Io vorrei che The Night Skinny, il The Night Skinny di “Mattoni”, diventasse un’app. Anzi, un plug in. Lo vorrei mettere nella mia radio, lo vorrei mettere nel mio Mac o nel mio Android quando mi metto – per dovere d’aggiornamento personale e professionale – a sentire cosa si aggira oggi per il mondo musicalmente parlando. Lo vorrei davvero. Non lo volevo prima: prima lui mi aveva già conquistato di suo, con dischi che erano dei piccoli capolavori (“Metropolis Stepson”, “City Of God”) o dei capolavori proprio grandi, almeno dal punto di vista della produzione (“Zero Kills”, “Pezzi”). In realtà proprio su “Pezzi”, all’interno di un discorso molto ma molto più vasto, scrivevo questa cosa qui:
La mia rabbia contro “Pezzi” nasce dal fatto che a livello di creazione artistica sonora e stilistica è sublime, è fenomenale, è un passo avanti; ma questo passo avanti non c’è stato al momento di pensare ad un concept e di sviluppare un discorso complessivo testuale. Occasione persa. Si è scelta la strada più facile: quelli di sembrare veri, “autentici” (perché si parla senza filtri di cose “scomode”), quando in realtà è solo un ammicco a qualcosa che tra l’altro è efficace a livello di popolarità presso il proprio pubblico di riferimento. Ma il punto è proprio questo: o sei Giovanardi e senti “droga” e subito inizi a gridare isterico allo scandalo e al pericolo di emulazione della nostra tenere ed innocente gioventù cristiana, o – proprio grazie a te, grazie a te rapper che hai iniziato a parlarne nei testi – queste cose non sono più così “scomode” o rivoluzionarie o iconoclaste. Sono il contrario: sono prevedibili, sono una carta sicura per ottenere il consenso più facile, sono una predica ai convertiti. Sono una routine del rap. Sono anzi peggio: sono ormai un luogo comune. Ora potresti fare un passo un più.
Due anni più tardi, questo “passo in più” è stato fatto? Sì. Mi sono preso un po’ di tempo per ascoltare e riascoltare il disco, mi sono anche divertito a vedere come aveva polarizzato le opinioni nel mio network di conoscenze: tra chi lo promuoveva senza se e senza ma, chi sorvolava, chi invece si concentrava su quanto fosse fiacco, o stupido, o inconsistente il rap (magari dicendo “…vabbé, con l’eccezione di Fibra e Noyz”). A chi fa parte di quest’ultimo gruppo, vorrei dire: voi “Pezzi” o non l’avete sentito, o non ve lo ricordate (…probabilmente ecco non l’avete proprio sentito, visto che se l’aveste sentito avreste amato la parte musicale ergendola a Manifesto Del Bello per un hip hop attuale ma originale, efficace ma intelligente, e non uso la particella avversativa per caso, ma di questo ne parliamo più sotto).
Infatti, andando al punto: “Mattoni” è un passo in avanti rispetto a “Pezzi” per i testi, che poi è un passo in avanti, questo, che è il riflesso di quello che succede effettivamente nella scena. Non è un passo in avanti gigantesco, sia chiaro: ma l’onda lunga dell’ostentazione crassa ed ottusa, nonché l’onda lunga di un più o meno subliminale peana alla stupefacenza da vip, si è per fortuna parzialmente frantumata facendo terminare l’acqua in vari rivoli, alcuni diventati un po’ maniera o comunque un po’ noiosi pure loro (la depre e la paranoia, classica conseguenza di un uso poco accorto di sostanze varie), altri invece più interessanti, fatti di riflessione, autocritica, autoscoscienza. Complessivamente più interessanti, insomma. C’è comunque molto storytelling in questo album, oltre alle solite punchlines (giusto riadattate agli stilemi che vanno per la maggiore oggi); c’è una voglia di raccontare il vero, di “tornare al punto” e non solo di farsi il viaggione. E’ finita l’euforia, è finita questa cosa per cui ci si sente invincibili e sempre vincenti: resta spesso l’arroganza – ma il rap è anche cazzimma, lo è sempre stato – però comunque filtrata da un senso di incertezza e di paura nell’affrontare il presente, e pure quello che potrebbe portarci il futuro. Nel 2019 si gioca a PES meno sereni che nel 2012.
Chiaro: tutto questo è fatto non in modo “alto”, intellettuale e sofisticato. Ma il rap “alto”, intellettuale e sofisticato non è il rap più adatto ad essere voce collettiva rilevante oggi, e non lo decidiamo noi, lo decide chi il rap lo ascolta e ne decreta così le sorti. In altri momenti il rap “alto”, intellettuale e sofisticato ha saputo colpire il cuore o almeno le attenzioni del mainstream, questo sì, o addirittura c’è riuscito a fondo nei primi anni ‘90 il rap pantero-nerista dei Public Enemy, ma ricordiamoci che tutti amiamo i Run DMC, no?, anche i più accigliati custodi della true school, ma porca eva provate a tradurli i testi dei Run DMC, provateci, per favore: improvvisamente vi toccherà rivalutare un po’ Drefgold. O quasi.
E comunque, poi: non è che in “Mattoni” ci sia solo rap “stupido” o iper-semplice. Tutt’altro. Sì Noyz, sì Fibra, loro indubbiamente fanno bene il loro compito, ma anche Rkomi fa grandi cose, e in generale tutti fanno il loro, portando se stessi al disco in modo quasi sempre convincente e facendo quello che devono appunto fare: portare (la loro) personalità al tutto.
(continua sotto)
Anche perché stavolta ce n’è bisogno, più di altre volte. Perché più di altre volte, Skinny si è messo nel ruolo “tecnico” di producer hip hop dell’anno domini corrente che deve provare a fare una cosa molto filologicamente hip hop. Ovvero, e qui torniamo finalmente al discorso dell’app e del plug in che facevamo nelle prime righe, deve prendere gli stilemi che vanno per la maggiore lì fuori in giro, nelle radio, nel commerciale, nell’industria dell’intrattenimento, e farne qualcosa di parzialmente diverso, qualcosa di ricontestualizzato ma non troppo. Ok, siamo d’accordo: la vetta resta quando in pochi semplici tocchi Premier o la cricca di producer dietro ad ATCQ o Pete Rock o Jay Dee tiravano fuori qualcosa di clamorosamente unico, stilosissimo, essenziale ma sexy, serioso ma irresistibile: those were the days, resteremo sempre legati a quella roba lì col cuore e col gusto. Ma bisogna rendersi conto che l’hip hop, per gran parte della sua storia, è stato soprattutto il “fagocitare” il mainstream del momento per risputarlo fuori leggermente modificato e ricontestualizzato il giusto.
Oggi viviamo nel cortocircuito per cui il mainstream è GIA’ il rap, questa la trappola: un rap interamente mutuato dall’America, dalla trap, da un territorio che parte da Drake e finisce ai Migos, con varie tappe intermedie. Musicalmente ed iconograficamente parlando, il rap di questi anni è in primis questo. E musicalmente ed iconograficamente parlando, il rap qui in Italia non è appunto più nicchia in cui poter sperimentare ma è il suono egemone con cui confrontarsi.
E questo ha fatto The Night Skinny. Che nei dischi precedenti aveva invece formato e formulato un suono particolarissimo, diverso da quello di chiunque altro, con soluzioni molto particolari, mentre ora con “Mattoni” si è voluto regalare l’esercizio di stile di lavorare già sui binari dei percorsi di successo consolidati, degli stilemi di matematica popolarità nel qui&ora. Essendo però lui bravissimo – perché tale qui Skinny si riconferma – lo ha fatto dando comunque sempre una patina speciale, un gusto particolare, una coltra di classe su tutto quello a cui ha messo mano.
Ecco perché lo vorremmo app, o plug in: sentiamo alla radio della dozzinale cassa in quattro intrisa di pop, o un trap cafone pieno di frizzi e lazzi da bambini dell’asilo o da mezzi ritardati, o delle melodie così pop che Baglioni al confronto è i Sonic Youth? Attiviamo il “plug in TNS”. Skinny in questo album pur partendo da tutto questa roba pop e tenendolo come intelaiatura – perché lo ripetiamo, oggi il mainstream si basa su questi ingredienti – riesce sempre a donare una colorazione e una profondità in più, nobilitando la materia in filigrana e non solo in filigrana. Non è una cosa da poco. Ci vorrebbe lui, al posto di un sacco di gente – non facciamo i nomi, va’, per non cadere nella trappoletta del dissing gossiparo – che appiattisce da anni se non da decenni il pop contemporaneo italico, e lo appiattisce così tanto che una “Soldi” o addirittura un Achille Lauro celentanico rock’n’roll possono passare da rivoluzionari innovatori (due buoni canzoni, soprattutto la prima, ma in giro s’è letto cose che pareva di aver di fronte il nuovo Phil Spector… anche meno, raga, anche meno).
“Mattoni” insomma riesce ad essere l’album che mostra, contemporaneamente, il mainstream sia per quello che è sia per quello che dovrebbe essere, almeno fino a che non cambia il vento. E inoltre, come i lavori passati, è un “producer album” che sceglie molto bene chi mettere al microfono e sa mettere a proprio agio ogni singolo mc, senza mai far subodorare quell’effetto slabbrato raccolta-di-figurine-celo-celo-mimanca che spesso è la maledizione dei “producer album”, da tempi immemori.
Disco promosso, quindi. A pieno. Se poi non vi piace il rap oggi così come va per la maggiore, e se non piacciono le basi dove su una drum machine tamarra c’è uno in sottofondo che fa le pernacchiette skrrrrrrrt, beh, sappiate che ai vostri padri o ai vostri fratelli maggiori facevano schifo, ma letteralmente schifo!, tutte le produzioni house che campionavano l’urletto di “It Takes Two”. E ve lo dice uno che odia le pernacchiette, e ama “It Takes Two”. Ricordare i propri gusti e amare le proprie radici non significa rifiutarsi a priori di capire qual è il suono del momento, come si compone, dove vuole andare, e non significa rifiutarsi premiare sempre a priori chi sa dare un twist originale e qualitativo a tutto ciò, invece di rifugiarsi nella routine, mainstream o di nicchia che sia.