Come spesso capita, gli artisti che hanno dei contenuti musicali particolarmente validi sono anche quelli che nascondono gli aneddoti e le storie più interessanti da raccontare. Massimiliano Pagliara non fa eccezione: il dj e produttore leccese di stanza a Berlino è, con tutta probabilità, uno dei nostri connazionali più rispettati del panorama elettronico mondiale, grazie a una discografia ricca e succulenta e a un’abilità in studio davvero invidiabile. La sua ossessione per i sintetizzatori, la sua passione (quasi fisica) per la musica e la sua totale apertura mentale hanno fatto il resto, consegnandogli le chiavi di alcune delle consolle più prestigiose del pianeta, come quella del Panorama Bar di Berlino e del Robert Johnson di Francoforte.
L’abbiamo incontrato qualche giorno fa a Roma, appena prima della sua esibizione al Rashomon Club per il party organizzato in collaborazione con il Ribbon di Terracina. Quella che ne è uscita fuori è una chiacchierata intensa in cui Massimiliano Pagliara ha voluto raccontarsi a trecentosessanta gradi, frenando a fatica la voglia di raccontarmi tutto il suo amore per le sue adorate macchine analogiche.
Puglia e poi una breve parentesi a Milano, prima di finire a Berlino e scoprirti dj e produttore di talento. Trovo inevitabile chiederti di raccontarmi del tuo legame con la tua terra e con la musica prima di trasferirti in Germania.
Mi sono trasferito a Milano dopo aver terminato il liceo scientifico per studiare Lettere e Filosofia. Il destino vuole, però, che il mio primo coinquilino fosse un danzatore e, data la passione che nutro sin da bambino per questa disciplina, ho così iniziato a seguire dei corsi. Mi è stata subito chiara una cosa: danzare era quello che volevo fare nella vita, quindi ho lasciato gli studi e mi sono iscritto alla scuola d’arte drammatica Paolo Grassi dove, per tre anni, mi sono dedicato alla danza e al teatro.
Insomma hai iniziato dall’altra parte della consolle.
Esatto!
E come sei finito da Milano a Berlino?
Ho sempre avuto in testa di spostarmi e di provare a mettere in pratica i miei progetti così, finita la scuola, ho deciso di partire. Berlino è stata, se vuoi, una scelta fatta un po’ a caso: andai a trovare un amico che viveva lì e rimasi folgorato dalla città.
…tra l’altro molto diversa rispetto a quella che possiamo visitare oggi.
La prima volta che mi trovai a Berlino era il dicembre del 2000 ed era, sì, molto molto diversa. Mi è bastato trovarmi nelle sue strade per pensare di mollare l’Italia e inseguire lì il mio sogno di danzatore perché, in principio, era quello il mio progetto.
Danza che ha ben presto cambiato cornice: dal teatro al club.
Ho iniziato a frequentare i club praticamente da subito. Uno di questi, l’Ostgut, mi ha letteralmente cambiato la vita: ho avuto la fortuna di poter vivere il “vecchio Berghain” e di poterne oggi parlare come tanti nostalgici fanno con lo storico Paradise Garage di New York. Per me l’Ostgut è stato fondamentale, soprattutto perché venivo dall’Italia dove un club simile non è mai esistito.
Ad ogni modo, non avevi un background legato alla musica elettronica, o sbaglio?
Io ho sempre amato e seguito la musica come un qualsiasi ascoltatore, all’epoca non avrei mai pensato di ritrovarmi dove sono ora, soprattutto prima di arrivare a Berlino.
A parte il club, chi ti ha introdotto?
Oltre all’esplosione della vita notturna, a giocare un ruolo chiave nel mio percorso è l’aver conosciuto tantissimi dj. In quel periodo ero poco più che ventenne e, come tutti a quell’età, uscivo tanto. Per forza di cose ho finito per frequentare e fare amicizia con tanti giovani dj e aspiranti tali. Sono stati loro ad avermi introdotto.
Quindi possiamo dire che, soprattuto se paragonato con la frenesia di questi anni, sei “uscito fuori” un po’ tardi?
Per quanto riguarda il djing sì, ma io ascoltavo musica e acquistavo musica già da tantissimo tempo. All’epoca collezionavo e ascoltavo tantissime musicassette e CD, per poi passare lentamente ai vinili, una volta raggiunta la consapevolezza che sì, avrei provato a fare dei dischi la mia vita. Quindi la risposta è sì: avendo iniziato a Berlino, ho fatto le cose con più calma rispetto a molti miei colleghi.
Poi hai messo la freccia e hai sorpassato tutti i tuoi vecchi amici.
Dai…non si è trattata di una competizione! Una delle persone che posso considerare tra i miei insegnanti era un mio amico che faceva l’architetto e aveva approciato quel mondo anni prima: io non avevo ancora i miei giradischi e così andavo da lui a mixare. Era un semplice appassionato che, dopo gli inizi, aveva ancora l’hobby di comprare e suonare per sé i dischi.
Com’è stato trasferirsi a Berlino dieci anni fa?
Quando decisi di spostarmi da Milano, gli italiani qui erano molti meno rispetto ad oggi. Io, ad esempio, ne conoscevo solo uno. Gli amici di cui ti ho parlato erano tutti di Berlino Est e parlavano pochissimo inglese – all’epoca anche il mio livello era molto basico -, quindi ho dovuto fare io lo sforzo di imparare il tedesco. Mi sono detto: “sono venuto in Germania, è il minimo che possa fare!”. Diciamo che sono stato sempre molto portato per le lingue, tanto da pensare di studiarle all’università. Volevo fare l’Accademia di Belle Arti, Lingue, Lettere e Filosofia…e invece sono finito prima a studiare danza e poi a Berlino!
L’importante è portare a termine le cose…
L’università l’ho mollata dopo un anno, mentre per quanto riguarda la danza ho completato il mio percorso triennale.
Ti sei mai esibito?
Certo! Ho preso parte in vari progetti e a Berlino ho addirittura insegnato in delle scuole. Quando mi sono reso conto che la musica stava iniziando a prendere il sopravvento ho cercato comunque di non mollare del tutto la danza, quindi ho cercato in tutti i modi di portare avanti entrambi i discorsi. C’è stato un periodo di sperimentazione in cui cercavo di esprimermi e far convivere più linguaggi tra cui, oltre alla musica e alla danza, anche il video. Ho preso parte ad un corso di video-making e video-editing e, per un periodo, ho anche proposto i miei lavori in alcune mostre dove poi mi esibivo anche come dj. Insomma, dj e vj…però mi sono ben presto reso conto che era davvero troppo.
E quindi la scelta è ricaduta sui dischi e sulle consolle.
Sai, la danza come piace a me è un disciplina molto fisica che richiede moltissima disciplina, mentre il djing e il clubbing sono veramente tutta un’altra storia. Sono come il giorno e la notte, davvero! Praticamente inconciliabili, così ho dovuto prendere una decisione.
…quella di comprare un sintetizzatore! Qual è stato il primo?
Il primissimo è stato il Roland SH-101, che uso ancora oggi. È uno dei pochissimi strumenti che ho comprato e mai rivenduto: sta lì, in studio, ed è sempre al mio fianco. Dico questo perché lo considero un sintetizzatore essenziale.
È quello che costituisce il DNA della tua produzione?
Sì e no; in realtà quello che considero veramente basilare è il Roland Juno-106, che ho comprato subito dopo aver messo le mani sull’SH-101, quando ancora si poteva trovare su eBay a €300. Adesso costa almeno il triplo.
All’epoca avevi dei rudimenti musicali? Sapevi suonare uno strumento?
No, assolutamente no, non avevo la minima idea di cosa fossero armonia, note, melodia e accordi. Essendo una persona molto metodica, però, ho da un lato iniziato a studiare i manuali delle varie macchine, dall’altro ho iniziato a frequentare i corsi di musica. Dovevo assolutamente capire cosa stessi facendo, avevo bisogno di sentirmi consapevole di ciò che avevo tra le mani e delle sue potenzialità: non potevo mettermi a suonare casualmente, senza sapere quali tasti delle macchine stessi premendo e se questi tasti andassero bene premuti insieme.
Avresti potuto cavalcare il filone minimal, lasciando in secondo piano tutto ciò che ha a che fare con la musicalità.
Guarda, io in realtà vengo anche dalla techno e dalla minimal. La disco è arrivata molto dopo, quando poi ho scelto di provare a produrre la mia musica, per questo era decisamente importante che fossi adeguatamente preparato e che avessi rudimenti sufficienti per scrivere una melodia con i miei sintetizzatori o una linea di basso funk. Anche gli accordi più elementari dell’house di Chicago hanno bisogno, per essere capiti e riprodotti, di un minimo di studio. In quel periodo non facevo che ripetermi: “che cos’è questo suono? Da quale strumento verrà quest’altro? Cosa sta succedendo a questa linea melodica?” Studiando poi pianoforte mi è stato tutto più chiaro.
Così sei passato dal voler comprare i dischi che sentivi nei locali al desiderare gli strumenti che li caratterizzavano!
Sai quante volte, prima di quegli anni, mi sono chiesto la provenienza di un determinato elemento? Poi magari era una cowbell della 808 o un tom della 909…Quando ho iniziato a produrre e ad interessarmi davvero alla musica e alle caratteristiche degli strumenti che avevo modo di suonare, ho finalmente vinto questi dubbi.
È più frequente un acquisto di un disco per i suoi strumenti o di uno strumento in base all’ascolto di altri lavori?
Forse sono vere entrambe le cose. Prendi un produttore come Patrick Cowley e lavori come “Mind Warp” coi suoi assoli psichedelici…io amo Patrick Cowley e la sua musica, è uno dei miei profeti e delle mie guide! Lo ammiro talmente tanto da aver fatto una ricerca sugli strumenti che lui ha usato per produrre i suoi album: uno di questi è il Prophet-5.
Che, immagino, è un altro pezzo fondamentale del tuo studio.
È chiaro, e l’ho comprato proprio per riuscire a ricreare quel tipo di suono. Per i miei trascorsi da ballerino, in cui l’aspetto fisico è stato pressoché predominante, ho sempre sentito la necessità di “toccare” con mano la mia musica; sensazione che non può prescindere dall’utilizzo di uno strumento fisico e non virtuale.
Capisco e condivido a pieno il tuo discorso, pur non essendo mai stato un ballerino. Prima mi è parso di capire che, oltre a comprare tantissime macchine, ne hai anche rivenduta qualcuna. È così?
Guarda, nel mio studio c’è stato un traffico che non puoi nemmeno immaginare. Ho comprato, venduto, ricomprato e rivenduto molti strumenti. Se penso al Roland JX3P…l’ho acquistata tre volte! Dopo averla usata la prima volta, mi sono detto che, ok, potevo farne a meno utilizzando gli altri synth. Così l’ho venuta, ma ha iniziato a mancarmi e l’ho ricomprata, salvo poi finire per essere poco usata e quindi nuovamente data via. Alla fine ci sono ricaduto e l’ho ripresa.
Sei geloso dei tuoi strumenti?
Moltissimo.
Non li presti a nessuno?
No assolutamente, non ho mai prestato una macchina a nessuno: chi vuole può venire ad utilizzarla da me. Come testimoniano i miei lavori, sono molto aperto a collaborazioni e nel mio studio sono tutti benvenuti, ma non da lì non esce nulla. Sono macchine molto delicate che richiedono grande cura quando vengono utilizzate, per non parlare di quando si guastano…
Sbaglio o la Juno-106 è tra quelle più a rischio?
Non tocchiamo questo capitolo! È vero che all’epoca la pagai solo €300, ma poi dovetti spendere circa il triplo per aggiustare tutti i problemini che sono sorti col tempo. Questa è una cosa ricorrente, in quanto si tratta di strumenti che a volte hanno anche trent’anni.
Ma tu sei in grado di sistemarle da solo?
L’unica cosa che so fare è aprirle e pulirle all’interno, mentre a livello di circuiti, ahimé, non ho alcuna competenza. A Berlino c’è un posto, si chiama Extended Music, in cui lavora un tipo molto molto in gamba di nome Kai che ha salvato diverse delle mie macchine, tra cui il mio Korg Polysix, praticamente in fin di vita…Una sorta di pronto soccorso!
Mi hai citato il luogo dove porti ad aggiustare i tuoi strumenti, ma non mi hai detto nulla del tuo negozio di dischi preferito. Dove fai shopping?
Di solito vado da OYE Records, dove ho anche lavorato un annetto. Mi sento di casa lì.
C’avrei giurato, sembra il tipico negozio dove trovare un tuo EP.
Non vado altrove perché lì posso trovare, oltre alla musica da suonare nei club, anche quella per il mio home-listening. Va da sé che io preferisca negozi, per così dire, più eclettici.
Quanti dischi hai a casa?
Sinceramente non li ho mai contati, però credo di essere intorno ai cinquemila.
Oltre alla musica e alle macchine analogiche, c’è altro che collezioni?
Sono un appassionato di libri e arte. Approfittando dei miei viaggi, visito spesso mostre e musei; lì compro quasi sempre i libri riguardanti ciò che ho appena visto. Ultimamente, per esempio, sono stato a Bratislava e sono andato a vedere una retrospettiva su Jan Mancuska, alla Kunsthalle. Al termine della visita non potevo non comprare il libro, fighissimo, che tratta e riporta le sue opere. Inoltre sono un grande appassionato di biografie, specie se riguardanti grosse personalità come Patti Smith – la sua l’ho acquistata prima in italiano e poi in inglese – e Grace Jones.
Passiamo ora alla tua musica. Per quanto i tuoi due album “Focus For Infinity” e “With One Another” presentino inevitabilmente dei punti in comune, il secondo mi è parso decisamente più “quadrato” rispetto al primo, come se il dj che è dentro di te stesse prendendo il sopravvento sul resto. È un’idea totalmente campata per aria?
Se da un lato sono cresciuto da un punto di vista tecnico, dall’altro anche il dj che è dentro di me negli ultimi anni si è fatto sempre più propositivo. Ho suonato tanto, sono stato spesso in giro, e questa cosa ha avuto una certa influenza anche sulla musica che ho prodotto e scritto. Sì, posso dire di essermi sentito via via più vicino alla pista rispetto agli inizi. Forse si è trattato di un passaggio necessario che, in “With One Another”, ha fatto sì che decidessi di collaborare, magari anche in modo inconsapevole, con artisti con caratteristiche ben chiare. Diciamo che non so dirti se di partenza volessi fare un album necessariamente “più dancefloor”, ma poi a conti fatti è stato così.
Delle collaborazioni scelte, due in particolare mi hanno colpito: quella con il norvegese Telephones e quella col talento di casa Uncanny Valley Credit 00. Parlaci del tuo rapporto con la scena cosmic-disco di Oslo e di come è nato il tuo rapporto con la label di Dresda.
Sai, forse il discorso che fai sulla cosmic-disco norvegese può valere di più per le prime cose che ho pubblicato, tra queste “Transmissions Florales” su Balihu e “Toxic Love” su Live At Robert Johnson. In tanti dopo quelle uscite hanno associato il mio nome a quel suono, ma in realtà credo sia più corretto far riferimento alla varietà che contraddistingue la mia musica. Come molti, anche io ho avuto una fase drum and bass e punk-rock, così come ho ascoltato la techno più dura e decisa e vari altri generi, e questo penso si possa percepire in ciò che produco. In qualche modo queste influenze vengono fuori, anche perché non ho mai cercato di nasconderle, anzi è tra i miei obiettivi riuscire ad esprimerle. Io capisco la tua domanda, ma il punto di contatto che hai citato è più che altro figlio dell’eclettismo di molte mie scelte stilistiche, anche come dj. Quando mi trovo a mettere i dischi cerco di sfruttare queste mie diversità per creare percorsi sempre nuovi, liberando chi mi ascolta dalla convinzione che Pagliara è un dj che suona solo “disco”.
Non mi hai detto nulla di Credit 00…
Ho voluto includerlo proprio per via di questa mia polivalenza.
Alla luce di quello che mi dici, lavorare insieme a Live At Robert Johnson deve essere una bella fortuna!
Eh sì, mi danno pienissima libertà e questo mi fa sentire totalmente a mio agio.
Mi hai appena detto che non ti piace suonare solo un genere. Questo è il momento dei dj che, come te, sono in grado di spaziare tra più sonorità!
Da quando ho iniziato a produrre musica e a suonare nei club, la musica elettronica ha vissuto l’alternarsi di diverse fasi. L’essenziale è saper tirar fuori da esse il loro meglio e adattarlo al proprio stile e al tipo di storia che, via via, si vuole raccontare.