I discorsi musicali del weekend appena passato di casa nostra sono stati inevitabilmente ed irrimediabilmente egemonizzati dal disco di Calcutta, “Relax” (ok, a parte chi ha avuto la fortuna di vedere la prima assoluta di Eno con l’orchestra a Venezia con “Ships”). C’è poco da fare: ormai il cambio di generazione è un dato di fatto, ora a regnare nei discorsi collettivi sulla musica italiana c’è tutto il plotone di quello che, boh?, un tempo ad un certo punto lo si chiamava it-pop (con una definizione molto azzeccata, a nostro modo di vedere) e oggi chissà. Anzi, in un appeasement davvero totale (aka, un volemose bbene sotto l’egida del fatturato e/o un’affinità artistico-attitudinale) non c’è nemmeno particolare ostilità fra pop e musica urban, fra canzone da radio ritornellosa e salmodie rappuse: è diventata tutta una grande marmellata. Buona, eh, fatta spesso pure bene; esempio da manuale in tal senso se ne serve uno è “Cenere” di Lazza, la grande hit che è finita perfino nei cori degli stadi dove un rapper tatuatoso e grintoso improvvisamente si scopre canterino e col cuore in mano, per sedurre il mainstream più generalizzato. Cose che succedono, in questi anni, ed anzi succedono spesso. Molto, molto spesso. Quando un tempo, era improbabile.
Ora, il discorso è da inquadrare bene: da un lato riteniamo che sia una bellissima notizia a prescindere che siamo finalmente usciti dal monocolore De Gregori Venditti Baglioni Ramazzotti Antonacci ed altri (pluri)sessantenni. Finalmente ad andare negli stadi e nei palasport e nei cuori della gente ci sono nomi nuovi e nuove generazioni nella musica italiana – con un’ondata di rinnovamento che è andata a pescare pesantemente nella cantera indie, quella che un tempo stava solo nel sottoscala degli sfigati e ora invece muove le fila del potere discografico e marcantile, in stretta alleanza con radio, major, piattaforme di streaming. Meno male che in Italia, almeno in un settore, c’è stato insomma un ricambio generazionale. E meno male che oggi, in questi nuovi equilibri, molte più persone che lavorano attorno alla musica (tecnici di palco, backliner, fonici, ingegneri del suono, produttori, direttori di produzione, manager) riescono a trovare lavoro pur arrivando, come background, dall’indie più battagliero e non dal pop più paraculo. Tutto questo, a scanso di equivoci, è profondamente bello e positivo.
Epperò, come spesso accade, più si va avanti più emerge un’altra faccia della medaglia. L’indie e le nicchie “moderne” erano nate alternative ed “incompatibili con la roba commerciale” (…chi la coglie la citazione?); appena però hanno iniziato ad annusare i numeri e i contratti discografici hanno accelerato a dismisura un processo di omologazione agli stilemi dominanti, come ad esempio i rappusi. Detto in altro modo: chi un tempo era in netta e sfigatissima minoranza, una volta ritrovatosi a rischio di esser maggioranza è diventato più conformista e conservatore del pop-rock più storico, paraculato e trombone, ostentando senza timidezze e senza vergogna con una grande fame-di-piacere (…e scegliete voi quale dei due sensi dare a questa frase).
L’indie e le nicchie “moderne” erano nate alternative ed “incompatibili con la roba commerciale” (…chi la coglie la citazione?); appena però hanno iniziato ad annusare i numeri e i contratti discografici hanno accelerato a dismisura un processo di omologazione
Sì. Vediamo una discreta omologazione nella musica fu-indie italiana diventata oggi pop mainstream. Vediamo arrangiamenti curati e registrazioni di altissimo livello (“Relax” di Calcutta ad esempio suona divinamente); ma come idee d’arrangiamento, come idee vocali, come sapori, come atmosfere c’è questa continua corsa collettiva ad essere Battisti che, scusate il francese, francamente ha rotto i coglioni. Non perché Battisti non vada bene in sé, eh; ma perché è perlomeno inverosimile che improvvisamente l’unico o quasi modo di fare musica in Italia sia diventato imitare, tot decenni dopo, quel-gran-genio-di-Battisti.
(tipo, qui; continua sotto)
Atterrisce davvero come oggi di tutti i dischi nuovi e nuovi protagonisti che si muovono nella musica italiana, almeno metà vada in quella direzione lì: dai nemmeno ventenni ai pluriquarantenni. Sì, ok, capiamo che funziona; capiamo pure che ovviamente è nel background di molti; capiamo che attira molto la prospettiva di poter fare della propria passione la propria professione, quindi meglio scegliere quello che “funziona” e/o si sente “famigliare” in quanto dà più possibilità di ottenere qualcosa e, ecco, sì, solo pochi hanno la faccia tosta, la dislessia accennata e i tatuaggi giusti per fare i trapper; capiamo, capiamo tutto. Ma santiddio, la cosa sta diventando imbarazzante. Perché al netto delle differenze di timbro e di scrittura, quelli che hanno un peso sul mercato o danno l’idea di poterlo avere vanno davvero un po’ tutti nella stessa direzione di Calcutta e Tommaso Paradiso, già, succede perfino per chi un tempo razzolava nella cultura hip hop (Coez, Carl Brave, Franco 126, Frah Quintale…).
Tutto questo non è (solo) sbagliato, attenzione. È, più che altro, noioso. Dopo un po’ è davvero noioso. È noioso che la musica italiana visibile nei media e nei discorsi collettivi, anche quelli di teorici appassionati di musica alternativa, sia diventata oggi quasi solo il battistume. Cosa che è accaduta da quando i Cani – i veri caposcuola della faccenda e di tutta questa rivoluzione – col secondo disco hanno abbandonato il piglio elettrico degli esordi per abbeverarsi a piene sorsate alla fonte luciana. Da lì non ci si è più ripresi. La direzione è diventata quella. Punto.
L’Italia vivaddio continua ad essere anche altro, musicalmente. E nello stesso giorno in cui è uscito “Relax” di Calcutta (momenti assolutamente carini, ma senza le intuizioni del disco d’esordio e forse nemmeno quelle di “Evergreen”), noi a pieni polmoni proviamo a dire – anche se non ci si filerà quasi nessuno – che sono usciti anche due dischi assolutamente straordinari: “Uno” di DayKoda e “Selva” di Marta Del Grandi.
Lo ripetiamo: dischi straordinari.
In primis, perché fuori dal coro. In secundis, perché davvero belli.
(continua sotto)
Chi segue queste pagine, sa che DayKoda è un nostro favoritissimo. Così tanto favoritissimo che quando è uscito il secondo album abbiamo sì elargito giusto elogi, ma non risparmiato qualche piccola critica: perché è con chi ti aspetti tantissimo che poni l’asticella molto in alto, non perdonando ciò che ad altri perdoneresti. No? Però ecco, all’epoca dell’esordio scrivemmo “il Flying Lotus” italiano; e, al diavolo, oggi nel 2023 non siamo per nulla pentiti di questa definizione.
…forse al massimo la aggiusteremmo: perché “Uno” è il disco di un Flying Lotus che ha passato però molto tempo ad ascoltare i Weather Report più selvaggi e cazzuti, quelli degli esordi e di “I Sing The Body Electric”. Per molti “fusion” è una brutta parola, colpa della deriva melassosa che ha subito il genere dopo i folgoranti inizi negli anni ’60 / ’70, ma saper mettere insieme blues, rock, jazz e sperimentazione non è un’arte semplice, quando fatta a modo e non per finire nelle playlist “Soft Jazz” di Spotify. Con attorno una ciurma di enorme qualità (Matteo D’Ignazio alla batteria ed Andrea Dominoni al basso, strepitosi, Riccardo Sala che da coltraniano si è fatto shorteriano, Amedeo Nan appropriatissimo alla chitarra), Andrea Gamba alias DayKoda dimostrando visione superiore e pugno fermo ha strutturato un suono davvero potente e compatto come non mai, dove il riff giusto viene piazzato al momento giusto. Meno visionario forse degli esordi (ma in quanto a visionarietà, la bellissima “This Cold Bed” in chiusura vale tutto, col suo Flying Lotus meets ECM meets psichedelia), ma più definito e solido, DayKoda ha compiuto un ulteriore scalino verso l’eccellenza. Ora il “derby in famiglia” con gli Studio Murena è accesissimo: a giovarne è la nostra scena musicale, che sta coltivando talenti che meritano oggettivamente panorami e riconoscimenti internazionali. Ah, una cosa ci piace di entrambi: tutt’e due non si sono messi ad inseguire pedissequamente il filone modaiolo del jazz-che-piace-agli-hipster-che- piacciono, pur essendone palesemente influenzati. Sia Studio Murena (col rap in italiano, con certi bridge e ritornelli) che DayKoda (con i tanti rimandi in filigrana alla scena della California beatmakerosa) danno dei twist particolari a questo modello, mettendoci quindi del loro (esattamente come fanno anche Clap Clap e Khalab, entrambi attenzionati all’estero forse più ancora che in patria: abbiamo una batteria di talenti pazzesca nella blackness ipercontemporanea, c’è vita oltre al paracetamolo indie).
Marta Del Grandi dal canto suo è un meraviglio esempio di folkster contemporanea, molto attenta a cogliere lo spirito dei tempi e mai derivativa, anche quando certi modelli si stagliano davvero chiari e nitidi (come ad esempio Joni Mitchell in “Marble Season”). Arrangia assieme alla sua band con grande gusto e delicatezza, scrive in modo meraviglioso (e intendiamo in primis dal punto di vista musicale, essenziale ma sempre acuta, non solo testualmente), sa quando compattare le cose e quando invece renderle aeree, distese (bellissima la parte 1 di “End Of The World”), sa gestire benissimo le dinamiche all’interno di una singola traccia (ascoltate il modo in cui si riempie “Stay”). È talmente “perfetta” e preziosa, la proposta artistica di Marta Del Grandi, che quando per un attimo devia dal tracciato per lanciarsi nel cantato in italiano – in una “Selva” che sembra risentire in maniera molto interessante della sua collaborazione con gli ultimi Casino Royale più “glaciali” – sorprende ancora di più, ed il vero esotismo ti sembra il sentire la lingua italiana, e non viceversa. Brano di enorme fascino anche la title track, insomma.
(continua sotto)
La Del Grandi e DayKoda sono insomma artisti che hanno raggiunto una enorme maturità e competenza e, per sovrammercato, sono pure baciati da un talento raro. Non essendo dei battistiani, nulla di più facile che passino sotto i radar del mainstream, dell’attenzione da chiacchiericcio social, di tutto ciò che si muove un po’ più in alto rispetto alle nicchie di amici ed appassionati. Tutto questo ci fa rabbia: la musica italiana è in un bello stato di salute, economicamente ed artisticamente, ma se finisce col rinchiudersi in una formula che guarda più alla confezione stilistica “a favore di mainstrea” che alla popolarità rischia di perdere e disperdere male questo momento di grazia.
O rischia di dover dipendere solo dai trapper che avranno capacità e cervello per fare un passo in avanti, come ha fatto ad esempio Tedua. Per tutti gli altri, Battisti.
E dopo un po’, piccole noie e discreti sbadigli.