Se fino a qualche tempo fa per descrivere Manifesto si evocava un connubio di ritualità percussiva e modernariato elettronico, ovvero, per usare uno slogan, “il festival dove la tradizione incontra la contemporaneità”, con la terza edizione appena conclusa – presso il Monk di Roma venerdì 23 e sabato 24 marzo scorsi – possiamo affermare che qualcosa è cambiato.
Avere un’identità riconoscibile è sicuramente un fattore positivo e molti festival, italiani e non, hanno definito con il passare degli anni un alveo di sonorità che si intende indagare, possibilmente sempre di più e sempre meglio, fungendo da cartina tornasole della “propria” scena di riferimento. Tuttavia, se l’intenzione è quella di fotografare il qui&ora musicale, decidere a priori di circoscrivere il proprio punto di osservazione potrebbe essere limitante e si rischierebbe, di conseguenza, di ripetere una formula buona sì per il breve periodo, ma che sulla lunga distanza renderebbe il tutto una caricatura di se stessi, o giù di lì.
Sarà stato questo pensiero, forse, a balenare nella mente degli organizzatori di Manifesto 2018. Infatti, se la prima edizione era stata una vetrina di eccellenze italiane che correva sul filo di un’elettronica contaminata con musiche etno-centriche e quella del 2017 una festa internazionale che ha visto all’opera produttori provenienti da America, Argentina, Francia, Italia e Perù all’insegna di una libertà ritmica estrema, quella di quest’anno è stata un’edizione che ha indagato il presente, senza per forza dover mettere tutti i produttori in cartellone sotto uno stesso ombrello stilistico.
In tal senso, la giornata del venerdì è stata la vera novità a livello di contenuti, allargando a produttori che non ci si immaginava in una cornice come Manifesto. Ad aprire le danze, invero in modo un po’ tiepido, c’è stato Rhò – Rocco Centrella all’anagrafe – che ha presentato il suo nuovo disco “Neon Desert” accompagnato da Stefano Milella alla batteria/percussioni. Le loro atmosfere elettroniche a tinte scure, rischiarate da un cantato in falsetto o sovente dal suono del flauto, non sono però riuscite a fare breccia su di noi, anche a causa dell’esiguo pubblico presente sino a quel momento in sala.
Le cose cambiano con l’arrivo di Alessandro Cortini. La sua esibizione, che rimarrà una delle migliori della due giorni (così come questa intervista è una delle cose più interessanti da noi pubblicate negli ultimi tempi), è ad alto tasso emotivo: la musica ambientale dell’album “Avanti” è eseguita integralmente, con i suoi campioni/spezzoni di registrazioni casalinghe accompagnate da una controparte visiva presa direttamente dai filmini della sua infanzia. La sua console è defilata e il vero protagonista è il grande telo su cui vengono proiettate queste immagini, che sono anche le nostre, con quei colori vividi e i contorni leggermente sgranati che parrebbero provenire direttamente dai nostri ricordi più intimi.
(Lo show di Alessandro Cortini; continua sotto)
E’ il turno di Indian Wells che ha un compito difficile ovvero spostare l’attenzione sul ritmo, ma ci riesce bene: il live-set cita il suo presente – l’ottimo ultimo album “Where The World Ends” – e passato, anche se i migliori momenti sono proprio quelli in cui propone i pezzi più recenti – tra tutti Cascades; The Alps – che il pubblico riconosce subito, restituendo sorrisi e una gran calca davanti alla sua postazione.
Nemmeno il tempo di tirare il fiato – impeccabile la logistica del Monk dove gli artisti si sono alternati tra palco grosso e piccolo, posti l’uno di fronte all’altro, per tempi di attesa praticamente inesistenti – che arriva il turno di Nosaj Thing. La musica del produttore statunitense si irrobustisce in maniera inaspettata dal vivo e gli elementi hip-hop/break beat sono posti in primo piano rispetto alla grana melodica/ambientale. A rendere l’esibizione ancora più movimentata, c’è un fascio laser che inonda la sala di colori e forme geometriche ad assecondare il beat. Uno show impeccabile, dove i momenti migliori provengono dai suoi ultimi due album “Fated” del 2015 e Parallels” del 2017.
A chiudere il primo giorno c’è Bruno Belissimo con la sua carica da balera anni ‘80 – elettronica sguaiata e assoli al basso – per un set divertente ma che alla lunga mostra un po’ il fianco dal punto di vista della varietà sonora. Ci accontentiamo, comunque, e torniamo a casa soddisfatti.
Il secondo giorno si apre con il set di Montoya, che sarà un altro dei protagonisti di Manifesto, nonostante l’orario dell’esibizione. Il giovane produttore italo-colombiano alterna il suono del violino – opportunamente effettato – a quello di un’elettronica, dove il ritmo disegna scenari a metà tra foresta nera e club berlinese. In poco meno di un’ora viene presentato il suo nuovo lavoro di prossima uscita, successore dell’ottimo “Iwa”; lo show inizia con poche persone davanti al piccolo palco e si conclude con più di metà sala ad applaudire un talento cristallino. Non vediamo l’ora di ascoltare il suo nuovo materiale registrato.
(Montoya in azione; continua sotto)
Nel giro di pochi minuti sale sul palco grande Go Dugong, l’altra grande sorpresa della giornata. Giulio Fonseca, questo il suo nome all’anagrafe, si presenta in una inedita versione a tre elementi, con batteria e basso che si vanno ad aggiungere alle macchine – tutti indossano maschere da sciamani con le corna, che manterranno per tutta la durata dell’esibizione. Il ritmo la fa da padrone e i pezzi dell’ultimo, recentissimo, album “Curaro”, evocano scenari ipnotici, tra danze scatenate e sudore da entrambe le parti del palco. E’ tutto così perfetto che si stenta a pensare che si tratti solo della primissima esibizione pubblica della formazione così composta.
Ora il calendario prevede l’arrivo di Omar Souleyman e infatti vengono posizionati sul palco i due tastieroni bianchi che si intravedono in tutti i suoi video e, nel giro di qualche minuto, spunta la sua fidata spalla in musica, che inizia a suonare melodie mediorientali con cassa in quattro. Quando entra Souleyman, il pubblico è in delirio e per tutto il tempo della sua esibizione le basi continueranno a spingere mentre lui canterà sempre allo stesso modo, con la stessa intonazione, battendo le mani nelle parti strumentali. Questo è quanto, eppure il personaggio è così magnetico da coinvolgere tutti, tra salti, grida e ovazioni. Crediamo che ci sia qualcosa di misterioso per cui il pubblico continua ad adorare una proposta così basica; sarà l’effetto di due mondi che si incontrano, probabilmente.
Il ritmo non si ferma con l’arrivo dei Ninos Du Brasil: le basi del loro ultimo album “Vida Eterna” vengono controllate da una postazione dietro le spalle dei due responsabili del progetto, che suonano le percussioni davanti ad un pubblico oramai in modalità carnevale brasiliano. Ci saremmo aspettati più varietà sonora da questo set, considerata anche la buonissima fattura del loro ultimo disco, ma il set è comunque convincente e ci restituisce un duo più in forma che mai.
La chiusura è penalizzata dal pubblico che, esausto, va a fumarsi una sigaretta o torna a casa, ma la pietanza è comunque sapida in mano a Valerio Delphi (la metà dei Tiger & Woods) per un set deep house che ci ha convinti.
Una nota finale la riserviamo all’impianto del Monk, che è sempre stato all’altezza di ogni situazione, in entrambi i palchi, con bassi potenti e alti forti e chiari. Insomma: all’anno prossimo, Manifesto. L’impressione è che stai proseguendo per una strada che merita di essere seguita.
(Foto di Francesco Maria Casarin)