New York City. Queens. Dove luoghi e circostanze hanno caratterizzato la maggior parte dell’esistenza di un personaggio che risponde al nome di Madteo. Stabilitosi nella Grande Mela agli inizi degli anni ’90, e inevitabilmente influenzato dalla scena del periodo, l’artista di origini padovane ha saputo trarre vantaggio da questo contesto, fondendo suoni all’apparenza lontani anni luce tra loro, con un tocco fresco e personale, ormai raro di questi tempi. Lungi da lui, ogni pratica musicale legata a dinamiche bypassate. Forte di uno stile ibrido, perché confine tra molteplici sonorità, Madteo ha fatto del fascino del non finito la sua cifra stilistica più attuale. In questo flusso di pensieri, pervasi a tratti dal suo senso critico, ci guiderà con la sua colonna sonora direttamente oltreoceano, nella Big Apple tra modi di dire tipicamente slang e suoni Golden Age, tra genio e follia.
La scorsa estate sei partito per un tour in Australia, insieme a Brian Leeds (aka Huerco S). Che esperienza è stata?
È stata un’esperienza abbastanza interessante per molti motivi. Primo all’ultimo minuto ero quasi indeciso se partire, ero un po’ impaurito dal fatto che se avessi finito di fare questo viaggio non me ne sarei neanche accorto perché un tragitto così non lo avevo mai fatto, anche se ho sempre viaggiato molto. Sono stato via cinque giorni, partendo da Venezia, sapevo che erano tre date (Sydney, Melbourne e Adelaide), però non sapevo fino a pochissimo prima di partire che effettivamente stavo via solo cinque giorni, e da lì ero un po’ indeciso e volevo quasi cancellare il mio tour. Alla fine, sono stato felicissimo di non averlo fatto e comunque ho passato tre giorni effettivi di viaggio in aereo. Ho impiegato quarantotto ore ad arrivare a Sidney con circa venti di queste in due scali. Mi sono divertito e ho conosciuto gente simpatica ed ottimi artisti con le loro etichette e la passione per i dischi. Tra i nomi ricordo Butter Sessions, Sleep D, Dan White, i ragazzi di Heavenly a Sydney, Percussions ad Adelaide, Body Contact a Melbourne e l’agenzia Fünf Touring di Alex Haeusler, che nonostante organizzi eventi molto più grossi (recentemente mi pare con Jeff Mills e la Melbourne Symphony Orchestra) ha voluto organizzare il nostro viaggio per creare situazioni più intime. Sembra ci sia un risveglio quasi generale o uno spostamento di gusti verso sonorità meno mainstream. Quest’ampliamento dei gusti musicali in varie parti del mondo è uno degli sviluppi più interessanti da riconoscere ai giorni nostri. Con Internet quasi tutti possono sapere tutto sulle radici di qualsiasi era e sub-genere musicale esistiti, anche solo in una specifica parte del mondo.
Ho visto che poco tempo fa hai ripubblicato sulla tua fan page un progetto ambient intitolato “Trains and Stations” sull’etichetta Passive Musik Berlin.
In realtà è una collaborazione con Passive Musik Berlin risalente al 2011. Muellie Messiah, è l’unica persona (a parte una collaborazione con DJ Sotofett) con cui sono stato in studio, come quella volta da lui quando mi diede in mano il microfono e mi sono messo a parlare. Con Passive Musik Berlin e “Trains and Stations” è stata la prima volta che ero effettivamente in studio a registrare suoni. Un bedroom studio in cui più della metà della sua camera è dedicata a strumenti elettronici. Lui ha una cultura musicale abbastanza elevata: in passato fu professore di musica, immagino non per tanto, perché poi è sempre tornato a fare il musicista ma non penso senta la necessità di pubblicare materiale e di cercare di costruirsi una carriera come producer o dj. Tuttavia ha un bel modo di vedere i suoni che mi ha aiutato ed ispirato parecchio da quando lo conosco. La cosa interessante per me era che lui ha una cultura tipica di chi è abituato a fare musica con le macchine, s’impone una serie di regole che rispetta abbastanza rigidamente: strumenti analogici, registrazione dal vivo senza ricorrere ad overdubs o post-production, solo ricerca di un momento nella take che possa passare e dunque sopravvivere, temporaneamente, all’essere cancellato (elimina gran parte di tutto ciò che registra). Io appartengo a una cultura totalmente diversa, quella del computer, faccio uso anche di campioni, non necessariamente devo campionare dischi d’altri, cerco sempre più di campionare me stesso, mi auto-campiono usando progetti dimenticati in qualche folder o almeno nella maggior parte dei casi cerco di assicurarmi che non siano riconoscibili. Nel mio caso, Muellie Messiah è stato abbastanza generoso perché non si apre così facilmente a collaborazioni. Senza dubbio è uno dei personaggi che possedeva un’aura mistica già prima che lo conoscessi. L’ho sentito grazie a delle tracce rilasciate su dei dischi pubblicati da Dynamo Dreesen, il quale me ne parlava da un paio d’anni. Effettivamente, il primo a parlarmene fu anche Michael di Meakusma, segnalandomi il progetto 100records e accennando anche al suo passato di professore di musica. Poi gli scrissi su un sito che gestiva, una di quelle pagine endless scroll, dove verso la fine, c’era un messaggio con un hyperlink che recitava che qualora tu volessi mandargli una traccia ti avrebbero spedito una “Decoration by 100records”. Questo mi rimase in testa e quando gli mandai una mia traccia ero eccitatissimo. Dopo un po’ mi arrivò un messaggio lunghissimo e con degli allegati. Nella fattispecie, mi aveva spiegato a livello matematico/scientifico quello che avevo combinato con quella traccia, frequenze, problemi di tecnica del suono ed altri dettagli per me totalmente astratti. In sostanza però non voleva “decorare” la mia traccia! Gli risposi più o meno mandandolo a quel paese ma da lì siamo diventati amici ed ogni volta che vado a Berlino lo vado a trovare. Spero di fare presto un’altra visita alla Passive Musik.
Informazioni sul tuo conto menzionano che sei originario di Padova ma vivi dal ‘93 in America, ad oggi residente nel Queens, quartiere di New York. Com’era la scena a metà anni ‘90 nella Grande Mela?
Era mitica. Poi quando si ha diciotto anni non c’è paragone. Tante cose vanno ad aggiungere significato, forza, potere a questa differenza abissale dell’approccio che si ha quando si apprezza la musica, che è diventata una cosa diversa con Internet. Prima che il mondo cambiasse, la musica era necessaria andare ad ascoltarla, cercarla in negozi o in certi locali, uscire di casa e interagire con persone, avere rapporti di amicizia con chi lavorava in negozi di musica. C’è sempre stata tanta roba da fare e ce n’è ancora effettivamente solo che sono cambiate tante cose, primo tra tutte nel caso di New York sono cambiati tutti i panorami immobiliari riguardo a tutte queste aree che hanno subito anni di negligenza o erano ad uso industriale prima, commerciale poi e infine residenziali. Quartieri che si popolano con un certo tipo di demografia che contribuisce ad una rapida riclassificazione dell’area, assalita da speculatori immobiliari. La maggior parte dei locali conosciuti come il “Tunnel”, “Sound Factory”, “Limelight”, “Palladium”, “Save The Robots” erano in zone della città all’epoca un po’ malfamate e considerate abbastanza fuori mano così da avere affitti bassi e non avere tanti problemi con il vicinato. Trattandosi di Manhattan, i giorni erano contati dato che tutte le zone dell’isola a cominciare dalla parte bassa (Downtown) sono ormai solo per i “nuovi Newyorkesi” o magari vecchi ma ultra borghesi. In verità rimane una piccola percentuale della popolazione che vive ancora in appartamenti ad ”affitti controllati” (Rent Controlled), un sistema antico che assicurava che una parte degli appartamenti non avesse incrementi stratosferici degli affitti. Per me fu già alla fine degli anni ’90 quando incominciai a sentire e vedere i rapidissimi cambiamenti. Per esempio dopo cinque anni a Manhattan tra il ’98 e il ’99 mi trasferii a Greenpoint, Brooklyn, da decadi il quartiere Polacco, meno pratico da raggiungere e dunque con affitti più economici rispetto a Williamsburg che è invece il più vicino alla metropolitana. In quei diciotto mesi a Brooklyn notai un’accelerazione impressionante di quel processo che avevo già vissuto tre anni prima quando vivevo in uno scantinato di una galleria d’arte tra la Avenue C e la Avenue D. Per la maggiore il problema perenne era la casa. Nei primi cinque anni a New York, prima che arrivassi nel Queens, a fine ’99, almeno ogni anno, per un motivo o un altro dovevo traslocare. Lievitazione degli affitti dal raddoppio in su. Così morì velocemente il periodo d’oro dei club newyorkesi negli anni ’90: uno dopo l’altro i locali chiusero e anche se tanti riaprirono sembrava che con la fine dei ’90 fosse veramente finita un’era.
Rimanendo in tema e parlando della tua formazione musicale, mi piacerebbe sapere qualcosa sulle tue influenze. Cosa e/o chi ha lasciato un segno sulla tua musica?
Essendo del ’75, anche se non compravo dischi, ovviamente da piccolo ero introdotto a musica che ascoltavano i più grandi intorno a me per esempio le colonne sonore dei film di Sergio Leone, di Ennio Morricone. Una mia zia, pulendo casa, ascoltava cassette di artisti tipo Billy Ocean, David Bowie, Lionel Richie, Iggy Pop. Alla radio a inizio anni ‘80 mettevano la italo disco. Sono cose che magari non adorai subito ma mi chiedo se quei primi ascolti non abbiano condizionato la mia passione e ricerca di certi stili anni dopo. Il pieno della MTV Generation, (Generazione X), post-disco, Anni di Piombo, Gladio, Rosa dei Venti, Video Music, hip hop, post-punk, new wave, synth pop, reggae, dub sono tutte influenze parte della mia adolescenza e che hanno successivamente definito varie fasi delle mie ricerche musicali più o meno profonde. Le prime cassette techno le comprai nel negozio di un dj/produttore padovano, Moka DJ. Negli anni ’89 e ‘90 e giugno ‘91 cominciò la mia avventura negli USA come studente. A quindici anni non parlavo inglese (alle medie ero in una sezione di tedesco) e mi sono trovato a 50km dal centro di Los Angeles in un college senza limiti di età con persone provenienti da tutto il mondo. Lì ho scoperto LP appena usciti come N.W.A., “N***az For Life” (“Efil4aggin”), dove la mia favorita era “Automobile” ironicamente cantata da Eazy-E ed un rifacimento di una canzone dei Parliament-Funkadelic. Un altro album specifico di quel periodo fu “Black Sugar Sex Magik” dei Red Hot Chili Peppers, prodotti da Rick Rubin che andai poi a vedere in concerto appena arrivato a New York tre anni dopo, “Out of Time” dei R.E.M. con “Losing My Religion“, una hit con un mandolino che fa la melodia principale. “Jerusalem” di Alpha Blondy un disco spiritual-dub-reggae registrato negli studi Tuff Gong e che ha dato inizio alla mia ricerca del dub giamaicano, musica strumentale con esperto uso di effetti e dello spazio. Altro segno lasciato da quella prima esperienza USA furono dei rave, gli unici veri e propri in cui fossi mai andato, in hangar nei dintorni di LAX (LA International Airport). Ero accompagnato da un italiano più grande di me che aveva la macchina e mi portò in un negozio di dischi su Melrose Avenue dove comprai la prima compilation di tracce techno, “Belgian Techno Anthems” (Reactivate Volume #1). Nel 1993 ho fatto la quarta superiore ad Arlington, Texas, sobborgo di Dallas e Fort Worth, nel cosiddetto “DFW Metroplex” la più grossa area metropolitana nel sud e quarta negli USA. Il Texas è uno stato particolare perché da una parte è la culla del fondamentalismo Cristiano, sede di numerosissime multinazionali con cultura conservatrice, dall’altro è un’area degli USA con profondissime radici e floride correnti e contro-correnti musicali a partire dal blues, al rock’n’roll come Leadbelly, Blind Lemon Jefferson, T-Bone Walker, Buddy Holly, al R’n’B come King Curtis, pionieri del free jazz come Ornette Coleman, rock e pop nelle più disparate varietà da Steve Miller, Janis Joplin, Roy Orbison, Boz Scaggs, Edie Brickell, ZZ Top, gruppi più moderni come Butthole Surfers fino ai nostri giorni (ultimi venti anni) con gruppi tipo i Polyphonic Spree, all’epoca un gruppo locale di Dallas chiamato Tripping Daisy che vidi supportare i Nirvana in concerto durante il tour per l’album “In Utero” (Kurt Cobain morì pochi mesi dopo) Secret Machines, Erykah Badu, Beyoncè, St. Vincent (ex Polypohonic Spree). Grazie ai miei amici di scuola in Texas ho scoperto anche musiche più arrabbiate come i Fugazi, Suicidal Tendencies, Skinny Puppy, NOFX per non parlare del rap Texano che però ha più radici nell’area di Houston ma che ho riscoperto a New York con maestri come Scarface dei Geto Boys, UGK, poi Dj Screw e la sua casuale invenzione di un sub-genere via ghettoblaster che suonava a rallentatore causa batterie scariche (da lì gli venne l’idea di infilare delle viti per replicare il sound delle batterie semi-scariche!). L’anno dopo arrivai a New York in un periodo, metà ‘94 in cui uscirono una serie di LP considerati ormai pietre miliari dell’hip hop. I Wu-Tang Clan, Notorious B.I.G. e NAS pubblicarono i loro primi album in quell’anno ed era difficile starci lontano.
Mi è sembrato di capire che hai anche un retroterra che proviene dal movimento hip hop.
Ma neanche tanto. Per me a tutto a che fare con New York, dove sono arrivato effettivamente in quello che chiamano l’epoca d’oro, anzi la seconda epoca d’oro, la prima fu tra metà e fine anni ’80, mentre la seconda tra inizio e metà anni ’90. La colonna sonora di New York in quegli anni. Nel ‘95 ad un concerto di Mad Professor ho scoperto un nuovo sound per me totalmente oscuro, tra il dub, l’hip hop e l’ambient, di una piccola etichetta di base (all’epoca) a Williamsburg, Brooklyn impegnata in una propagazione di un sound che loro dicevano venisse dal “The Other Side”, un riferimento al fatto che in quell’epoca Williamsburg e Brooklyn erano parti di NYC che se potevano, si evitavano a tutti i costi. Anche un gioco di parole dato che le uscite contenevano ibridi musicali che possono essere messi vicino ad altre sonorità emergenti in quegli anni, come il sound di Bristol e la trip hop, ma erano anche molto diversi, come il dub hop ed illbient, due tra i nomi usati per descrivere lo stile che pareva venisse da “l’altro lato”. Vedendo quel che successe con Williamsburg e la sua associazione anni dopo con la scena indie rock, la Wordsound Recordings ed altri musicisti sperimentavano in quella zona come DJ Olive e la sua The Agriculture, Bill Laswell durante il periodo dei suoi Greenpoint Studios, rimane un’etichetta con un catalogo molto formativo per me anche perché mi introdusse alla musica di Sensational, un rapper e produttore a cui rimango legato come amico, una bella persona che non ha tanti eguali nei canoni hip hop anni ‘90, forse il proto-indie-MC/producer per eccellenza.
A tale proposito, ho letto un articolo pubblicato su Blow Up n°196 riguardo Sensational. Cosa ci puoi dire sulla tua collaborazione con l’MC di Brooklyn, è ancora attiva?
La nostra collaborazione era nata per caso, in quanto, lui ebbe un lungo periodo iniziato dopo l’11 settembre in cui visse da nomade metropolitano. Lo rincontrai per caso e nel mio periodo dopo anni e dal 2004 cominciò a far visite regolari a casa mia. Sensational fu effettivamente la persona che ascoltò le mie primissime produzioni (o prove) ed in assoluto il mio primo sostenitore. Le nostre sessioni settimanali finirono però quando conobbe la donna che poi sposò pochi anni fa trasferendosi nel New Jersey. Vedersi perciò era diventato difficile. Siamo rimasti molto amici ma non ho sinceramente una collaborazione attiva, le cose in uscita risalgono a parecchi anni fa. Lo sento regolarmente e devo convincerlo a venirmi a trovare al più presto. Alla Wordsound poi ho lavorato come aiutante part time. Nel ‘99 sono stato anche uno stagista alla Studio Distribution, casa distributrice di etichette indipendenti di musica elettronica aperta dalla !K7 Records di Berlino. Ho passato quei pochi mesi a riempire buste con promo CD e vinili di etichette come Good Looking, Talkin’ Loud, BBE, Compost, Soma, Glasgow Underground. Era lo stesso periodo in cui uscirono “Bodily Functions” Matthew Herbert, “Appetite for Destruction” Funkstörung (ci misi un po’ ad apprezzare il loro stile), “Two Pages” 4Hero. Questo prima che la distribuzione si trasferisse in un grande spazio al Chelsea Market Complex che però durò solo pochi anni. Chiuse a metà 2000 (vedi storia della fine di Studio Distribution a NY). Per quanto riguarda poi la mia cultura dance underground ancora prima di comprare dischi ho avuto un periodo inizio ‘90 dove andavo a sentire DJs storici dell’epoca come Ricky Montanari, Flavio Vecchi, Ralf nei vari locali Italiani, dal Matis al Kinki a Bologna ai vari after-hours nelle province Venete (due a caso che ricordo erano il Gatto e la Volpe tra Rovigo e Ferrara mi pare ed il Magic Bus) e parecchi fine settimana passati tra il Gilda a Jesolo o il Club dei Nove Nove vicino a Riccione. All’epoca Tony Humphries era quasi un idolo e ricordo appena arrivato a New York andai al Sound Factory Bar (di proprietà di chi aveva l’originale Sound Factory sulla W. 27th St.) serata “Underground Network” di Barbara Tucker, di mercoledì sera con MAW resident djs e Tony Humphries nel basement. Volevo assolutamente comprare una cassetta da Tony e convinsi il suo assistente a vendermi quella che avevano appena registrato alla radio. Ricordo che il socio di Tony mi portò alla macchina parcheggiata per recuperare la cassetta e mi chiese 30$. In più sono stato totalmente deluso dal mix che si rivelò pieno di “commercialate”. Infatti, recentemente ho sentito la lecture di Tony in cui disse che arrivati i primi ‘90 con la sua popolarità e il lavoro in radio cominciò a suonare parecchi dischi “commerciali” nei suoi set. Io non ho nulla in contrario con il commerciale però se mi piace mi piace, poi quel che è commerciale dipende dall’epoca che s’intende.
Stili differenti hanno avuto la meglio nel tuo approccio alla produzione così come nel djing: in generale cosa pensi delle contaminazioni?
La musica che propongo, si rispecchia totalmente in quella che produco. Le contaminazioni sono essenziali, a chi piace la musica veramente piace musica di vari generi e sottogeneri. Se ho la fortuna di andare fuori a suonare, cerco di mettere più me stesso dentro con la convenzione per la quale se piace a te, piace anche a qualcun altro. Per quanto riguarda il mio djing, consiste nell’avere una certa estetica, parametri referenziali, rendere le cose che mi piacciono nel modo più interessante possibile. Ultimamente ho capito che la ragione per cui nelle mie produzioni cerco uno stile non così convenzionale deriva dal fatto che i migliaia di vinili trovati in tutti questi anni a rovistare tra le casse del latte sono per la maggior parte di generi classici, dal jazz alla techno ma con estetiche e stili di produzione ben definiti sia dalle ere in cui uscirono, sia da tipi di macchine, strumenti e stili preferiti nelle epoche da cui vengono. Uguale per sonorità, commerciali o di nicchia che fossero. Questo mi porta ad esser meno propenso e cercare di emulare troppo quei generi, consapevole che sarebbe difficile, impossibile forse assurdo, ricrearli non avendo gli stessi strumenti. Non voglio sentirmi costretto a cercare di ricreare certi stili solo perché mi piace comprare, ascoltare e suonare certi dischi. Questo l’ho solo capito molti anni dopo e se pensassi di avere la capacità di scrivere cose più commerciali, lo farei. Mi piace l’idea di separare nettamente le attività da appassionato di dischi da quello della produzione. Generalmente nel djing (poi dipende in che tipo di evento) vorrei trasmettere energie incalzanti e, se necessario, festaiole ma senza essere mai troppo scontato (che è relativo, quel che è scontato per me può esser oscuro per un altro e viceversa), introducendo nuovi nomi, oppure vecchi nomi dimenticati o sottovalutati. Quando invece mi trovo a fare set fuori da ambiti dance/club mi piace sicuramente spaziare. Ma per me un dj set ideale è un set che fa divertire gente di qualsiasi età, dai bambi alle nonne. Tutto dipende da chi ascolta, dunque è difficile prevedere come venga percepito un set ma se i più piccoli e i più grandi lo apprezzano secondo me è un buon segno. Un conto è fare il selector, che mette i dischi preferiti e può succedere in occasioni fuori dai club, un altro il dj che cerca di far ballare. In entrambi i casi però il pubblico è la variante più’ importante.
L’importanza dei vocals nelle tue tracce, basta pensare a pezzi come “Il Capolinea”, “There’s Gotta Be A Way”, “Made off”, “Untitled A”, “Miss Terry Flavour”, “We Doubt”. Colgo l’occasione per chiederti, che rapporto hai con la vocalità?
Se vai a vedere varie tracce di stili più o meno riconoscibili, c’è una familiarità con certi tipi di suoni essenziali per scrivere un brano. Cassa, snare, etc. tutti suoni che arrivano da strumenti ormai considerati classici della musica elettronica. Lo stesso vale per batterie, campionatori, sintetizzatori che ovviamente non devi neanche avere più fisicamente per quanto ci sia chi le usa tuttora e ci giura sopra. I suoni di queste macchine sono diventati molto familiari per gran parte degli appassionati ovunque nel mondo. Quella familiarità è esattamente ciò che vorrei evitare. Oggi è talmente facile fare musica che penso sia necessario, in un modo o in altro, cercare di essere originali, dato che è un dono naturale di ogni esser umano. Ma siamo tutti influenzati, condizionati e ignoranti in questo o in quell’altro campo ed è interessante riconoscerlo per poi cercare metodi o stili più personali. Siamo tutti uguali in molti sensi ma quello che ci rende allo stesso tempo diversi è la somma delle nostre esperienze di vita, modi di vedere, pensare che ci rendono tutti persone autentiche. Quell’amalgamarsi di esperienze, conoscenze e attitudini ci permette di essere fortunatamente tutti un po’ diversi e ci da l’opportunità di esprimersi a modo nostro, considerando anche i vari periodi di sviluppo del percorso di qualsiasi persona. Tutto questo discorso per dire che la voce è un altro suono che può esser usato in mille modi e per me è cominciato per caso trovandomi alla ricerca di un campione con una voce da usare per una produzione che diventò “Sheepdipping”. Non riuscendo a trovare la voce che mi piaceva mi misi a vocalizzare con quello che mi passava per la testa. Ma l’obiettivo per me ottimale è spesso quello di confondere cercando di mantenere sempre una certa presa di impatto.
Il titolo “Science-Fiction” (Soundtracks For No Film Vol.1 su Acido records) è un richiamo cinematografico voluto?
Era “Friction non ”Fiction”. Errore di chi inserì dati nel web. Più’ bravi a macinare contenuto ma non tanto nella verifica. Dunque frizione, non finzione. Un gioco di parole con tipico doppio (o triplo) significato che non deve necessariamente capire nessuno tranne me. Nella scienza come in altre sfere c’è sempre un continuo conflitto tra due o più modi di vederla che si battono per una loro legittimazione o per la delegittimazione di altri modi. Scienza e religione sono i due campi che da più tempo hanno avuto queste continue “frizioni” millenarie. Infatti, il genere fantascientifico è quello che preferisco di meno. In un periodo della mia vita però era diventata un’abitudine ritirare dvd alla biblioteca di quartiere con una collana conosciuta come “The Criterion Collection”, edizioni di film importanti ripubblicate con un dvd extra, con il commentario, (apparentemente inventato da loro). Un nuovo modo di vedere ed apprezzare film di valore aggiungendo la traccia in cui parlano delle persone che analizzano il film scena per scena dandoti aneddoti e retroscena interessanti. Sono molto ignorante in materia di cinema ma quella serie di film mi ha arricchito molto vedendoli e rivendendoli da adulto. Poi ho capito che c’era anche il fatto di vederli in lingua originale che effettivamente è un po’ come vederli per la prima volta. Un maestro dell’epoca d’oro Hollywoodiana che dovrebbe essere visto è sicuramente il siciliano naturalizzato americano Frank Capra, il quale creò fantastici lavori come “Orizzonte Perduto” per citarne uno su tutti.
Come sei entrato in contatto con i produttori del circuito finlandese, legati all’austera etichetta Sähkö Recordings, dove hai pubblicato il tuo secondo album “Noi No” (2012) inserito tra i cento album migliori dell’ultima decade da FACT Magazine?
Si avvicinarono loro come tutti gli altri, pochi mesi dopo l’uscita su Workshop #11 (e #117) con “UntitledB1”. Quel pezzo li convinse a volermi scritturare per un album. A capo dell’etichetta c’è Tommi Grönlund, artista concettuale con una carriera abbastanza lunga e riconosciuta (fu scelto come curatore del padiglione Scandinavia alla Biennale del 2001) e a parte esserne l’A&R, cura tutte le grafiche per l’etichetta. Mika Vainio da quel che so, fu certamente il principale catalizzatore che convinse Tommi a fondare l’etichetta ma non penso avesse mai avuto una posizione ufficiale nella label. Rimane comunque l’etichetta dove ha pubblicato di più.
Hai collaborato con artisti tra gli esponenti più in vista di un sound ibrido tra cui Dj Sotofett, boss di Sex Tags Mania e Wania. Prima mi hai accennato all’uscita di un terzo LP su una di queste piattaforme?
Sì, ma sono pezzi relativamente vecchi, mi piace molto il lavoro di selezione fatto da Sotofett ed anche questi piccoli skits, intros e outros prodotti usando altro mio materiale inedito rende l’ascolto simile a una mixtape. Tracce sempre un po’ cupe ed astratte ma già forse più tradizionaliste rispetto alle produzioni più recenti. Le cose sono migliori quando sono accese in testa. Sono quasi perfette. Dopo, quando le sento già finite, si rompe la magia. Il finito è comunque sempre relativo. Non c’è nulla di finito ma, quel che aiuta a sentirle come tali, è l’eventuale selezione e pubblicazione dei pezzi. Solo così si può voltare pagina e cominciare a pensare ad altro.
Un’ultima curiosità da psicanalista: “No Hay Nada Nuevo En El Futuro” (“Non c’è niente di nuovo nel futuro”), una visione che pecca di ottimismo. È davvero così la tua prospettiva?
Nella media. Più specificamente parlando di musica, riguardava un commento generale sullo stato in cui non c’è nulla di nuovo, soprattutto quando cominci ad aver migliaia di dischi di qualsiasi genere che riempiono l’appartamento. Nel frattempo arrivi a quarant’anni e ti rendi conto che questi cicli che si ripetono nella storia sono un po’ veri, e nella musica è lo stesso, ma secondo me la differenza sta sempre nelle anomalie, per quanto la storia si ripeta ci sono altri tipi di flessioni, velocità di cambiamenti, cioè come arrivano, si sviluppano e quanto ci mettono ad aver presa. Periodi con accelerazioni che portano allo sviluppo di nuove idee e stili ed altri momenti storici con lunghi periodi di stasi. La prova sta nel fatto che dopo trent’anni o più dipendendo da dove partiamo, la musica che ascoltiamo tutti ha radici che s’incrociano e a parte sub-generi che conosciamo, tutti apprezziamo questo e quello, dal jazz al rock, i maggiori generi del ventesimo secolo sono quelli non si scappa.
Per finire una domanda stupida. Ascoltando il tuo podcast, “$TREET PROMOS n°3” non ho potuto fare a meno di notare la traccia che parte dopo il loop vocale.
“Rum Trip Up” di Mr. G sull’etichetta Don’t Be Afraid. Su quest’ultima sta uscendo anche un mio remix da 10 inch.
[Photo by Jammi York Photography]