Sulla carta, tutte le condizioni per essere una collaborazione über cool, sfavillante e (finto) esclusiva, super mediatica – lì dove i media sono i circuiti dell’hipsterismo spinto. Quelle cose dalle grandi aspettative, insomma, e dai risultati magari un po’ così. Ovvero, metti insieme i due nomi perfetti da nerd musicale, così perfetti da essere “travasati” anche fra chi non è nerd ma vuole dimostrare a se stesso ed al mondo di essere un esperto, non un “turista della musica”: Madlib per l’hip hop, Four Tet per l’elettronica. Mettili insieme, e vinci.
Entrambi degli atipici. Entrambi immaginifici. Entrambi sfuggenti agli occhi dei media (ciascuno a modo suo). Entrambi eccentrici (ciascuno a modo suo: Madlib nei suoi vezzi tipo la degustazione dei vini, Four Tet nel suo essere clamorosamente normcore). Entrambi difficili da inquadrare per il sistema industriale attorno alle rispettive scene musicali. Quindi, entrambi circondati da un alone di culto “intelligente”.
Insomma, davvero: la classica combinazione sulla carta tanto perfetta quanto astuta, sublime magata da marketing “superiore”. C’è però una grande differenza (ed una grande fortuna). Sì che c’è. Ovvero, Madlib e Four Tet si conoscono praticamente da vent’anni, e non solo sulla carta o per interposta fama, eh no: con Four Tet che venne ad una serata Stones Throw a Londra nel 2001 (e vent’anni fa sia Four Tet che Stones Throw erano la nicchia della nicchia), e strinse subito una forte amicizia con Egon, il deus ex machina della label, amicizia poi tracimata anche con Madlib. Così sono andate le cose. They were cool to each other before they were cool, ecco. Il risultato? Ogni accusa di opportunismo, di furberia, di calcolo può essere tranquillamente buttata a mare. Accusa che per una coppia davvero “troppo perfetta” come la loro poteva effettivamente aleggiare, magari inconfessata.
…accusa che, onestamente, poteva essere messa in gioco ed ipotizzata iniziando ad ascoltare l’album. Oh sì. E’ un diesel, “Sound Ancestors”. Parte un po’ impacciato, imbastito. O meglio, ci sono tutti gli elementi di rispettiva “figaggine”, come da manuale hipster über cool: i campionamenti strani e l’omaggio alla blackness “alternativa”, la psichedelia sottile e pervasiva, eccetera eccetera. Tutto al proprio posto. Ma almeno fino alla title track (tanto sulla carta interessante quanto alla fine un po’ onanistica ed auto-indulgente), l’impressione è che non scocchi la scintilla. Il disco non decolla. Non c’è un vero amalgama, e in questi casi non c’è Massimino che tenga. Tutto appropriato, tutto corretto, tutto anche “storto” ed atipico come da DNA musicale dei protagonisti, tutto effettivamente bello, ma nulla che “faccia sangue” e davvero ti proietti in un’altra dimensione, come succede quando gli album sono veramente ma veramente fighi.
(Eccolo, “Sound Ancestors”; continua sotto)
Il cambio di marcia arriva quando (quasi) più non te l’aspetti e nei modi che meno t’aspetti. “One For Quartabé / Right Now” mette in campo un’avventurarsi in campi di solito poco battuti dai due, un funk anni ’80 tra jazz e radiofonia (i territori dove Marcus Miller e altri portarono Miles Davis, per intenderci, e più ancora di “Tutu” pensiamo a questo) infarcito però di bizzarrie (gli applausi finti) e che ad un certo punto trascolora in qualcosa di più acustico ma comunque funk (le linee di basso che usavano Roni Size e certi aedi del trip hop DOC), sempre con un sacco di arricchimenti e di schegge bislacche.
Da lì il disco decolla. Accidenti se decolla. L’alchimia si realizza. Sia che si cavalchi sempre il filone fusion tra anni ’70 ed ’80 (“Hang Out”), sia che si vada più verso il soul (“Two For 2”) o l’hip hop da funghetti magici (“The New Normal”). E pure gli episodi minori (“Latino Negro”, complessivamente un demo di Nitin Sawhney) ad un certo punto assestano dei colpi notevoli a livello di idee e suggestione, a fine traccia. “Duumbiyay” è il trionfo finale, mostra in maniera perfetta come Four Tet abbia dato ulteriore dimensione e profondità alle idee musicali di Madlib, già di per loro un mondo decisamente affascinante ed avventuroso, inserendo la sua venatura folk-psych-jazz che è un suo vero marchio di fabbrica (e che usa solo in minima parte da quando si è dedicato ai dancefloor, visto che lì serve meno e anzi rischia di rendere le cose troppo incasinate e meno efficaci, ma che ai tempi in cui era un semplice bedroom producer era ciò che lo rendeva un fuoriclasse rispetto al resto dei colleghi).
Il risultato complessivo è quindi decisamente ottimo. Un disco che rinnova ed espande i canoni stilistici dell’hip hop (era da mettere in conto), pieno di riferimenti colti ed intelligenti (era scontato), che crea più profondità nel mondo sonoro di Madlib (non era scontato), che ci ricorda quando il tocco di Four Tet sappia essere illuminato a trecentosessanta gradi (rischiavamo di dimenticarcelo a furia di posizionarlo solo nei dancefloor, ma di questo rischio probabilmente era ed è conscio pure lui). Dopo i Bicep, con questo “Sound Ancestors” il 2021 inizia decisamente bene. Un anno che ha già parecchio da farsi perdonare, avendoci portato via prematuramente due artisti meravigliosamente onesti nei confronti della musica e di se stessi, ciascuno a modo suo, come Phil Asher e SOPHIE.