Che gioia! In un mondo costantemente in divenire come quello del clubbing, dove – a dirla tutta – le mutazioni “al ribasso” spesso e volentieri hanno surclassato le rispettive controparti, negli ultimi tempi siamo stati fortunati testimoni di un grande cambio di registro per quanto concerne i set extra-lunghi e gli “all night long” sul cartellone. Esibizioni dove un artista avrà occasione di prendere figurativamente per mano il dancefloor, dal primo all’ultimo disco, in un viaggio a trecentosessanta gradi tra i meandri del proprio bagaglio emozionale e musicale. Tantissimi artisti di caratura mondiale (tra i primi che saltano in mente Skream, Dixon e DJ Harvey) hanno recentemente schedulato dei tour interi per promuovere questo tipo di concept ed ormai anche i grandi festival (notoriamente terreno non particolarmente fertile per questo tipo di scelta artistica) hanno deciso di approntare degli spazi appositamente dedicati all’ascolto approfondito di uno o più dj. Permettendo così di rendere l’esperienza globale ancora più ricca, traslando un po’ di quella cultura tipicamente club-oriented che richiede, senza dubbio alcuno, una maggiore concentrazione da parte dell’audience. Ma garantisce (nella maggior parte dei casi) un risultato indubbiamente redditizio in termini di appagamento. Da ambo i lati della consolle.
Insomma: un boost di cultura musicale per tutti, frivolezza da festival ridotta, artisti con slot extra-lunghi ed in grado di esprimere il proprio talento in totale libertà. Tutto bellissimo, no?
Sì. Certo che sì. Però qual è il limite?
Non mi chiedete perché (forse avere un coinquilino pizzaiolo avrà influito, forse banalmente perché ho fame molto spesso) ma la maniera più proficua per analizzare il fenomeno dell’extended set a cui la mia mente ha fatto immediato riferimento è stata quella della pizza: in fin dei conti un cuoco non fa un mestiere poi tanto diverso da quello del dj: prende ingredienti e sapori già singolarmente validi e li miscela in un processo al termine del quale la somma degli stessi andrà a comporre un’alchimia nuova in grado di sorprendere positivamente il gusto di chi andrà a fruirne. Ora, indubbiamente la pizza è un piatto dall’iter preparatorio piuttosto semplice, ma con una caratteristica fondamentale: l’impasto. Ciascun pizzaiolo giura di avere la propria “formula segreta” ed un modo soggettivo di stenderlo una volta pronto. Così come alla stessa maniera i clienti hanno gusti diversi in merito a spessore, croccantezza, altezza del bordo, sapidità e via discorrendo che gli fanno preferire un ristorante rispetto ad un altro.
Nell’immaginario collettivo un dj set inferiore alle due ore (neanche commentiamo i set da meno di sessanta minuti apparsi in qualche festival negli anni) risulterebbe – nè più nè meno – come mangiare una pallina di impasto condita e cotta direttamente senza neanche essere stesa. Ci sono buone probabilità che il sapore sia in qualche modo accettabile, ma non farete neanche in tempo ad iniziare a goderne che sarete già belli che rimasti col piatto vuoto. Senza contare che molto probabilmente avrete la sensazione di aver ingoiato un panettone di cemento armato. Anche no, dai.
L’altro estremo è invece non capire quando, in nome dell’abbondanza, una pallina è stata stesa troppo. Col risultato di avere sì una pizza enorme nel piatto. Che però, seppure il sapore sia potenzialmente sempre lo stesso dalla prima all’ultima fetta, correrà il forte rischio di raffreddarsi col passare del tempo ed avrà – a conti fatti – uno spessore visibilmente risicato, andando a conti fatti a dilatare ed “allungare” un qualcosa ben oltre lo scopo della sua preparazione. Questo per dire che le uniche apparizioni live che dovrebbero durare più di dodici ore filate sono la Le Mans ed i Telethon con Columbro e la Cuccarini (o al massimo quello di DJ EZ) che se non altro avevano ed hanno intenzioni ben più nobili.
In entrambe le casistiche presentate, ovviamente, ci potranno essere persone che accettano senza troppi problemi le regole del gioco (del resto siamo sempre più circondati da “all you can eat” e giropizza) ma questo rientra sempre nell’ambito del sacrosanto gusto personale. E se siete felici voi, chi siamo noi per dirvi che state sbagliando?
Quindi, appurato quali sono il bianco ed il nero, direi che è il caso di farci largo fra la miriade di sfumature di grigio. E per quanto sia, per chi scrive, un peccato quasi mortale dire qualcosa di negativo su un monumento alla professione del dj come Laurent Garnier, non discutere del suo set di sette ore allo scorso Sónar perché è “uno dei nostri” sarebbe quanto meno ipocrita. Molti amici hanno dedicato al francese un’intera serata dove, tra gli altri palchi, in scaletta c’era gente come Fatboy Slim, Jackmaster, Kaytranada, Stormzy. Insomma, neanche gli ultimi degli stronzi, per rubare le liriche ad Elio. Personalmente eravamo curiosissimi di capire come avrebbe impostato musicalmente la sua selezione (essendo in grado di spaziare fra sonorità di sinestetica provenienza di cui la serie di podcast “It is what it is” aveva dato ulteriore conferma) e quindi abbiamo fatto spesso capolino nella sala a lui dedicata nel corso della notte, per capire che aria tirava, andando poi a stazionarci a tempo pieno per le due ore conclusive.
Capiamoci, lui è stato (come sempre) bravissimo a tenere la pista e ci siamo goduti dal primo all’ultimo disco che abbiamo sentito, ma diciamo un’incommensurabile amenità affermando che Garnier ha suonato sette ore senza scostarsi di una virgola dallo stesso suono che non si fatica a sentirgli proporre per tre-quattro-cinque ore in ogni club in cui vi capiti di incontrarlo? Il fatto che invece di quattro ore ci fosse scritto sette, senza nessun tipo di modifica al percorso musicale che le rendesse necessarie, risulta essere un fattore così determinante da rendere di per sé speciale questo set rispetto ad una qualunque fra le sue altre esibizioni in chiusura alla luce del sole catalano degli anni precedenti? Riprendendo il preambolo culinario iniziale, una pizza più grande (anche se buona) è a prescindere, per forza di cose, un prodotto migliore? O, alla lunga, rischia di perdere la presa su chi la consuma?
Un’altra grande tradizione della scena festival internazionale ha visto (e vede) un’icona come il canadese Richie Hawtin chiudere, anno dopo anno, una delle sale principali del Time Warp di Mannheim con un set della durata di circa sei ore. Avendo potuto essere testimoni diretti in più di un’occasione negli ultimi dieci anni, possiamo garantire che questa (amatissima e seguitissima) ricorrenza ha saputo regalare grandissime emozioni in alcuni casi come altrettanto dimenticabili mattinate in altri.
Perché essere un grande artista non sempre può essere un requisito sufficiente a garantire un plebiscito a scatola chiusa. Specialmente su un terreno non semplicissimo come quello di un extended set, a metà mattina, di fronte a tanta gente stremata da tante ore di festa e con moltissime aspettative sulle proprie spalle.
Proporre il proprio suono caratteristico, in maniera omogenea, per ore ed ore, non sempre rappresenta un elisir di lunga vita. Anzi, il valore aggiunto di questa espansione temporale dovrebbe invece essere la possibilità di esplorare i confini del proprio suono fino all’estremo e svelare una parte di se che difficilmente potrebbe trasparire in un normale set da 90-120 minuti dove la sostanza e la reazione immediata da parte del pubblico avrebbero sempre e comunque la precedenza su tali fattori.
Motivo per cui la scena club, principale artefice di questo fenomeno, vanta tra coloro che hanno settato un trend fondamentale riguardo questo tema venue rinomate come il Berghain, club abituato da sempre a concedere set extra-lunghi ai suoi ospiti, con una media di quattro ore ciascuno. Ed in particolare lo slot di chiusura della domenica sera, spesso capace di protrarsi fino al mattino inoltrato del giorno seguente di fronte a molti, estasiati ed esausti, commensali, ricopre un ruolo quasi istituzionale. Ed avere l’onore di vederselo assegnare risulta essere un notevole valore aggiunto nella carriera di un artista. Ricordiamo bene le parole entusiaste di artisti come DVS1 e Apollonia a riguardo. Così come quelle di un visibilmente emozionato Freddy K, durante la sua intervista sulle nostre pagine, dove raccontava proprio della sua maratona in chiusura al Berghain come “...emozioni forti, fortissime, che sento ancora vive. Vedere tutte quelle persone rimanere a ballare la mia musica fino all’ultima nota, vederli chiedere ai ragazzi dello staff di farmi ricominciare a suonare una volta finito. Convincerli, suonare un’altra ora e con le luci accese, vedere i sorrisi sul volto di tutti, brividi, e lacrime a ripensarci…E poi tutti quanti ad aspettarmi fuori, fino alle 13.00 di lunedì più o meno, per salutarmi ed abbracciarmi, per congratularsi… E’ stata forse la notte più bella della mia vita. […] Ci credi che ho pianto per una settimana dopo quella serata?“. In questo caso, un set molto molto lungo da parte di un artista dalla grande esperienza, in combinato con un club dall’atmosfera e dal soundsystem sicuramente ideali, ha saputo spaziare, emozionare, carpire l’essenza del club e garantire grande presa senza rischiare di perdere di pathos nel corso del suo divenire. Sia per chi lo ha concepito tanto quanto che per chi ne ha goduto i frutti. E non pensate che sia sempre così al Berghain: non è insolito leggere di artisti gravemente criticati proprio per la scarsa capacità di fare breccia, per un tempo così lungo, nel cuore di un pubblico profondamente esigente come quello del club di Friedrichshain.
Rimane però, a questo punto, un solo interrogativo: quanto a lungo dovrebbe svilupparsi un dj set per permettere ad un artista di sviscerare al meglio il percorso musicale che ha in mente? La risposta, dopo aver elucubrato a lungo, è che semplicemente non esiste una risposta empirica o una che possa accontentare grandi e piccini. Ma che – senza dubbio – ci saranno sempre dei limiti e dei canoni oltre i quali sarebbe preferibile non indugiare in modo tale da rimanere all’interno della sfera del ragionevole. Tentare di avventurarsi in un “fuori pista” sarà sì possibile, ma richiederà quanto meno doti artistiche di un certo livello ed una dovuta preparazione per poter ottenere un risultato che possa strappare applausi e non sbadigli. Nella speranza che questo fenomeno rimanga, sempre e comunque, un modo per creare qualcosa di inedito e bellissimo. Qualcosa che possa farci amare e conoscere la nostra musica ancor più che prima.