È una di quelle consapevolezze che raggiungi meglio alla terza notte insonne consecutiva, passata attraverso una lunga serie di fasi di sonno mai lunghe più di venti minuti. Ma è una consapevolezza che riguarda la vita reale: la sensazione che la tua vita proceda per frammenti, che alterni le esperienze solo attraverso momenti fugaci, subito interrotti da altri avvenimenti paralleli, frammentari a loro volta. Non ricordi più qual è stata l’ultima volta che sei riuscito a prenderti il tempo per goderti un avvenimento senza interruzioni e con la possibilità di andare al cuore delle cose, coglierne l’essenza più intima e preziosa. E sapete, il concetto di frammento diventa sempre più ossessivo man mano che continui a pensarci. Come il numero 23 nel film di Joel Schumacher: più gli dai attenzione, più hai la sensazione che stia dominando la tua vita. Finisci per scorrere in flashback gli anni passati dalla pubertà ad oggi e scoprire che nessuna fase è mai durata più di due o tre anni, chiudendosi con un trasferimento a centinaia di chilometri di distanza, l’avvio di un nuovo ciclo di obiettivi o il capovolgimento totale delle tue frequentazioni. Il frammento si è impadronito di te.
L’ultima fase, per quanto mi riguarda, è iniziata giusto la scorsa settimana: cambio d’azienda e trasferimento in Germania, con annesso vulcano di preoccupazioni riguardo registrazioni, assicurazioni sanitarie, ricerca dell’appartamento e difficoltà linguistiche. E sempre quello stile di vita interamente assoggettato al frammento: cammini per Dusseldorf e dalla Volkswagen ferma al semaforo senti uscire la voce di Drake, due secondi dopo scatta il verde, Drake vola via e al suo posto arrivano le botte electro-house che escono dalle cuffie del tipo che ti è appena passato accanto, il tutto mentre nel palo di fronte a te è pubblicizzata l’imperdibile serata dancehall dell’ultimo venerdì di ogni mese e tu stai procedendo a passo spedito verso il lavoro, ovviamente senza fermarti. È questa ragnatela di stimoli diversificati che trasforma il tuo cervello in una macchina parallela dedicata all’elaborazione di brevi schegge, e solo di esse. L’attenzione mai focalizzata su un elemento per più di una manciata di secondi, i centri nervosi dell’attenzione sempre spinti al limite del multitasking. E poi la notte, in quei venti minuti in cui riesci ad agganciare la fase REM, sogni improbabili collettivi hip-hop che inscenano una collana di citazioni delle tracce sentite durante il giorno, ognuna lunga non più di tre secondi, senza uno straccio di coerenza selettiva, passando come niente fosse da David Guetta ai Sigur Rós agli AlunaGeorge.
Di tutto questo, gli artisti e gli intellettuali del nostro tempo ne son perfettamente consapevoli. Lo sa Simon Reynolds, che nel suo ultimo “Retromania” attribuiva tale condizione agli effetti della rivoluzione di internet, che sempre più assoggetta i nostri ritmi vitali al buffering video, alla frenesia delle letture sbocconcellate tra un blog e l’altro e alla convivenza di ogni tipo di musica sotto lo stesso portale streaming o file sharing. Lo sanno artisti come Oneohtrix Point Never, che con l’ultimo album “R Plus Seven” e soprattutto col video di “Still Life” (ancora visibile dal suo sito ufficiale e già commentato in queste pagine) ha innalzato il frammento a poetica narrativa: le immagini si susseguono a un ritmo percepibile solo a livello subliminale e non si registra coerenza tra i vari elementi rappresentati. Il messaggio complessivo apparentemente non c’è, ma inconsiamente ne percepisci lo stesso la presenza, un po’ come accade nei dipinti psichici di Dali o nelle immagini più visionarie di David Lynch: alla fine qualcosa è passato, ti senti detentore di una nuova conoscenza ma anche di un nuovo grado di assenza di consapevolezza, e non riesci nemmeno a pensarci più di tanto perché nel frattempo è arrivato il frammento successivo della catena quotidiana.
La coppia Oneohtrix-Jon Rafman (regista del video) ha colto appieno l’importanza del fotogramma, come unica, vera possibilità di rappresentazione dei contenuti della nostra quotidiana. Il frammento collassa nell’istante e diventa nuovo canale comunicativo, mentre l’unità semantica è già diventata una pervesione per intellettuali dissenzienti. E quel che Oneohtrix e pochi altri colleghi del versante ex-ipnagogico raccontano consapevolmente, è in realtà da diverso tempo il modus operandi istintivo e inconsapevole dell’estetica musicale post-moderna: l’artista popolare, col suo abile fiuto per il successo, va inseguendo compulsivamente le strade per la visibilità ogni volta che gli si presentano, non lasciandosene scappare nessuna, sfruttando l’attimo ad ogni costo perché è solo lì che si realizza la tua statura mediatica, e pazienza se ciò comporta un’incoerenza più o meno plateale con l’immagine offerta di sé giusto qualche giorno prima. Conta solo il singolo istante. Da qui le continue rivoluzioni d’immagine delle varie dive del business musicale (l’ultima l’abbiamo registrata su Rihanna), da qui i colpi di testa di Deadmau5, prima predicatore di rigidi principi di coerenza su Twitter e poi principe del carpe diem con la storia di Bon Jovi e la scommessa del milionario capriccioso. Da qui le strane vicende del favoloso mondo di Miley Cyrus, che nella sua candida ingenuità proprio non si accorge di quanto sia insensato mettere nello stesso video prima le immagini di lei che fa petting più o meno spinto con diversi attrezzi da demolitore e poi il suo primissimo piano commosso, dichiaratamente ispirato a “Nothing Compares 2U” di Sinead O’Connor. Come se tutto valesse solo e soltanto nell’istante isolato in cui avviene, esonerato da qualsiasi esigenza di coerenza. E se poi la O’Connor giustamente s’incazza, le si dà della psicopatica e al diavolo la stima precedentemente dichiarata.
Tutto in onore e devozione assoluta del frammento, del fotogramma nel quale il presente trova l’unica dimensione che conta. E mentre ormai è quasi l’alba e hai largamente rinunciato a riprendere sonno, senti un incontenibile bisogno di cose fatte come una volta, di espressioni musicali che rallentino un po’ il tempo, allargando le sensazioni a un intervallo che duri più di qualche minuto. Provi a riflettere su quanti ascolti recenti abbiano provato a riprendere le buone vecchie maniere, a riproporre una comunicazione placida e lontana dalla frenesia dei nostri giorni. Ad allungare questo maledetto frammento, insomma. E ti sorprendi a constatare che sì, accade ancora adesso. I primi esempi che ti vengono in mente sono i Daft Punk di “Lose Yourself To Dance“, che mettono da parte i caschi spaziali e si rifiondano con gran flemma e ritmo lento nella loro visione personale di “timeless disco”, e la Maya Jane Coles di “Burning Bright“, la buona, vecchia deep house coi suoi calmi, suggestivi percorsi vocali. Una volta tanto due pezzi che non corrono, che ti permettono di prenderti una pausa e lasciar scorrere il flusso, senza l’ansia del tempo che ti insegue, sia esso inteso come ritmo evolutivo della musica che come risorsa spesa per ascoltare un brano. Eppure, pensa un po’, in entrambi i casi son fioccate critiche e insoddisfazioni, perché “materiale già largamente sentito” o “diretta conseguenza dell’essere rimasti a corto di idee“. Per le maniere classiche non c’è più posto, e allora via a correre verso la sola alternativa possibile, ossia sfrecciare frammento dopo frammento alla ricerca di qualcosa di nuovo che ti sorprenda. E quando andremo di matto, la psicoterapia la faremo via instant-messaging.