Ricordo ancora nettamente le impressioni legate al primo ascolto di una traccia intitolata “Mountain Dub” per la firma di un fantomatico El Fog. Riusciva ad immergermi in un oceano di suoni che diventavano immagini fortemente evocative se non oniriche, pur lavorando su registri minimalisti e sottrattivi. Era il 2007 e mi trovavo nell’occhio della mia tempesta onnivora nei confronti di qualsiasi cosa sembrasse lanciare un ponte tra il dub e la techno. I fari erano i cataloghi di etichette come ~scape e Rhythm & Sound. Jan Jelinek aveva prodotto alcune delle tracce di “Reverberate Slowly” (l’album che conteneva quella traccia) e questo aveva fatto entrare quel misterioso produttore nel radar. Dovetti aspettare il 2010 e l’uscita di un disco di Masayoshi Fujita & Jan Jelinek, intitolato “Bird, Lake, Objects” su Faitiche, per realizzare che era proprio il compositore e vibrafonista giapponese a celarsi dietro l’alias El Fog. Meglio tardi che mai. Avrò modo di rifarmi il prossimo 30 gennaio, in occasione della prima data italiana di Masayoshi Fujita che, alla Sala Vanni di Firenze, inaugurerà un ciclo di concerti denominato Hand Signed e curato da OOH-Sounds, Node Festival e Musicus Concentus nella quale suoneranno anche Oliver Coates, Bill Kouligas, Nicola Ratti, Kassel Jaeger, Beatrice Dillon e Philip Jeck. Anche perché il nipponico è appena uscito un nuovo lavoro, “Apologues”, sulla rinomata Erased Tapes Records, che sta facendo molto parlare di sé, per la sapiente fusione di strutture ambient, movimenti ritmici puntigliosi e la sorprendente esplorazione di uno strumento, come il vibrafono, che unisce al fascino dell’ascolto quello visivo. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente a Berlino, all’immediata vigilia del suo tour europeo per parlare della sua formazione, delle nuove uscite e dei piani futuri.
Sappiamo che buona parte della colpa è della collezione di vinili jazz di tuo padre ma come ti sei avvicinato alla musica e quando hai scoperto il vibrafono come tuo strumento di vocazione?
Si, mio padre era un fan sfegatato del jazz e in casa suonava sempre i suoi dischi. Ovviamente io, volente o nolente li ascoltavo. In realtà però a me all’inizio il jazz non piaceva. A me piaceva il rock e dopo aver studiato la batteria sin da ragazzino sono entrato in una band formata con i compagni delle scuole superiori. Verso i 23 anni ho cominciato ad aver voglia di produrre la mia musica e il fatto di suonare solo la batteria risultava un impedimento non da poco. Strimpellavo il basso e la chitarra ma senza una conoscenza seria di questi strumenti. Quando incontrai un vibrafonista delle mie parti che impartiva lezioni a private decisi di provarci. Già dalle prime volte che mi cimentavo con quello strumento mi resi conto che era davvero bello e il suo suono mi ammaliava. In maniera del tutto naturale proprio col vibrafono ho iniziato a comporre la musica che sentivo davvero mia.
Cosa ti ha portato a vivere a Berlino?
Sono arrivato a Berlino nel 2006. In quegli anni componevo musica elettronica e continuavo ad usare il vibrafono come strumento principale. Gli artisti che mi ispiravano maggiormente e le etichette che amavo di più erano nella città tedesca e questa è stata la ragione principale per la quale ho deciso di andare a vivere lì. Poi avevo sentito dire che gli affitti erano bassi, la scena musicale estremamente vivace e piena di opportunità. Ho messo insieme tutte queste motivazioni e ho preso una scelta della quale sono ancora molto felice.
Ascoltando la tua musica si percepisce una forte influenza del suono forgiato da Burnt Friedman, Pole, Deadbeat e il resto della scuderia ~scape.
La ~scape era la mia etichetta preferita nei miei primi anni berlinesi. Seguivo con grande interesse anche le cose di Basic Channel e tutto ciò che ai tempi chiamavamo Berlin Dub. Scegliere quella come città d’elezione è stata dunque la cosa più logica che potessi fare.
Come hai conosciuto lo sperimentatore tedesco Jan Jelinek e su che basi è nata la vostra collaborazione di lungo corso?
Se ricordo bene ero ad un concerto di Aoki Takamasa a Berlino. Anche Jan era ad ascoltare quel concerto e da grande amante della sua musica mi sono fatto coraggio e sono andato a parlargli. Dato che mi aveva lasciato i suoi contatti, qualche giorno dopo decisi di inviargli una mail con i miei demo, alla quale seguì una visita al suo studio. A quel punto l’interesse artistico è diventato reciproco e abbiamo cominciato a frequentarci regolarmente. Ad un certo punto gli arrivo la richiesta di invitare tre musicisti a collaborare con lui sul palco per un concerto. Scelse me come uno di quei tre musicisti. Alla fine quella data non si fece ma ci era rimasta la voglia di lavorare insieme e così siamo andati in studio per realizzare un album a quattro mani.
Mi pare che “Stories” sia stato un album particolarmente importante per la tua carriera, nel quale per la prima volta usavi molti strumenti diversi e arrangiamenti molto curati.
Prima di “Stories” la mia era musica sostanzialmente elettroacustica, nel senso che mi limitavo a combinare l’elettronica con l’uso del vibrafono. Avevo una preparazione musicale appena sufficiente, avendo suonato la batteria, ma non conoscevo le scale o il resto della teoria musicale per cui usavo il mio strumento come una sorta di archivio di sample per ottenere vari suoni. Per prepararmi bene alla realizzazione di quel disco ho studiato molto, soprattutto il vibrafono. Il fatto di essere circondato da così tanti bravi artisti e musicisti mi portò a chiedermi quale fosse la mia reale identità musicale e quale fattore mi potesse distinguere da tanti altri bravi produttori elettronici. Il crescente interesse che sentivo per il vibrafono come principale strumento di espressione e composizione fu la risposta. A quel punto la decisione di registrare un album acustico con gli arrangiamenti molto curati fu la più naturale.
Come sei entrato nel giro di Robert Raths e della sua Erased Tapes? Che effetto fa stare nella stessa etichetta di Nils Frahm, Kiasmos e Rival Consoles?
Anche Robert l’ho conosciuto ad un concerto. Era quello di Nils Frahm a Berlino. Ai tempi viveva anche lui in città. Dato che amavo molto gli artisti che vi incidevano e l’etichetta gli chiesi i contatti per inviarli delle mie composizioni che pensavo potessero essere interessanti per loro. Ciò che mi piace di più nell’impostazione della label è la diversità delle aperture musicali che non fa perdere l’identità artistica complessiva. Difficile per me scegliere un artista del roster su altri ma devo dire che ho davvero una grande ammirazione per l’approccio alla musica di Nils Frahm e Ólafur Arnalds. Inoltre il lato acustico dell’etichetta rappresentato da artisti come Peter Broderick dimostra quella apertura a contesti musicali diversi e quell’approccio sperimentale che mi sembrano due dei fattori più interessanti di Erased Tapes. Quando mandai a Robert Raths le prime bozze di “Apologues” avevo proprio in mente di privilegiare il processo di fusione tra sonorità elettroniche ed acustiche che caratterizza buona parte del loro catalogo. L’idea è piaciuta molto e allora abbiamo deciso di fare uscire sotto quell’imprinting il disco.
Il tuo ultimo album “Apologues” sembra ripartire esattamente da dove ci avevi lasciato con “Stories”, quasi fossero due capitoli dello stesso racconto. C’è un concept comune dietro questi due lavori?
Per me “Apologues” è la continuazione naturale di “Stories”. Alcuni dei brani del nuovo disco, come per esempio “Knight and Spirit of Lake” li avevo composti proprio durante la lavorazione del primo. Per entrambe le uscite l’idea di base era costruire dei dischi nei quali il proposito principale fosse evocare delle immagini nella mente dell’ascoltatore. Ecco perché molte atmosfere e scenari sono comuni. In quello più recente ho voluto allargare ulteriormente lo spettro sonoro e per questo avevo bisogno di più strumenti da arrangiare insieme.
In “Stories” eri accompagnato dal violoncellista Arturo Martínez Steele e dal violinista dei Tangerine Dream, Hoshiko Yamane. Li ritroviamo entrambi in “Apologues”, assieme alla fisarmonica di Motomitsu Maehara, alle percussioni di Masaya Hijikata, al corno francese di Tomonobu Odai, al clarinetto di Yoko Ozawa e al flauto di Mio Suzuki. In che chiave vedi l’estensione del tuo ensamble?
Di base scelgo i musicisti dei quali apprezzo la bravura e uno specifico uso dello strumento per ottenere un certo tipo di suoni. Hoshiko Yamane, per esempio, l’ho conosciuto a Berlino e amando molto le sue performance al violino ho voluto fosse con me in entrambi i dischi. Quando ho visto per la prima volta Arturo Martínez Steele suonare dal vivo sono rimasto esterrefatto da come suonasse il violoncello come un’estensione del suo corpo. Episodi simili sono accaduti anche per gli altri collaboratori. Mi pareva che il loro contributo fosse indispensabile per completare la mia idea.
C’è un rapporto tra l’intento evocativo dei tuoi album e l’uso del field recording?
Già dai tempi nei quali uscivo come El Fog avevo questa ferma volontà di generare, con la mia musica, immagini emozionanti nella mente dell’ascoltatore. Lavorare alla corrispondenza tra suoni e atmosfere è la parte più importante del lavoro compositivo. Nelle prime uscite facevo un uso massiccio delle registrazioni ambientali ma, maturando, ho riflettuto su come l’uso di quei suoni in maniera diretta e concreta, di fatto, fosse un’imposizione di qualcosa di reale che è già così ed esiste, in quel modo, fuori dall’immaginazione dello spettatore. Questo generava un processo contraddittorio rispetto alla mia idea di partenza. Ora preferisco provare a tirare fuori, con i miei pezzi, qualcosa che esiste dentro di te ma è, semplicemente, nascosto. E questo richiede una tua partecipazione mentale attiva.
Come funziona lo show live che ti appresti a portare in giro in Europa?
La forma dello show nella mia prima data italiana sarà quella di un solo nel quale userò il vibrafono e i miei marchingegni elettronici per eseguire live soprattutto le tracce dei miei due ultimi album, arrangiate appositamente per questo tipo di esecuzione. Mi piacerebbe tornare in Italia con un ensamble più allargato dato che le prime uscite live che abbiamo fatto a Berlino sono andate molto bene.
Qualche progetto futuro da dichiarare?
In realtà ho un album collaborativo praticamente pronto per l’uscita. Inoltre ho cominciato a comporre il nuovo materiale per il prossimo disco. Bisogna però considerare che in questo momento sono impegnato in un tour europeo e che da febbraio ad aprile sarò in giro in Giappone. Al mio ritorno a Berlino potrò concentrarmi maggiormente sul nuovo materiale: Anche se la preparazione di un live set differente richiede molto tempo e lavoro mi piacerebbe produrre ed esibirmi live anche come El Fog. Credo che sarà una cosa sulla quale comincerò a lavorare molto presto.