C’è chi trova rifugio nel pianismo più intimo e delicato (Boosta), chi torna a percorre le strade di un pop “adulto” e sofisticato il giusto (Samuel); ma c’è anche chi va in cerca di vie più impervie, scoscese, atipiche – ed è il caso di Max Casacci. Il forzato periodo di pausa che si sono presi i Subsonica (che dovevano passare il 2020 a suonare in giro, ma vabbé, sappiamo tutto cos’è successo nel frattempo…) ha permesso un “rompete le righe” che ha comunque germogliato più di qualcosa. La creatura più sfuggente, dispettosa e complessa è proprio quella messa in campo dal musicista, per cause di forza maggiore anagrafica, con più anzianità di servizio all’interno della band: Max Casacci, appunto. “Earthphonia” è infatti un progetto molto, molto particolare. E’ un disco, certo; ma è anche un libro, e le due cose vanno di pari passo e si nutrono l’una dell’altra, fidatevi; soprattutto, è una avventura personale a trecentosessanta gradi che mette in campo temi, pratiche ed impegni che non sono esclusivamente musicali. Tutt’altro. Strutturano una precisa visione del mondo, dell’arte, della responsabilità. I rimandi più precisi alla genesi dei singoli brani di “Earthphonia” li potete trovare ad esempio qui (e sono molto interessanti), ma con Max – come resistere alla tentazione? – abbiamo fin da subito allargato l’obiettivo arrivando a parlare di politica, di Torino, di evoluzioni del clubbing e della musica elettronica. Farlo con lui è sempre un piacere; e significa, anche, avere a che fare con una persona che ci mette sempre la faccia. Anche quando si tratta di chiedere scusa. Non è poco. Tutt’altro.
Cos’è “Earthphonia”, di base? Un disco, con delle parti testuali d’accompagnamento? Un libro, con una colonna sonora acclusa? Entrambi? Nessuna delle due?
Nasce prima la forma musicale. Nasce senza l’intenzione di farsi album, e nasce un po’ per caso: quando le “pietre sonore” della scogliera di Gozo incontrate in maniera quasi accidentale mi trasportano all’improvviso attraverso una specie di “stargate” che genera una serie di reazioni ed intuizioni a catena. Il risultato finale è un album che nemmeno mi sarei immaginato di realizzare. Prima di arrivare al prodotto finito, infatti, ci sono stati vari passaggi che hanno via via costruito la consapevolezza attorno al progetto “Earthphonia” nel suo complesso. Ad esempio, l’incontro con Michelangelo Pistoletto: una figura chiave, anche per tutto l’impianto teorico da lui disegnato attorno al cosiddetto Terzo Paradiso, ovvero lì dove l’uomo ritrova finalmente il suo equilibrio con la natura e lo fa attraverso la tecnologia (…quella stessa tecnologia che nel Secondo Paradiso ci scollava dalla natura, ora può aiutare a riappacificarci con essa). E’ stato proprio Pistoletto, ispirato dal video delle “pietre sonore” di Gozo, a chiedermi di creare un’opera sonora con simili principi produttivi da tenere all’interno della sua Cittadellarte. E sono stati importanti le sue indicazioni, i suoi espliciti desideri. Non voleva una roba troppo concettuale, astratta, troppo legata all’estetica del field recording puro; no, voleva qualcosa di più compiuto, coinvolgente, “caldo”, intellegibile da tutti. Io gli dico “Va bene”, ma senza nemmeno sapere se ci sarei riuscito… (sorride, NdI). Questa richiesta mi mette in contatto con il rapporto tra materia prima della natura e l’obiettivo di creare un oggetto sonoro articolato musicalmente, melodicamente, un prodotto “finito” insomma, e non solo semi-lavorato. Una bella sfida. Ed una chiave interpretativa su come procedere, per dare vita a qualcosa di personale, di per me avvincente. Davvero, un salto di qualità: perché mi fa capire quale può essere un modo per mettere davvero qualcosa di “mio” nel lavorare i suoni “concreti”. Ma ancora lì, non c’era l’idea di fare un album vero e proprio…
No?
Quella arriva un paio di episodi dopo. Ma appunto: nasceva questa voglia di portare davvero avanti un percorso molto personale, diverso da quello che c’è in giro – se non altro perché ci metto una mia forte soggettività e questo essere “a metà” tra il compiuto, il compositivamente strutturato e la purezza del suono naturale… La svolta è stata il lockdown, perché con tutte le sue conseguenza negative almeno mi ha permesso di lavorare con molta più calma e lentezza sul progetto – non c’erano molte alternative, no? – e quindi di prendermi anche una o due settimane per provare degli esperimenti che poi magari buttavo pure via, perché erano false piste. In una situazione più “normale”, non avrei mai potuto permettermi questo lusso: i tempi di regola devono essere molto più ottimizzati. Ecco che quindi altre sollecitazioni esterne in arrivo, come quelle del Parco del Delta del Fiume Po e della regione Emilia Romagna, che mi commissionano una musica che “sonorizzi” quella zona avendone come base i suoni, fanno procedere il tutto: il lockdown in realtà mi blocca quando ero già pronto a partire armato di microfoni e tutto, e alla fine sono loro a spedirmi i file sonori a distanza, quelli su cui lavorerò. Una cosa simile succede con la Onlus Worldrise, che mi manda i suoni degli Oceani per vedere cosa poterne tirare fuori. Bene: c’è a questo punto una distinzione da fare tra la prima fase di lockdown, quella di marzo, e la successiva arrivata a novembre…
Ovvero?
I lavori attorno al primo nucleo di “Earthphonia” sono arrivati soprattutto durante la prima fase di lockdown: quando eravamo in qualche modo tutti un po’ più puri, più pronti anche a lavorare con l’immaginazione su mondi nuovi nel momento in cui finalmente si poteva ripartire. Finivi coll’essere spontaneo, anche ingenuo se vuoi, ma questo è un approccio che ho voluto mantenere e portare avanti fino in fondo – anche se poi col secondo lockdown è diventato tutto un po’ più confuso (…magari anche per quel piccolo assaggio di sedicente ritorno alla semi-normalità avuto in estate), e si è persa un po’ dell’umanità e appunto della purezza iniziale collettiva, generata dall’essere catapultati senza preavviso in una situazione che ti piazzava in un mix di terrore e di sentirsi terrorizzati da un lato, e dall’altro invece dalla voglia contemporanea di reagire facendo fronte comune, unendosi, sentendosi un tutt’uno, per essere (o anche solo sentirsi…) più forti.
C’è un’esplicita ammissione, nel libro che accompagna il disco, che mi è molto piaciuta: quella di essere tu di base, per nascita e anche per attitudine, un “cittadino”.
Lo sono sempre stato. Non voglio fare quello che cavalca l’ambiente per farsi bello, solo perché è il tema del momento. Racconto senza imbarazzi che fino ai trent’anni pensavo che i passeri fossero i figli dei piccioni, solo perché non mi era mai capitato di vedere un piccione piccolo in via mia e quindi… (ride, NdI). Fortunatamente, nella mia vita mi è capitato di poter viaggiare tanto, e di conseguenza ho anche visto degli scenari naturali incredibili: ma lì mi sono sempre sentito un po’ un “intruso”, un “metropolitano integrato” che solo per caso e per privilegio estemporaneo si trovava al cospetto di meraviglie della natura. Più passava il tempo, però, più venivo a contatto con informazioni, meraviglie, stupori sempre più intensi: una polifonia di esperienze che poi è stata aumentata dagli incontri e dalle collaborazioni con Mario Tozzi, Stefano Mancuso, Michelangelo Pistoletto, Carlo Petrini, Mariasole Bianco, anche un Vasco Brondi tirato un po’ per la giacca. Ecco, un viaggio così intenso, ricco ed articolato che ho pensato fosse necessario raccontarlo anche in una parte testuale che accompagnasse il progetto “Earthphonia”, e ne fosse parte integrante. Nasce prima la musica, quindi; ma la parte di testo, di narrazione, è importantissima.
(Intanto, ecco la musica; continua sotto)
E in questa narrazione mi colpisce molto il fatto che senti l’esigenza proprio di “presentarti” al pubblico: hai l’approccio di chi deve raccontare se stesso (anche) a persone che non hanno mai sentito nominare i Subsonica, o anche solo Deproducers…
Quando come in questo caso le esperienze musicali sono delle pagine bianche da cui partire, a cui essere introdotti da uno “stargate”, da un’epifania improvvisa, la cosa bella è che proprio ti metti in gioco da zero, davvero. Sai, se la tua storia personale come artista è qualcosa che ti ha permesso di accumulare delle skill nel tempo, è comunque una cosa buona; se invece diventa una zavorra che ti porti dietro solo per pretendere autorevolezza a prescindere, beh, allora non va bene. Tanto più che oggi come mai prima lo scenario cambia sempre più spesso – cosa che ad esempio i musicisti pop della nuova generazione hanno capito benissimo, altri molto meno. Sarebbe bello lo capissero anche i politici: faremmo scelte più coraggiose, saremmo meno legati a giochi da pallottoliere, che nascono superati proprio in partenza. Ecco, a me questa cosa è chiara. Ed è chiaro anche il fastidio crescente delle nuove generazioni verso l’ingombro rappresentato da quelle precedenti. Se io voglio essere a contatto con le parti più vive della società, devo insomma avere il buon senso di presentarmi, di arrivare in punti di piedi, e di farlo anche le volte in cui magari sono loro a cercarmi per prime, come è successo nel caso di Fridays For Future ed Extinction Rebellion. Non è che posso arrivare tutto tronfio “Eh, io venduto tot dischi, fatto tot concerti, riempito palasport, girato il mondo, ora vi concedo l’onore di sentire la mia nuova genialata”. No. Come minimo, prima di tutto ho il dovere di presentarmi. Anzi, ti dirò di più: spesso ho percepito il mio pregresso come qualcosa di ostacolante. “Sì, quello che ha fatto robe da classifica, che è stato a Sanremo, ad MTV – vuoi che sia in grado di fare delle cose davvero interessanti e sperimentali? Figuriamoci…”. Se devo fare le canzoni le faccio coi Subsonica; se devo fare i testi li faccio coi Subsonica; se devo andare nei palazzetti lo faccio coi Subsonica. Nel momento in cui mi metto in gioco da solo, non voglio riproporre una visione amputata di quella esperienza. No: cerco di fare qualcosa di completamente diverso. Ho la fortuna di poterlo fare, ho la fortuna di potermi prendere del tempo per farlo – e lo faccio. Di più: facendolo, mi ricollego anche alle mie origini musicali, perché i miei primi lavori sono stati colonne sonore per teatro contemporaneo e per danza sperimentale. In questa maniera, con “Earthphonia” mi sento a maggior ragione vicino a una specie di “serbatoio di giovinezza”.
Tra l’altro, riguardo ai giovani e alle nuove generazioni, sempre nel libro legato all’operazione “Earthphonia” dici una cosa molto interessante: parlando della parte più impegnata, quella legata alle questioni ambientali, noti come non abbiano con sé una “zavorra idealogica”. Tu, per motivi anagrafici, hai fatto in tempo a beccarti l’onda lunga dell’impegno politico diffuso e pervasivo degli anni ’60 e ’70, dove l’ideologia era un primo motore: è veramente diventata una zavorra, oggi? E’ necessario, nel 2021, ragionare in maniera diversa?
La differenza tra oggi ed allora è che oggi abbiamo proprio delle scadenze nette di fronte a noi. Perché la scienza ormai sta dando delle datazioni precise per un possibile collasso ambientale, se non cambiano molte cose. Non sono questioni che puoi più eludere, o che puoi rinviare all’infinito, tirare in lungo. No. Bisogna quindi essere pratici, pragmatici. Bisogna andare al nocciolo della questione. I ragazzi che si stanno impegnando sulle questioni ambientali si sono assunti su di sé un ruolo fondamentale, quello di fare da tramite tra le evidenze offerte dalla comunità scientifica e la classe politica, per portare le evidenze della prima all’attenzione di quest’ultima, spesso cieca e sorda. E hanno capito, appunto con grande senso pratico, che il modo migliore per farsi ascoltare e per diventare visibili e rilevanti agli occhi non solo della politica ma anche delle altre forze decisive della contemporaneità (il mercato, l’industria, l’economia…) è uno solo: è farsi vedere, riempire le piazze. Sì, c’è la sfera personale, privata, in questa lotta; io per primo quello che ho potuto fare l’ho fatto, la mia casa è a basso impatto energetico, giro in bici, visto che la macchina comunque resta per ora un bene necessaria ho scelto il noleggio a lungo termine di un mezzo ibrido, eccetera eccetera. Tutto molto bello. Ma se poi le elezioni le vince Trump, tutto questo conta zero. E’ insomma sempre necessario percorrere meccanismi che vadano a toccare, in ultima istanza, la politica. Non è che puoi eluderla. Ma rispetto alle generazioni più vecchie come la mia, oggi si è capito che è il caso di farlo con meno tortuosità e, soprattutto, evitando di cadere troppo nei personalismi. Mi pare ci si stia riuscendo. Chiaro, la figura iconica serve sempre, senza una Greta Thunberg non vai a parlare alle Nazioni Unite, ma tutti i ragazzi che ho conosciuto io e che sono impegnati in queste battaglie fanno sempre attenzione a parlare al plurale e a non ritagliarsi ruoli di popolarità individuale. Quante volte abbiamo visto in passato delle ottime cause rovinate dall’ambizione personale, dalle lotte di potere individuali? Ecco che quindi evitare di farlo diventa una scelta non solo e non tanto “nobile”, quanto proprio pragmatica.
Spesso ho percepito il mio pregresso come qualcosa di ostacolante. “Sì, quello che ha fatto robe da classifica, che è stato a Sanremo, ad MTV – vuoi che sia in grado di fare delle cose davvero interessanti e sperimentali? Figuriamoci…”. Se devo fare le canzoni le faccio coi Subsonica, se devo fare i testi li faccio coi Subsonica, se devo andare nei palazzetti lo faccio coi Subsonica; nel momento in cui mi metto in gioco da solo, non voglio riproporre una visione amputata di quella esperienza. No, cerco di fare qualcosa di completamente diverso
Sempre parlando di politica, molti ti rinfacciano ancora oggi l’aver appoggiato Fassino, anni fa, ai tempi in cui era candidato sindaco a Torino. E’ stato eletto, ma a livello di politiche messe concretamente in campo poi non è andata benissimo.
Considera che alle ultime elezioni per il sindaco, quelle successive alla tornata a cui ti riferisci, non ho proprio votato: non mi sembrava che Fassino fosse la scelta giusta. Vedi, io ho molta stima delle risorse che offre la mia città. Risorse che però puntualmente la politica cittadina non riesce ad intercettare, anzi, se possibile le soffoca pure e fa loro da tappo. La cosa di Fassino fatta all’epoca non era un “appoggio”. Era invece una questione diversa, e molto più articolata: si trattava di esserci per far “pesare” un mondo. Quel mondo cioè che ha fatto sì che Torino diventasse la città dei 100.000 studenti (moltissimi in arrivo da fuori), la città in grado di ridurre il gap sulle nuove culture e socialità rispetto al resto d’Europa; un mondo che è sempre a rischio di essere spento a colpi di ordinanze comunali – come del resto in quegli anni era appena successo a Bologna, sotto la giunta Cofferati. E’ successo insomma che la realtà di cui facevo parte, Torino Sistema Solare, colse al volo un input di Fassino che voleva “…parlare con dei giovani”. Input non casuale considerando che il suo avversario in quella tornata elettorale per il centrodestra era un ex PR nei club, quindi ecco, aveva già un canale aperto con un certo tipo di elettorato, bisognava controbattere. In quei giorni era chiaro a tutti che Fassino avrebbe vinto comunque: non aveva bisogno insomma del nostro appoggio. Quello che abbiamo fatto – e la faccia ce l’ho messa io – è stato andare appunto a far “pesare” un mondo, quello dei club, della musica elettronica, quello di un certo tipo di cultura, presentando le loro istanze e, prima di tutto, un principio molto banale e semplice, ovvero “Non vogliamo un sindaco-sceriffo, non vogliamo un Cofferati”.
E?
Questa sfida è stata vinta, in un primo momento. Poi è successo che in una città dalle casse pubbliche davvero in crisi si è iniziato a mandare in giro i vigili a fare multe ai locali giusto per fare cassa, ma nulla di paragonabile a quello che poi è avvenuto con la giunta successiva, quella a guida M5S. Una giunta che è arrivata praticamente ad imporre il coprifuoco: un po’ per accanimento normativo, un po’ per una totale mancanza di cultura sulle varie anime della città e sulla ricadute positive che possono offrire. Mancava e manca una figura come quella di un “sindaco della notte”: qualcuno di credibile, competente, abile a dialogare ed a mediare fra le diverse istanze; qualcuno con alle spalle studi e riflessioni in grado di tradurre l’effettiva ricchezza della “cultura della notte”, che è qualcosa di molti diverso dalla banale ed indistinta “movida”. La “movida” non porta da nessuna parte, è fine a se stessa, la “cultura della notte” ingloba invece in sé radici che arrivano da lontano, dall’underground degli anni ’80, e che dal decennio successivo hanno reso Torino una città veramente speciale. Insomma, tornando alla domanda: se qualcuno vuole vedere quella operazione semplicemente come un mio appoggio a Fassino, posso solo dire che no, le cose non stanno così.
Ma Torino è ancora una città speciale?
Sì. Perché riesce a rigenerarsi. Soprattutto sotto una certa soglia anagrafica – soglia anagrafica che peraltro non viene assolutamente intercettata dalla politica. Credo che in questi mesi ci attrezzeremo come movimenti civici per dare voce a questa progettualità, al momento completamente inascoltata. Torino continua a rigenerarsi anche perché, tra l’altro, continua ad essere una città che attrae, che porta gente da fuori; e chi arriva da fuori, sono persone che hanno scelto di uscire da una propria “comfort zone”, persone che sanno mettersi in gioco, hanno motivazioni, spirito d’iniziativa, voglia di fare – insomma, qualcosa che arricchisce tanto la qualità del tessuto sociale, sempre. Sai qual è il vero problema di Torino?
Dimmi.
Che per quindici anni siamo rimasti paralizzati dal dibattito sulla TAV. Questa è una cosa che si sottolinea sempre troppo poco. Il dibattito culturale e politico è rimasto bloccato perché alla fine sempre lì si andava a cadere, sempre; salvo poi scoprire che anche nel momento in cui al ruolo di sindaco arrivava un politico, come la Appendino, legata come movimento ad una posizione ben precisa, in realtà non cambiava nulla: perché la governance possibile della città su questo argomento era praticamente assente, o comunque molto, molto limitata. Avvitarsi così sulla TAV è stato un tappo molto, molto forte. Guarda, soprattutto per quanto riguarda i miei coetanei Torino mi pare una città piuttosto ferma: è disillusa, ha perso la vitalità, una vitalità che invece ritrovi comunque in altre città – a partire da Milano. E’ insomma davvero imprescindibile riuscire ad intercettare la vitalità, la spinta e la voglia di immaginare nuovi scenari delle giovani generazioni.
Torino continua a rigenerarsi anche perché, tra l’altro, continua ad essere una città che attrae, che porta gente da fuori; e chi arriva da fuori, sono persone che hanno scelto di uscire da una propria “comfort zone”, persone che sanno mettersi in gioco, hanno motivazioni, spirito d’iniziativa, voglia di fare – insomma, qualcosa che arricchisce tanto la qualità del tessuto sociale, sempre
Che poi, parlavamo di club e musica elettronica: si tratta di un mondo che è molto cambiato, rispetto agli anni ’90. Un tempo era nicchia e controcultura, o almeno cultura alternativa; oggi sotto molti punti di vista è mainstream, e del mainstream prende molti meccanismi. Ad esempio tutta la faccenda delle megaproduzioni, dei dj superstar, qualcosa che era inimmaginabile nella prima parte degli anni ’90 (…che poi è quando Torino, e non solo Torino, hanno iniziato a mettersi sulla mappa, per quanto riguarda la “cultura della notte”).
Io ho l’impressione che, esattamente come nel rock, anche nell’elettronica questa mistica “da superstar” stia iniziando a mostrare la corda. In effetti l’elettronica dei primi anni ’90, del rave, sovvertiva quell’aspetto “teatrale” del rock dove c’era un palco che era il fulcro di tutto, e il pubblico era un recettore più o meno passivo. Improvvisamente prendeva piede un’idea di protagonismo collettivo, senza facce, senza star. La cosa ha funzionato così bene ed è piaciuta così tanto che ad un certo punto ha raggiunto una forza numerica che, incanalata in alcuni testimonial come Daft Punk, Prodigy, Chemical Brothers, Underworld, ha generato delle spinte e delle dinamiche simili a quelle del circuito pop-rock. Per certi versi è stata una vittoria, perché in questo modo la musica e la cultura elettronica è stata definitivamente sdoganata, è diventata sempre più patrimonio condiviso. Ma col tour americano dei Daft Punk sono stati gettati i semi per tutto ciò che è diventato poi EDM. Da lì, sono iniziate ad arrivare richieste sempre più problematiche a livello di sostenibilità, e parlo non solo di economia ma anche di altre questioni, come ad esempio gli spostamenti compulsivi via aereo. Extinction Rebellion ad esempio, citata prima, ha una posizione molto critica sui dj che si spostano in jet privati. Cosa succede? Succede che ora tutta una serie di aspetti controversi – nel momento in cui ci si rende conto che viene sempre più minata la sostenibilità di base – iniziano progressivamente ad emergere, a farsi sentire. Molte cose devono essere riviste. C’è una ingordigia di plusvalore a cui si deve dare un taglio. A me personalmente comunque continua ad interessare un po’ più un’altra faccia della musica elettronica, quella che è stata descritta da Simone Reynolds – in un articolo che ha fatto anche molto discutere – come “conceptronica” (…al di là di tutto, io per primo ho trovato utile la creazione di un termine che in qualche maniera perimetrasse un certo tipo di territorio musicale che ha per confine l’elettronica da un lato, la musica contemporanea dall’altro, andando al di là di ciò che è “dance”, “club”). Un’area quest’ultima che continuo a trovare molto divertente, è molto interessante come intrattenimento, sì, ma io da musicista tendo a puntare le antenne più verso, appunto, quella che potremmo chiamare “conceptronica”. Di sicuro non le punto verso l’EDM, ecco.
Peraltro, ho intercettato un po’ di polemica su Facebook attorno ad “Earthphonia”, o meglio, attorno ad alcune parole che lo veicolano…
…sì, credo di aver capito che intendi.
Sì, l’operazione viene più o meno descritta come qualcosa di inedito, come qualcosa di mai fatto e tentato prima, e un po’ di gente – producer anche esperti – se l’è presa a male.
Li capisco perfettamente.
Come stanno davvero le cose?
Capisco perfettamente il fastidio, a leggere certe parole. Soprattutto se uno è anni che si sta dedicando a un certo tipo di esperienza sonora, di direzione, e all’improvviso arriva uno dal pop che dice “Ecco, guardate, ho fatto questa cosa qua e nessuno l’aveva mai fatta prima!”. In realtà tutto nasce da un equivoco. O meglio, nasce da un comunicato stampa preparato dalla parte “letteraria” di chi è editore di “Earthphonia”, perché la parte “musicale” l’ho seguita tutta io e magari sono stato più attento a non creare fraintendimenti. Da un punti di vista di prodotto editoriale “letterario”, “Earthphonia” è effettivamente qualcosa di abbastanza raro: non è un libro, è un “iperlibro”, con la sua colonna sonora, i QR code che ti servono per orientarsi al suo interno… Quindi sì, “Qualcosa di mai fatto prima” non era riferito alla musica, essenzialmente, al fatto di campionare i suoni della natura e dell’ambiente; ma visto che erano parole ricondotte a una cosa fatta da me, a un prodotto artistico con la mia firma sopra, capisco che sia nato del disappunto proprio nei miei confronti. E’ qualcosa che davvero capisco e anzi mi piacerebbe avere un dialogo con alcune delle persone che hanno manifestato malcontento, per le doverose scuse e spiegazioni e, qualora fossero anche artisti come so che è in alcuni casi, mettere pure eventualmente a disposizione i miei canali per diffondere il loro lavoro, visto che di mio sono un grande appassionato di field recording, di un certo tipo di approccio musicale. Penso però di poter dire che quello che ho fatto “Earthphonia” è leggermente diverso rispetto ad altro ed altri: come dicevo prima, nel prendere dei suoni “concreti”, presi dalla natura e dall’ambiente che ci circonda, ho voluto con un procedimento per certi versi pop – anche perché appunto il pop fa parte della mia storia – rendere tutto più melodico, più ricco armonicamente, più orchestrato… Devo anche io riascoltare a mente lucida, facendo passare un po’ di tempo, il risultato finale, per capire se ha effettivamente funzionato; di sicuro però sono partito senza avere dei punti di riferimento precedenti, e il tutto è nato anche – come raccontavo all’inizio – da una serie di casualità e di sollecitazioni esterne non previste che poi mi hanno portato a completare un certo tipo di percorso. Percorso che, visto e declinato in una prospettiva più pop, non credo sia mai stato molto battuto. Lo può aver fatto Herbert, ecco…
…o i Matmos.
Esatto, anche se i Matmos molto più Herbert tendono invece a direzionarsi, loro sì!, nel field recording, nella sperimentazione, nella musica concreta, diventando ogni tanto molto, molto concettuali. Mi pare invece che Herbert nei suoi momenti migliori abbia raggiunto una grandissima fluidità. Però ecco, tornando ad “Earthphonia”: non è certo il primo disco costruito coi suoni della natura o in generale con suoni “ambientali”, ci mancherebbe. Ma mi piace pensare che abbia un approccio e un background abbastanza unico, particolare. Questo, sì.
Foto di Luca Saini