltre alla musica in sé e all’idea di festa e divertimento. Di nuovo: ennesima dimostrazione di come la pura e semplice legalità (è tutto legale e in regola, alle OGR) non può racchiudere in tutto e per tutto la ricchezza e complessità di un fenomeno culturale.
Il punto è, insomma: c’è posto sia per il modello Macao (con tutti i problemi, le lotte, le difficoltà, le possibili sconfitte e poi rinascite) che per il modello OGR (che piace tanto alla gente che piace, non disturba nessuno, offre una esperienza “educata”, rende finalmente giustizia&prestigio a un certo tipo di discorso artistico e sociale, ma comunque restituisce uno spettro limitato di “frequenze socio-emotive”). Non è necessario pensare che la vita dell’uno dipenda dalla morte dell’altro, e viceversa, iniziando a odiarsi, infamarsi, combattersi. Non dobbiamo cadere in questa trappola. Per favore. Chi lotta per il modello Macao non deve ritenere un nemico o un traditore chi lavora per il modello OGR; chi lavora per il modello OGR non deve desiderare l’estinzione del modello Macao perché “concorrenza sleale” (…però sono i riverberi del modello Macao quelli che ti permettono, ora, di fare gli eventi di lusso e di alti numeri alla OGR, al Lingotto, eccetera eccetera). Proprio mentre preparavamo questo lungo articolo, ci è capitato di leggere l’altro giorno un “BOICOTTA LE OGR” scritto su Facebook da persone che per la cultura elettronica e per la musica di ricerca a Torino stanno facendo tantissimo: se alcune argomentazioni avevano basi reali (“Le OGR restituiscono una versione pettinata del clubbing, qualcosa di edulcorato”, in sintesi; oltre a varie considerazioni su dinamiche di promozione sul territorio e di equilibri finanziari), in generale l’idea che il successo mio possa nascere dall’insuccesso tuo è una idea che in Italia in particolar modo funziona molto, ha molti e frequenti adepti, ma che non si è mai dimostrata vincente.
Vero: mentre a Torino fioriscono le OGR e i grandi festival, i club soffrono. Ma sinceramente a noi sembra una correlazione ingannevole. Il declino del clubbing a Torino è iniziato prima e altrove, con un attacco orchestrato in vari modi da pezzi di istituzioni, con chiusure ad orologeria e quant’altro (emblematico il caso dei Murazzi: ne scrivemmo qui). Ecco, far vedere che si è in grado di creare dei grandi festival che fanno da indotto all’economia o degli eventi riusciti in un “salotto” come le OGR, in prospettiva futura in realtà dovrebbe porre le basi per rendere sempre più difficili i bastoni tra le ruote da parte delle istituzioni di cui sopra. Se invece uno fa il ragionamento che “Se la gente va già ai festival, poi col cazzo che viene alla mia serata settimanale o mensile nel club”, boh, allora forse non crede abbastanza di avere un prodotto interessante da offrire, capace di “sedurre” le persone, e dà la colpa ad altro ed altri per i suoi limiti. Certo, nessuno ignora che stiamo attraversando una fase in cui l’interessa e la passione per il clubbing settimanale è in declino; ma, appunto, l’impressione è che sia una fase, si tratta di tener duro e di saper (ri)partire individuando nuove idee, nuove novità, nuove dinamiche propulsive. Spendere energie nel vedere un grande festival o un “salotto” come le OGR come competitor nel raccogliere pubblico è, secondo noi, un errore di prospettiva. Si rende interessante e “sexy” un argomento, uno stile, una musica; se accade, l’interesse generale crescerà piano piano per tutti. No? Non va così? Mettersi invece a fare i polli manzoniani fa bene solo al brodo. O comunque al pollo più grande, che se è molto più grande magari se la sfanga – perché si fa amico il cuoco e/o sfugge alla pentola.
Di nuovo: questione di equilibri. Mobili. In mutazione. E questione di confrontarsi. Con rispetto. Capendo come darsi vantaggi a vicenda. Usando il buon senso. Non (solo) la legge.
Ok, siete arrivati sino in fondo. Parole parole parole, ma: tu che proponi per Macao quindi? Mica si capisce, ci investi di parole ma in sintesi che cazzo vuoi dire, dove ti schieri. Ora lo dico: Macao via da lì, in un altro posto, nel momento in cui il Comune e/o la proprietà dei terreni presenta un progetto esplicitato nei tempi di realizzazione, con destinazioni d’uso chiare e condivise. Niente sgomberi preventivi: i fondi d’investimento che hanno acquistato il lotto se ne faranno una ragione. D’altro canto stanno per fare un affare ghiotto, ci sta possano accettare qualche compromesso. Nel frattempo, si lavora per trovare un piano B, una eventuale altra soluzione, un’altra sede. Perché Macao non avrà fatto bandi, e sarà anche vero che “…allora se voglio una sede mi metto ad occupare anche io, così non pago un cazzo, manco le tasse”: beh, fallo. Fallo, cerca di produrre lo stesso tipo di cultura e di rilevanza che Macao ha creato in questi anni. Se ci riesci, ci sta che la città poi ti riconosca qualcosa. Macao dal canto suo può avanzare appunto dei diritti sul suo lavoro e sulla sua rilevanza, ma non può avanzare (per ora) dei diritti fisici al possesso e all’usufrutto delle mura della palazzina di Via Molise.
Questa la mia. Ma ciascuno può scegliere la sua soluzione. Basta che abbia chiare in mente tutte le carte sul tavolo, tutte le conseguenze possibili: se vuoi lo scontro duro e puro perché Macao deve stare lì e basta, come qua e là leggiamo in giro, l’importante è che tu sappia qual è il prezzo da pagare.