Ci sono festival dove si respira un’aria diversa. Perché ok, si può andare ad una rassegna musicale per ballare buona musica, per assistere all’esibizione di quel nome che finora era sfuggito ai propri radar, perché la location è suggestiva; oppure ancora perché si ha voglia di passare una serata con gli amici lasciandosi alle spalle una dura settimana di lavoro. Tutti motivi che comprendiamo, anzi rispettiamo, ma in alcuni casi c’è di più, e non contano i nomi in cartellone, gli spazi scelti dagli organizzatori né lo stato del momento, bensì la voglia di esserci perché il festival in questione trasmette fiducia, ci si fida del suo nome, si è certi di trovare il giusto mix di conosciuto e di sorprendente, insomma si è stimolati ad essere esattamente lì, sotto al palco. Manifesto è sicuramente una di queste realtà.
Il che non è scontato, non lo è per lo scenario italiano ma vale anche in senso lato, perché quest’anno Manifesto, peraltro “sold out” per la prima volta, è giunto al quarto anno di vita (sembrano molti di più, vero?) ed avere già una credibilità del genere, in un lasso di tempo che si conta su una mano sola, vuol dire aver lavorato bene fin dal principio e pure di aver consolidato, edizione dopo edizione, quel legame speciale che si crea con il pubblico quando sul piatto c’è sia la testa che il cuore.
E quindi eccoci all’edizione 2019, che ha “esploso” il festival nel tempo e lo spazio, portando a tre giorni i consueti due, ed allargando il ventaglio dei luoghi: non più esclusivamente il club romano Monk ma anche due cornici assai particolari per fascino e storia: il Contemporary Cluster, solitamente adibito a galleria d’arte e localizzato all’intero del Palazzo Cavallerini Lazzaroni e poi l’Accademia d’Ungheria, sita nello storico Palazzo Falconieri. L’assunto musicale rimane lo stesso a cui si è abituati: saldamente ancorato – e meno male – alla contemporaneità, in cui confluiscono afflati musicali che rimandano al ritmo (elettronico o suonato con strumenti a corda/fiato/percussione) per una resa finale potata ora alla danza ed ora alla meditazione.
La prima giornata, quella del giovedì (del tutto gratuita), si è svolta nel Contemporary Cluster, tra spazi espositivi – la suggestiva installazione “Intergactic” che ha trasformato il piano superiore della struttura in un universo pieno di riferimenti sia al reale che alla fantascienza cinematografica, immergendo lo spettatore in una enorme opera d’arte – performance di teatro sonorizzate dal vivo, e naturalmente la musica. Ad allettare il pubblico c’era difatti Populous, che si è speso in un dj set di morbida house venata talvolta da ritmi sudamericani; peccato solo per le luci accese e i volumi molto bassi concessi in questo spazio, che hanno reso meno efficace la sua pur buona selezione.
Il venerdì si arriva al Monk alle dieci di sera in punto per M a n a (il piemontese Daniele Mana, già Vaghe Stelle), che ha l’onore/onere di aprire la rassegna vera e propria. Abbiamo molta curiosità per l’esecuzione di pezzi tratti dal suo primo disco lungo su Hyperdub Records, in uscita il prossimo 5 aprile, ma a colpo d’occhio ci accorgiamo che non tutti sono dello stesso avviso; questo sarà un problema anche nel giorno a seguire: il pubblico, nonostante abbia già acquistato l’abbonamento – ricordiamo che l’edizione 2019 ha registrato il tutto esaurito – si presenta tardi e alla spicciolata, diventando veramente cospicuo solo alla mezzanotte o giù di lì. Meno male che Daniele Mana è un talento autentico e già con pochi beat riunisce tutti i presenti sotto il palco, richiamando anche quelli rimasti a bere qualcosa nel cortile esterno. La sua elettronica alterna ritmi spigolosi ad aperture che dapprima ricordano certa witch house – sensazione ricercata anche attraverso la controparte visiva che prende spunto dalla cabala – per poi sublimare nella parte centrale in un’incessante ed estatica cascata di micro-suoni e clangori dissonanti, come se alle spalle del musicista vi fosse un’intera orchestra ad utilizzare, anziché i legni, pezzi di vetro e di metallo. Se queste sono le premesse, non vediamo l’ora di mettere l’orecchio sul prossimo lavoro.
(Daniele Mana in azione; continua sotto)
Segue la coppia di maestri dell’ambient-drone, William Basinski e Lawrence English, intenti a riprodurre dal vivo il loro ultimo lavoro, il primo come duo, il cui titolo “Selva Oscura” è un chiaro riferimento al celebre non-luogo dantesco. Appena abbracciata la platea, invitano tutti a sedersi a terra, perché dicono “…questo è un lavoro che va fruito così”. Le aspettative sono naturalmente alte, ma purtroppo verranno disattese (sarà l’unica esibizione non a fuoco della rassegna), in quanto le micro-variazioni architettate dal duo non sono praticamente udibili – non comprendiamo se il problema risieda dell’acustica del luogo o nel settaggio delle macchine. Quindi “il viaggio” auspicato è perlopiù monocorde e movimentato più dall’immaginazione che dal suono vero e proprio.
L’atmosfera riprende colore, con sano intento danzereccio, all’arrivo dell’inglese El Búho, che regala alla platea un’ora di folk/downtempo di stampo latinoamericano, misto a ritmi ambientali da giungla, sapientemente riprodotti-campionati (chi può dirlo, ma a contare è la resa sonora). L’esperienza risulta ottima; e nel frattempo il Monk è stracolmo.
È il turno di Jolly Mare, che presenta per la prima volta dal vivo il suo ultimo disco “Logica Natura”. Il musicista leccese ha davanti a sé una grandissima varietà di macchine, dalle quali tira fuori i beat che sostengono ogni pezzo, mentre dall’altro lato del palco c’è un batterista, incredibile, che intesse strati su strati di percussioni. Una selva oscura – questa volta per davvero – di groove che arriva all’orecchio come fosse squadrato, dalla precisione matematica. Non è stato un set facile – lo stesso autore avverte subito prima di iniziare che non ci sarà alcun remix da Tullio De Piscopo – ma va benissimo così, per coraggio dimostrato e per riuscita!
Sono le due di notte e sul palco sale l’ultimo musicista del venerdì: Capibara, figura esile davanti a un mega schermo sul quale verrà proiettata la splendida controparte visuale del suo ultimo disco in studio “Omnia”. Dal vivo il suo tocco post-moderno ad accostare senza soluzione di continuità elettronica in alta definizione e glitch, intessiture ambientali e grime, sonorità post-club e campionamenti vecchia scuola, è quanto mai efficace e scaraventa la platea in un ipotetico club del futuro, dove tutto è sgraziato, dove tutto è armonioso. Per chi scrive è una delle esibizioni migliori di Manifesto 2019.
Il sabato del festival è inizio già nelle ore pomeridiane presso l’Accademia d’Ungheria. Dopo un talk organizzato da Soundreef, che tra le altre cose ci ha visti partecipi attivamente in una discussione sul tema “musica e innovazione”, c’è stata l’esibizione del padrone di casa, l’ungherese Gábor Lázár. Questo giovane talento, che ha già ricevuto apprezzamenti da uno che si chiama Aphex Twin, ha dimostrato dal vivo, al di là di qualsivoglia hype, di avere un’idea chiara di elettronica d’avanguardia, che oltretutto colpisce nel segno: complice una scalinata ottocentesca allestita all’uopo con luci, laser e macchine del fumo, oltre chiaramente grazie a un impianto all’altezza, ha regalato agli spettatori un’esperienza multisensoriale che, dal punto di vista dell’impatto, ha pochi eguali in tempi recenti (forse giusto l’ultimo Ben Frost).
(Gábor Lázár nella fascinosa cornice dell’Accademia d’Ungheria; continua sotto)
Per la serata conclusiva si torna al Monk e ad aprire c’è il compositore e polistrumentista Fabrizio Somma aka K-Conjog. La sua miscela di ambient, deep house e idm convince per gusto e per varietà di soluzioni, ed anche la controparte visiva – con la sua figura catturata in computer grafica che viene manipolata/destrutturata – risulta interessante. Forse talune strumentali e parti vocali strizzano un po’ troppo l’occhio ad Apparat, ma la prendiamo più come un attestato di stima da parte del nostro che come spuria imitazione.
È il turno di James Holden & The Animal Spirits, ovvero il produttore inglese che per la prima volta a Roma è accompagnato dalla sua band di musicisti che annovera batteria, fiati e percussioni. L’atmosfera è serafica e fin dalle prime note si comprende di star vivendo qualcosa di fuori dal comune: elettronica minimalista e jazz cosmico, armonie scheletriche e colori cangianti. Come un rituale – seppur con qualche intoppo di natura tecnica a metà set che però non ha inficiato sul risultato finale – questo spiritual contemporaneo ha coinvolto a tal punto la platea da spingere la band a due pezzi fuori programma.
Ed ecco quindi la sorpresa dell’edizione 2019, vale a dire la francese Coucou Chloe (che rammentiamo fa parte del collettivo londinese NUXXE composto da Sega Bodega, Shygirl e Oklou). La formula è semplice quanto sconcertante: su violente basi strumentali, cacofoniche e “post-tutto” (che potrebbero essere prodotte parimenti dagli Amnesia Scanner o da SOPHIE), si erge la voce pop hi-tech di Cocou Chloe, distorta e disturbante a declamare frasi esistenzialiste-ma pure incomprensibili. La platea non sa che fare, c’è chi lascia la sala e chi si butta nella danza, con la produttrice che talune volte si spinge col microfono in mezzo al pubblico. Tra le chicche che regala c’è una “Milkshake” di Kelis brutalizzata a tal punto da diventare pura “deconstructed club music”.
Quando sale sul palco Indian Wells, qualcuno grida che era ora, non avendo probabilmente apprezzato il precedente set; poco importa comunque, visto che l’elettronica del calabrese Pietro Iannuzzi – che da pochissimo ha remixato sapientemente il brano “Hope” di Max Cooper – in questo momento della serata è perfetto: avvolge, perfino riscalda l’animo, con la sua elettronica sognante, che pur non lesina di momenti in un cui il beat si raddrizza e non lascia scampo. Gli episodi migliori del suo set sono quelli presi dal suo terzo lavoro in studio, “Where the World Ends”, pietra angolare della sua produzione ad oggi.
La chiusura è affidata al dj set di G-Amp (altri non è che Giampiero Stramaccia, una delle menti dietro al festival Dancity), che illumina ancora più, con buongusto e massicce dosi di disco-funk, il club che inevitabilmente va via via svuotandosi.
Manifesto 2019 è stato tutto questo, un festival dove si è respirata per l’ennesima volta un’aria diversa, quella buona degli eventi importanti, dove ciò che accade prende spunto dalla migliore contemporaneità per arrivare altrove, innescando esattamente quel meccanismo che Jean-Luc Godard sintetizzava per il mondo cinematografico con l’espressione: “Non importa da dove prendi quello che prendi, ma dove lo porti”.
(Foto di Francesco Casarin)