Marco Sartorelli aka Marco Shuttle, il design come insegnamento di uno stile, la musica come espressione di tutta la propria esistenza. Dalla penisola, fino al UK, attraverso un prorompente sviluppo personale, stilistico e conseguentemente musicale, l’evoluzione di un’ idea, voler toccare il suono con mano, interagendo con esso, invitando all’introspezione tramite atmosfere profonde, colorate di psichedelia, disegnate sulla tela dell’elettronica dov’è possibile “dipingere liberamente qualsiasi cosa”. Innata sensibilità al suono, con la quale comprendere la techno, come “un punto di vista” altrui. Venerdì 27 giugno, Marco Shuttle suonerà a Foligno, per la nona edizione del Dancity Festival, in collaborazione con Soundwall per il suo quinto compleanno.
Come si forma Marco Shuttle, qual è stata la tua formazione?
Liceo Classico, un esperimento (fortunatamente) fallito universitario in Giurisprudenza e poi Scienze della Comunicazione, un Master e una carriera tuttora in corso in fashion design. L’espressione musicale è sempre stata una vita parallela (ma forse più importante) che sicuramente ha più o meno consciamente preso una sua forma propria anche grazie a ciò che succedeva in altri ambiti in cui operavo. Soprattutto il design mi ha reso consapevole e in controllo di un estetica di fondo, dell’espressione di un gusto. E per me la musica ha molto a che fare con l’espressione di un gusto, di un’estetica e di una visione della modernità.
Ti consideri una “mente techno”, cosa percepisci dunque dalla tua musica e cosa invece speri riesca a trasmettere al pubblico?
Come dicevo sopra, la musica, soprattutto questa musica è l’espressione di un’idea di bello e di modernità. Quello che cerco di trasmettere sia nelle mie produzioni, sia nei miei dj sets, è una sorta di tensione all’astrazione e allo stesso tempo un invito all’introspezione. Una sorta di dialogo a tre poli tra me e chi ascolta e tra chi ascolta e se stesso… ha a che fare con la condivisione di sensazioni indotte dal suono.
Ti concentri di più sul rincorrere un determinato sound che “potrebbe funzionare” oppure fai riferimento sempre e solo al tuo gusto personale?
Credo che anche chi propone il sound più apertamente mainstream che si possa immaginare non direbbe mai che rincorre un “sound che potrebbe funzionare” quindi la mia risposta è facilmente intuibile. Sinceramente non è un problema che mi pongo.
Ti formi artisticamente a Londra, cosa ti ha donato di più importante quel territorio, a quali influenze eri sottoposto agli inizi e qual è l’essenza ora della corrente musicale anglosassone?
Ciò che più mi ha dato Londra rispetto ad altre città, al di là di quello che offre a livello prettamente musicale, è il relazionarmi con un mix di gente che solo lì puoi trovare… Londra ha un incredibile assembramento di individualità che esprimono senza compromessi e senza paura di essere giudicati ciò che vogliono essere, ha una stratificazione sub-culturale ricchissima e complessa in cui tutti trovano la loro “tribù”. Non credo che il mio sound abbia molto di anglosassone, ma in UK ho incontrato sicuramente delle persone determinanti per far maturare il mio approccio e il mio punto di vista. E’ una città in cui alla musica, a tutta la musica (non solo quella elettronica) viene data un’importanza enorme…è un punto fermo. Un po’ come in Italia con il cibo.
Cosa pensi invece del nostro paese in ambito musicale, in quale città italiana vivresti ora?
Credo che ci sia molto talento e molta qualità in Italia in questo momento soprattutto in ambito di produzioni. Il solito annoso problema è la scarsa considerazione, la superficialità e spesso il disprezzo che viene riservato alla musica elettronica da chi gestisce le politiche culturali che, a differenza di ciò che accade in altri paesi, è ancora anni luce dall’essere considerata una viva e ricca espressione della nostra cultura contemporanea, qualcosa di cui andare fieri come paese e come popolo. La scena romana sia per ciò che offre a livello di serate sia per la community di producers, a mio parere in questo momento è un po’ il polo più ricco e interessante. Credo che in generale in questo momento il sound techno stia vivendo un momento molto felice e Roma sfrutta sicuramente una tradizione che risale molto addietro anche grazie a un gruppo di produttori che fanno ottime cose da molti anni ma che solo negli ultimi 2 – 3 anni sono arrivati ad una vera e propria maturazione e consacrazione internazionale… anche il Veneto comunque non scherza.
Da quali altri luoghi hai tratto importante inspirazione in passato?
Oltre ai miei quasi 10 anni di Londra, ho vissuto a Stoccolma per un paio d’anni ed ho avuto anche una piccola parentesi berlinese, ma per quanto adori la città e quell’alone di utopia e caos che ancora ha, non posso dire che sia stata determinante a livello di ispirazione… molte delle cose più rilevanti che ho fatto sono state concepite in città che non amo particolarmente e in cui anzi mi annoiavo, credo che in certe situazioni di carenza, di pochezza borghese di nulla, un certo tipo di isolamento, di snobismo intellettuale se vogliamo, abbia azionato in me una sorta di pulsione a far sentire la mia voce di più. Ah e sì, come potrei dimenticare Jesolo negli anni ’90 che ha avuto un ruolo fondamentale nel mio avvicinarmi all’house music? Il Veneto in quegli anni (pochi anni purtroppo) era davvero una piazza con una proposta e delle situazioni veramente seminali.
Con “Dontlaughatme” nel 2008 è iniziato come un percorso di crescita per te, portandoti ad un livello di importante visibilità da parte del pubblico, “The Vox Attitude” nel 2011 e successivamente la creazione di “EERIE”, la tua label. Cosa riporteresti oggi nel diario di quel periodo, cosa credi possa essere stato fondamentale per assicurarti il successo ottenuto?
Sicuramente in Dontlaughatme ci sono già gli elementi deep e ipnotici presenti anche nelle produzioni attuali ma credo di essermi evoluto molto sia perché ho acquisito delle skills, sia perché il mio studio si è arricchito sempre di utili giocattolini e anche perché la maturazione ti porta ad un approccio più consapevole di quello che fai. The Vox Attitude è stato il mio maggior successo commerciale (inaspettatissimo per altro), è arrivata in un momento in cui il mio sound si stava ancora formando, ancora oggi dopo anni mi arrivano regolarmente messaggi di apprezzamento e richieste di ristampa o di versioni digitali, non ho avuto la sensazione di avere per le mani quello che avevo, le reazioni entusiastiche che sono seguite dopo l’uscita mi hanno veramente lasciato esterrefatto e felicissimo ovviamente. Personalmente, per quanto sia molto grato a quella traccia mi sento molto più rappresentato dalla B side della release (spaziale). La label è arrivata sicuramente in un momento in cui il mio sound aveva una sua riconoscibilità più marcata e in cui io ero più sicuro di quello che volevo dire per quanto il successo di The Vox Attitude sarà difficile da replicare credo che quello che sto facendo ora abbia una complessità e una qualità maggiore. E ciò che succederà nell’arco dei prossimi 12 mesi costituirà un ulteriore passaggio ad una nuova fase, un nuovo stadio evolutivo.
La tua dub di classe ha senz’altro del deep, porta brillanti pads, bassi acidi e ritmiche oggettivamente coinvolgenti. Che sensazioni e atmosfere concedono le tue composizioni?
Provo a creare quello che io ho cercato e a volte trovato in questo tipo di musica in passato, quando me ne innamorai molto tempo fa, ovvero l’esperienza psichedelica, la condivisione dell’introspezione, il viaggio interiore, l’essere ipnotizzati dal suono. Più che i pads e le basslines credo che siano i riverberi, i delays e le modulazioni che creano le atmosfere. I suoni da soli sono solo ingredienti.
Cosa caratterizza il tuo metodo di produzione?
Registro moltissimo e faccio takes molto lunghe per il 90% con macchine analogiche. Ho un sistema modulare, una sh101, una tr808, un multieffetto e uso alcuni plugins digitali. Modulo moltissimo direttamente con le mie mani sulle macchine quando registro. La modulazione è fondamentale nel mio processo creativo, è il “divenire” del pezzo, crea un’evoluzione narrativa nella monotonia.
Dalla tua linea musicale traspare varietà stilistica, sai essere musicalmente eclettico riuscendo a mantenere salda la tua identità. Qual è il filo che lega la maggior parte dei tuoi lavori?
Credo che la tensione ad un certo tipo di atmosfere sinistre, esoteriche e profonde sia sempre stato e sempre sarà un elemento stilistico presente nelle mie cose perché è ciò che attrae me alla musica in generale.
Cosa influenza la tua selezione musicale? Cosa ti piace dei dischi che suoni e qual è una caratteristica che potrebbero avere in comune? Qual è l’eventuale chiave di lettura per la degustazione di un tuo set?
Negli anni sia come dj che come producer maturi una visione, un’idea, una sorta di manifesto inconscio di ciò che ti piace e di ciò che non ti piace, di ciò che decidi di sposare e proporre, e più passa il tempo più mi rendo conto che se un brano mi piace c’è un motivo… in un certo senso è come se abbia imparato a fidarmi ciecamente del mio istinto senza lasciare che le mie decisioni vengano filtrate dalla paura di svuotare o di uscire troppo dai “binari” della situazione house/techno. E credo anche che sia proprio questa sorta di ecletticità coesa che suscita interesse in chi mi apprezza. C’è una frase molto bella di Derrick Carter che dice: “un dj bravo non è chi non svuota la pista ma chi la svuota e poi la riempie di nuovo”. Quello che cerco di fare in un dj set è una proposta eclettica ma che abbia una compattezza nel mood. Una sorta di percorso organico e variegato nei generi ma omogeneo nelle sonorità e nelle armonie: house, techno, jazz, dub, noise, industrial, kraut, postrock non c’è barriera. Sono tutti paesaggi diversi dello stesso viaggio. La techno non è un genere, è un punto di vista. Un modo di percepire la musica che ha assunto una sua consapevolezza come genere negli anni ’80 ma che è presente nella musica da molto molto tempo.
Credi sia importante essere muniti di qualche tipo di formazione artistica per comprenderti nel miglior modo come musicista?
Credo che il background, le esperienze sociali e culturali aiutino ad arrivare ad una consapevolezza della propria sensibilità e ad una comprensione del suono che comunque devono essere in qualche modo innate. La sensibilità per la musica non si impara e non si insegna. Si può affinare ma non creare dal nulla.
La traduzione del nome della tua etichetta riesce a rispecchiare la tua personalità? Potresti sentirti a tuo agio con una definizione quale “lugubre”? Sei davvero coinvolto in qualcosa di “misterioso” durante i tuoi lavori di sintesi?
Eerie è un aggettivo che era stato usato precedentemente per descrivere il mio sound (molta gente definisce le mie tracce come adattissime a colonne sonore per film horror o thriller psicologici particolarmente dark) credo che sia il nome perfetto per la label non solo per il suo significato ma anche per il suono della parola stessa e per la graficità del testo.
Cos’è l’elettronica per le generazioni del presente e cosa potrebbe diventare?
Credo che questa musica stia vivendo un momento “aureo” in quanto sta diventando davvero una sorta di tela su cui si può dipingere liberamente qualsiasi cosa. Non e’ mai esistito un genere che abbia dato possibilità di crossovers così immediati e riusciti. Da 3-4 anni ho visto nascere labels che mescolano noise, techno, jazz, rock pur rimanendo in un orbita “techno” con risultati sbalorditivi aprendo vere e proprie autostrade per il futuro del genere.
C’è all’orizzonte per te la presenza di rilevanti collaborazioni?
Si.