Quattro chiacchiere con una leggenda. Una leggenda tranquilla, rilassata, amichevole. Una leggenda che può permettersi di fare quello che vuole: ad esempio un disco davvero urticante ed ostico, soprattutto se uno si aspetta “robe alla Depeche Mode”, come l’”MG” in uscita adesso su Mute, un disco che figurerebbe quasi meglio sul catalogo di un’etichetta tipo Raster-Noton (ma l’integrità della Mute, a partire da quella del suo boss Daniel Miller, è ancora adamantina). Abbiamo avuto modo di parlarne, e su questo e su altri argomenti ancora la cortesia di Martin Gore è stata massima. Averne, di leggende così.
Andando dritti al punto, almeno da quella che è la mia personalissima prospettiva: non sono tanto sorpreso da questo album – lo ero molto di più quando uscì quello architettato assieme a Vince Clarke, “VCMG”. “MG”, per certi versi, è la continuazione di quel progetto. O almeno lo è nel proporre un’elettronica pesante, senza compromessi, senza la minima concessione al pop, monolitica. Come mai in queste sortite soliste degli ultimi anni hai deciso di schierarti decisamente su territori più rigidi ed integralisti, elettronicamente parlando?
La storia di “VCMG” è molto semplice e lineare: era esattamente il disco che volevamo fare. Volevamo fare qualche cosa che ci facesse uscire dal “sistema” in cui operavamo di solito, i Depeche Mode per me e gli Erasure per Vince, ed entrambi eravamo e siamo grandi fan della techno. Metti insieme questi due elementi, e hai l’album. E’ nato tutto in modo incredibilmente semplice: Vince mi ha mandato una mail dicendo “Ma senti, vogliamo farlo allora un disco puramente, sanamente techno?” e io gli ho risposto “Sì”. Tutto qua. Non c’è stato bisogno di dire o aggiungere altro, la sintonia è stata totale fin dall’inizio. L’unico vero collegamento fra “VCMG” ed “MG” è che, avendo fatto un disco techno, avevo voglia che il mio progetto successivo al di fuori dei Depeche Mode fosse qualcosa di interamente strumentale, di più filmico, di più atmosferico.
Tra l’altro recentemente ti sei trovato a collaborare con Alva Noto più volte, tra remix di “VCMG” e la traccia firmata da lui ma con credit a te riconosciuti “Uni Rec” (nell’album “Univrs”). Ti ha influenzato, in qualche modo?
Carsten è un grande artista, e ho la massima stima di lui. Può essere che mi abbia influenzato, non lo so. So solo che mi piace molto quello che fa. Anche la sua ultima release, “Xerrox”, è molto interessante – forse c’è qualche contatto con quanto ho fatto uscire io ma ritengo sia casuale. E comunque se io vedo il mio disco come qualcosa di molti filmico, come una colonna sonora immaginaria, il suo forse è ancora qualcosa di più.
Come hai intenzione di tradurre dal vivo “MG”?
In nessun modo. E’ un disco che ho fatto per il gusto di farlo. Volevo dare vita a della musica che po potesse circolare lì fuori, nel mondo. Ma non voglio andare in tour, non voglio promuoverlo, non voglio immaginarmi il modo di tradurlo dal vivo, né musicalmente né con un con un apparato visuale di accompagnamento. Non mi interessa. Mi interessa solo che questo disco esca: come soddisfazione mi basta e avanza.
E’ un peccato, perché per come la vedo io – cinematico ed ossessivo com’è – si presterebbe molto bene ad una performance audio/video…
Non credo, sai. Vero è che questo è un disco molto filmico ed atmosferico, come ci dicevamo, ed è vero che forse il modo più appropriato per tradurlo live sarebbe avere me su un palco con dei visual dietro. Ma – basterebbe? Non so. Uno spettacolo così a me non pare abbastanza eccitante, per un fan.
Quanto ti è costato rinunciare alla tentazione di aggiungere delle tracce vocali? Se uno pensa alla tua carriera coi Depeche, creare delle linee vocali meravigliosa è una delle cose che ti riesce meglio.
No, davvero, non ho avuto la tentazione nemmeno per un attimo: ero troppo sicuro e convinto che quello che volevo fare era un disco puramente strumentale. Un disco inoltre dove non ci fossero chitarre né batterie né basso. Solo elettronica. Punto. Avevo abbastanza idee buone, a mio avviso, per portare avanti questa idea, senza bisogno di deviare da questo template originario.
Hai impiegato molto tempo per dare forma ai singoli suoni, che in un disco come “MG” è sicuramente uno degli aspetti fondamentali?
Sì. Per capirlo, basta spiegare la genesi di questo disco: tutto nasce da quattro, cinque strumentali che avevo scritto per “The Delta Machine” – strumentali che poi abbiamo deciso di non usare, nemmeno per quella che era la “Deluxe Edition” uscita in un secondo momento. Era un materiale che comunque mi pareva buono, mi dispiaceva un po’ doverlo abbandonare del tutto. Quindi, quando a tour coi Depeche finito sono tornato in studio, ripensando a queste tracce in archivio è maturata in me la voglia di lavorare seriamente a un disco puramente strumentale. Una voglia molto intensa: mi sono ritrovato a lavorare in studio ogni giorno. E sì, per dare forma ai suoni c’ho messo molto tempo. Ma è inevitabile: perché quando lavoro per i Depeche Mode so già che qualsiasi cosa io faccia deve comunque restare a livello di demo, perché poi sarà sottoposta ai miei soci, finirà in studio, ci sarà l’intervento di un produttore esterno – inutile quindi pensare di consegnare dei pezzi “finiti”, completamente inutile, no? Con “MG”, ovviamente, è diverso. E’ un mio disco. Dall’inizio alla fine. Quindi, lavorandoci, sapevo che qualsiasi cosa facessi dovevo sempre avere bene in mente quello che volevo fosse il risultato finale. Ero il produttore, stavolta.
E quindi, sei uno di quei maniaci che spende un giorno intero per modellare anche solo un singolo suono?
(ride di gusto, NdI) Eh, io di mio sì, sarei proprio così, ma proprio perché sono ben conscio di questa mia inclinazione cerco di evitare di farlo. Sai, soprattutto quando lavori su un sistema modulare, come in questo caso: basta andare di patch con un cavo, e scopri che puoi ottenere un suono diverso che ti sembra ancora più interessante rispetto al primo… e poi ancora, ancora, ancora… fino a quando ti accorgi che ti sei perso, e che il suono da cui eri partito era molto migliore e soprattutto molto più funzionale al pezzo rispetto a quello a cui sei arrivato. Bruttissima situazione, quella. Da evitare assolutamente. Ecco perché mi impongo di non complicarmi troppo la vita, anche se di mio amerei farlo.
Sei uno che ascolta molto, ancora oggi?
Assolutamente sì. Io amo la musica. E ne ascolto tantissima. Ogni giorno.
Oh, in realtà il cliché dice che, essendo tu una stella del pop internazionale, dovresti fottertene un po’ del resto, goderti la tua vita e fare un disco ogni tanto o per sfizio o per tenere costante il fatturato… e chi se ne importa di cosa succede attorno a te, soprattutto nelle nicchie.
(altra risata, NdI) Io senza musica non saprei cosa sarei nel mondo. Mi sono innamorato della musica ancora a dieci anni – quando ancora non immaginavo neppure di imparare a farla – scoprendo la collezione di dischi rock’n’roll di mia madre. A tredici anni, quando mi sono preso la mia prima chitarra, ho iniziato a capirci qualcosa di più. Una relazione intensissima, totalizzante, che dura ancora oggi, e a cui sono e sarò eternamente grato.
Una relazione che ti godi sotto il sole della California…
Esatto, a Santa Barbara. Sono ormai quindici anni che vivo qua.
Gran differenza rispetto alla grigia Inghilterra e alla Vecchia Europa, giusto?
Beh, sì. Ma ormai mi sono abituato. Per me “casa” è qui. Mi sono quasi dimenticato di cosa è e cosa significa vivere in Europa.
Ma qualcosa dell’Europa ti mancherà, no?
Sì, certo. I parenti. Gli amici. Il calcio – sono un grande tifoso dell’Arsenal, è brutto non poter andare allo stadio e guardarsi le partite dal vivo! Poi guarda, a dirtela tutta c’è una cosa molto più sottile che mi manca dell’Europa: il suo tipico, inconfondibile realismo virato su tinte pessimiste. No perché sai, l’America è fantastica, ma ogni tanto trovo il suo continuo e sistematico ottimismo un po’ eccessivo, un po’ stucchevole.
Mi viene da chiederti allora quali sono i significati dietro alla traccia “Europa Hymn”, come mai hai scelto un titolo del genere…
Me lo chiedo anche io (ride, NdI)… Sai, è buona usanza dare dei ganci all’ascoltatore che aiutino il viaggio della sua immaginazione. Non ti dirò perché a quella traccia ho dato quel determinato titolo, preferisco non dirlo: una spiegazione porterebbe via l’immaginazione e il mistero. Sai, metti mai che il motivo della scelta di questo o quel titolo sia incredibilmente banale… pensa a quanto fascino si perderebbe.
A proposito di fascino, quali sono i dischi usciti recentemente che più ti hanno affascinato, visto che mi dicevi che sei un insaziabile consumatore di musica?
Amo Andy Stott, trovo il suo ultimo album bellissimo. Sono stato così fortunato da avergli chiesto un remix, proprio per “Europa Hymn”, ricevendo il suo assenso: il risultato, credimi, è fantastico. Non so quando questo remix uscirà. Immagino un po’ dopo l’uscita dell’album.
Scelta interessante, Stott. Di sicuro non un artista pop. Credi sia ancora giusto immaginarsi due fronti contrapposti, quello pop e quello underground?
Credo che oggi ci sia una scena chiamiamola underground particolarmente viva e stimolante, e credo che questa scena sia comunque ancora adesso una cosa “altra” rispetto a quello che è il pop mainstream. Una scena che produce musica fatta con una passione e una sincerità che, mi dispiace, non è ancora possibile riscontrare in quello che si trova in classifica o che viene trasmesso dalle radio commerciali. Continua ad esserci una differenza.
Ma pensi succederà mai che un produttore dal suono e dalla sensibilità di Stott si ritrovi a produrre qualche grande stella del pop radiofonico?
Non conosco Andy Stott personalmente, non ci siamo mai incontrati, ci siamo solo parlati via telefono e via mail. Ma se mi chiedi un parere credo che no, una cosa del genere non potrebbe accadere: la sua musica è talmente genuina e onesta che non credo vada bene per i parametri del pop.
Beh, mi tocca chiedertelo allora: tu e i Depeche Mode siete sempre stati genuini ed onesti?
Io? Noi? La nostra intenzione, e te lo dico sinceramente, è sempre stata quella di essere genuini ed onesti. Sai, quando ci troviamo in studio facciamo sempre un’esercizio di immaginazione ben preciso: tracciamo una linea immaginaria che cerchiamo di non superare, e questa linea rappresenta il pop. Possiamo avvicinarci molto a questa linea, qualche volta addirittura vogliamo avvicinarci molto, ma se la si supera, beh, è un problema… proprio il tipo di problema che vogliamo e sempre vorremo evitare.