Tanto per mettere le cose in chiaro: chi vi scrive, è parte in causa. “Scenery” non solo l’ho visto nascere – capita spesso che gli artisti condividano con amici e giornalisti più vicini gli album prima ancora che escano ufficialmente, nulla di nuovo – ma ho dovuto anche affrontarlo nel profondo. Vivisezionarlo. Per lavoro. Mattia Trani infatti mi aveva chiesto di scrivere le note stampa: insomma, il classico testo che poi le agenzie PR fanno girare (e che spesso poi i giornalisti scarsi copiano di sana pianta). Non è uno scherzo, come compito, non è nemmeno “comodo”: perché se quando fai una recensione puoi dire la tua e ciao, lavorare in questo modo ovvero per committenza significa dover interpretare nel modo migliore possibile quello che vuole il committente: quello che pensa, quello che prova, quello che ha fatto – e perché lo ha fatto. C’è un lavoro di immedesimazione che è tutto tranne che immediato. Per un testo relativamente breve c’è voluta una chiacchierata di almeno due ore in cui chiedere un sacco di cose attorno al progetto. Poi queste cose erano da prendere, filtrare, asciugare, selezionare, cercando di capire quali erano quelle più importanti – sia per l’artista che per il potenziale lettore delle note stampa.
Quando fai un’intervista normale, devi (o dovresti) stare attento a non empatizzare troppo con l’artista: cordialità e cortesia assolutamente sì, ci mancherebbe, ma empatia solo fino ad un certo punto. E’ un confronto, l’intervista; un confronto in cui deve essere chiaro chi è il protagonista (l’intervistato) e chi è quello che conta di meno (l’intervistatore), ma in cui in ogni caso deve essere chiaro che il fine ultimo è mantenere distinti i ruoli e non tentare, invece, di entrare nell’entourage dell’artista. Non fingere insomma di essere “parte della crew”. Per quanto quell’artista tu da giornalista lo possa stimare, per quanto possa apprezzarne la musica e le visioni del mondo: però no, i ruoli sono distinti, e tali devono restare.
Con Mattia, con “Scenery”, i ruoli non sono stati distinti. Quindi prendete queste righe col beneficio d’inventario, per una volta. Però va detta una cosa: ascoltare questo suo disco personalmente mi ha emozionato, e non per la prospettiva della committenza presa. Mi ha emozionato perché riporta in campo una ambizione che negli ultimi dieci (venti?) anni sembrava essersi un po’ persa nella musica elettronica, tranne eccezioni sempre più rare e sparute. Tutti talmente concentrati a fare le “bombe” da pista – qualcosa che funzioni e funzioni subito, che ti possa mettere sulla “mappa” insomma, e ti figli buone fee e bella gente in console – da essersi forse dimenticati che fare il musicista è (anche) fatica. Se credi in qualcosa, ti schianti contro un muro di fatica. E fare un album monumentale come “Scenery” – quindici tracce – è assolutamente fatica. Fatica è anche essere ossessionati da quello che si fa: diventare noiosi a furia di spiegare il concept che sta dietro alle tracce, diventare verbosi a furia di spiegare che anche l’immaginario estetico attorno al progetto è curato ed intenzionale, diventare ottusi decidendo di mandare all’aria il buon senso e la saggezza strategica. L’ha detto, ad un certo punto, Trani – e potete sentirlo anche voi nelle tracce di questo album: “Guarda, mi sono rotto il cazzo: ho capito che dovevo veramente fare quello che veramente avevo intenzione di fare, punto. Prima invece ero comunque attento a capire cosa funzionava nella mia nicchia, cosa suonavano i miei dj di riferimento. Bene: stavolta non è stato così”.
(Eccolo, il nuovo album di Trani; continua sotto)
“Scenery” è l’album di una persona ancora giovane ma che, da vera innamorata della musica elettronica, è andato a cercarne le radici più profonde, solide, antiche. Quelle sviluppatesi quando il clubbing era ancora una manica sconclusionata di visionari cialtroni, che però non si facevano problemi – sia i dj/producer che i clubber – a gettarsi a corpo morto nell’intensità. Questo significa in certo tipo di techno “pesante” come scheletro, scheggiata da stilettate acide/ipnotiche, ma con una componente “utopica” sospesa tra Detroit (primi anni ’90) e il mondo jungle anglosassone (qualche anno più in là). “Scenery” poteva essere “Ah, il nuovo album di Mattia Trani” e di conseguenza un disco di techno molto contemporanea o, altra faccia della stessa medaglia, molto citazionista della meglio Detroit atkinsiana: qualora fosse stata una di queste due cose, era la cosa “giusta” da fare. E’ invece qualcosa di molto di più e molto diverso e, qui sta il punto, ciò è perché Mattia Trani da questo “Scenery” è stato – lo ripetiamo – ossessionato.
Se il disco sia bello o brutto, riuscito o imperfetto, non lo dirò qui. Una opinione ce l’ho; ma appunto, ho dichiarato fin dall’inizio molto onestamente che questa mia opinione potrebbe essere pesantemente influenzata dal fatto che sono entrato proprio nel flusso produttivo dell’intero progetto, con la conseguenza che sono diventato proprio “embedded”: troppo partecipe della fatica del progetto, dei suoi sforzi, dei suoi investimenti. Non va bene. Una cosa però ve la posso dire oggettivamente: “Scenery” non è un lavoro furbo, non è un lavoro opportunista. No. Non lo è. E’, volendo, un lavoro arrivista: nel senso che Mattia Trani l’ambizione ce l’ha e non la nasconde, vuole che la sua musica e la sua personalità artistica “arrivino” (vedi anche la cura in foto e quant’altro), ci tiene parecchio, ed ha anche abbastanza cazzimma per sperare – esattamente come hanno fatto i protagonisti di certa scena indie ed hip hop – di uscire dalla nicchia. Ma mentre altri hanno pensato che uscire dalla nicchia fosse possibile “alleggerendo” un po’ il proprio messaggio, levigando gli spigoli, semplificando le cose, cercando il punto d’incontro col (più) rassicurante, Mattia invece è sbattuto contro la sua personalissima ossessione e ha fatto un album che non si tira indietro su nulla. E che è esattamente come voleva che fosse. Magari il destino di “Scenery” è “No Future”, come il titolo della mia traccia preferita dell’album (assieme a “Simbiosi” ed “Inner Hardships”): perché tira troppo la corda, perché mette in campo riferimenti che in Italia non hanno mai funzionato del tutto (da noi ha sempre tirato più la tech-house da bella gente che l’acidata da rave visionario, e se proprio techno doveva essere allora o era quella del filone crucco berghainico o altrimenti un po’ ci si perdeva, a meno che non si fosse rimastoni da rave), perché è fatto male, perché è fatto non abbastanza bene. Ci sono tante variabili che influenzano la riuscita o meno sul mercato di un disco. Ma di una cosa sono certo, e ci metto la faccia per dirla: è un disco profondamente sincero. In una scena come la nostra dove troppo spesso pur di avere un posto in console (da dj, o da amico imbucato…) si butta a mare la sincerità, questa non è una caratteristica da poco.
Foto di Samuele Mastrangelo