Spesso ci ritroviamo a parlare di emozioni musicali in termini evanescenti, di anima delle frequenze, di brividi e colori della musica dimenticandoci che alla base c’è poco di evanescente quanto invece palpabili fasci di terminazioni nervose. Costruzioni sonore, architetture di suono travolgenti nel dettaglio che puntano spesso alla mente sfruttando muri di bassi come costanti e perforanti gocce di frequenze, questo è Max Cooper. Fortemente influenzato dal suo passato da ricercatore genetico, l’artista, originario di Belfast ma residente ora a Londra, esce con i suoi primi lavori sull’Evolved Records di Allan Banford per poi trovare maggiore stabilità sulla Traum Schallplatten e sulla Herzblut Recordings di Stephan Bodzin. Max Cooper è metodo, ricerca e applicazione, è cercare di capire le connessioni fra l’individuo e il suono al fine di poter far gioco sugli aspetti più malleabili di questi nessi. E’ interessante notare come, qualche volta, si possa parlare di musica anche in termini di causalità e controllo, di focalizzazione sulle reazioni più che sugli intenti. Sono proprio questi gli elementi su cui fa leva Cooper arrivando a costituire reticoli multimediali improntati sulle possibili risposte dell’ascoltatore. Una chiacchierata decisamente diversa dal solito che però ci dà la possibilità di ragionare su aspetti su cui, forse, solitamente ci soffermiamo poco.
Dalla biologia computazionale al dancefloor il salto c’è, eccome se c’è. Se si pensa alle energie e alle ore di lavoro dedicate per completare i tuoi studi sorge naturale chiedersi: come mai la decisione di lasciare tutto e inoltrarsi nel mondo della musica? Perché e quando hai deciso di fare questo salto?
In realtà non è stata una decisione ragionata. Adoravo applicarmi alla musica e alla scienza, lavoravo duro ad entrambe. A quanto pare però la musica è andata a costituire la mia principale ragione di vita, anche se mi piacerebbe riuscire ancora a seguire entrambe le cose. Tornerò nuovamente alla ricerca scientifica un giorno!
Se possiamo dire che c’è un gap fra la tua laurea e la tua vita attuale è innegabile anche che ci siano molti collegamenti fra il tuo passato e il tuo presente. Non a caso la trilogia di EP “Stochastisch Serie”, “Harmonisch Serie” e “Chaotisch Serie” pubblicati sulla Traum Schallplatten si ispira a tre importanti concetti e realtà della matematica: i processi stocastici, le serie armoniche e la teoria del caos (se non vado errato). Come mai hai deciso di portare nel dancefloor proprio questi 3 concetti scientifici?
La musica è più che semplice suono, è tutto ciò che si può sapere su quel suono. L’artista, il genere, l’etichetta, il lavoro e la fatica, i luoghi e tutto ciò che si può associare a questi elementi generano, combinandosi, il momento che quella determinata musica produce. Adoro associare la mia musica a idee per cui nutro interesse, in questa maniera la gente ha la possibilità di fare esperienze più ricche. I punti di forza delle associazioni variano nelle diverse Serie: in Chaostisch Serie ad esempio ho cercato di raffigurare le transizioni da ordine a caos (senza riferirmi a sistemi di caos formali), in Stochastisch Serie ho cercato invece di inserire seample in maniera casuale, anche se, successivamente, ho prodotto tracce decisamente più stocastiche, per così dire, sfruttando processi casuali molto più liberi.
Una mera curiosità: quali sono, nella realtà dei fatti, i collegamenti fra le tracce e la realtà matematica? Hai applicato o traslato anche qualche concetto matematico o hai preferito tramutare le tue personali interpretazioni di chaos, entropia e armonia in musica?
Generalmente le connessioni possono essere descritte come interpretazioni artistiche di quei concetti. Sono sempre alla ricerca di nuovi modi per rappresentare musicalmente ciò che musica non è. Possono essere concetti matematici, idee filosofiche, forme, colori, oggetti e altro. Una volta che ti ritrovi intrappolato in questo tipo di approccio è impressionante notare quante possibilità ti si aprano, sia in termini di elementi che puoi cercar di tradurre sia di modalità in cui farlo, di idee che ne derivano -ecco il motivo per cui produco molta musica, ho sempre più idee e sempre meno tempo. Mi piacerebbe lavorare a trasposizioni più esplicite ma, come sappiamo, questo genera quasi sempre prodotti musicalmente inaccessibili.
Spesso decidi di accompagnare le tue tracce con video particolarmente suggestivi e strutturati collaborando, ad esempio, con artisti come Whiskas Fx, Zakharov, Nick Cobby, Cèdric De Smedt (uno degli ultimi, che ha dato vita ad un video profondamente esplicativo), Graphset e molti altri. Come mai questo grande interesse nell’accompagnare la tua musica con video ad hoc?
Deriva sempre dal mio interesse nel voler arricchire l’esperienza puramente musicale, oltre che al mio amore per l’arte visiva. Inoltre spesso i visual sono fortemente connessi con ciò che la mia musica vorrebbe significare. Sono sempre stato un “visual-thinker” e mi piace pensare la mia musica in questi termini, quindi anche lavorare ai visual mi dà molte soddisfazioni.
E il ruolo che hanno i video nel momento in cui vengono suonati live rimane invariato? Ad esempio con Andrew Brewer (aka Whiskas Fx) hai collaborato al Paradiso di Amsterdam per una performance molto particolare… Godere di tale fusione audio-video non è sicuramente paragonabile a quando lo si fa a casa davanti al proprio schermo, facendo magari più attenzione ai particolari…
Già, i visual utilizzati nei club appartengono ad un altro tipo di esperienza, il dancefloor è distrutto e sono anche le 5 di mattina! [ride] In ogni caso sto lavorando proprio in questo periodo a nuove installazioni video in modo da portare l’intera e originale esperienza audio-visiva alle gente, sfruttando metodi più controllabili.
In un’intervista e in un tuo articolo sul magazine inglese NME hai parlato dell’importanza che ha la semplicità per l’uomo. Hai inoltre affermato “Science is the art of looking for patterns in nature in order to compress information – simple rules yielding apparently complex behaviour. And music is fundamentally patterns in sound waves, with again simple rules often underlying what may sound complex”. Si può dire quindi che la semplicità sia “l’essenza della vita”? In che senso l’uomo è incline alla semplicità?
Direi che siamo evolutivamente pronti a godere della ricchezza della semplicità, sì. Più la nostra specie migliora nella ricerca di semplici regole alla base del complesso sistema in cui viviamo, più avrà successo, in quanto saprà sfruttare queste regole a proprio vantaggio. E con “ricchezza della semplicità” intendo regole chiare che determinano conseguenze inaspettate e di vasta portata, non soltanto pura “semplicità”, che potrebbe risultare banale. Per quanto riguarda la domanda sulla semplicità intesa come essenza della vita, sembra proprio che leggi elementari, eleganti e d’impatto siano alla base del mondo naturale. Pensando alla vita in maniera più specifica, i meccanismi molecolari costitutivi di qualsiasi essere vivente sono spaventosamente semplici rispetto alla complessità e ricchezza della vita in sé; quindi, lo stesso concetto sembrerebbe poter essere applicabile a diverse aree di ricerca. Allo stesso tempo, non sono sicuro che “semplicità” sia il termine specifico volto all’identificazione dell’essenza della vita piuttosto che qualcun altro. Forse “semplicità come fondamento della natura” potrebbe essere una descrizione più efficace.
Permettimi allora una provocazione: non c’è però il rischio che proprio tale naturale inclinazione alla semplicità possa portare all’abbrutimento forzato della ricerca, all’appiattimento della varietà, anche ed in particolar modo in ambito musicale?
Certo, senza dubbio. Infatti non sopporterei il fatto di dover essere relegato ad un’unica modalità per scrivere musica. Ciò di cui stavo parlando, in riferimento alla citazione che hai riportato, aveva più a che fare con un’analisi delle motivazioni per cui le persone sembrano rispondere positivamente a forme musicali tutt’altro che ovvie; ad esempio, perché si preferiscono alcune melodie piuttosto che altre? Non sto dicendo che basarsi su questi fatti sia un modo migliore di comporre musica o che sia quello che utilizzo io, ma che è un’idea sul come si possa interpretare la musica.
A questo punto: potresti definire “semplice” la tua musica? Perché?
No, inoltre è molto complesso descrivere e definire la musica, specialmente considerando che ciò che faccio è focalizzato molto su come l’ascoltatore percepisce il prodotto finale, cosa che rende variabile di volta in volta un’ipotetica definizione. Penso sia proprio questa la forza della musica, il suo poter comunicare direttamente con il subconscio dell’ascoltatore generando una risposta. Ha più potere delle parole in questo senso, anche se è un meccanismo comunicativo meno raffinato, molto più diretto e d’impatto.
Cambiando argomento: si nota facilmente che tieni molto alla connessione con il pubblico attraverso i social network. Ti si legge spesso discutere di hardware e software, scambiare pareri sulle tue produzioni e via di scorrendo. Come mai quest’interesse nel tener vivi rapporti di questo tipo? Sono scambi a doppio senso? Ti capita di prender spunto da quello che ti scrivono?
Assolutamente, faccio molta attenzione a ciò che la gente pensa. Mi piace ascoltare pareri differenti. A volte ho anche preso spunti utili da questo tipo di connessioni, nonostante solitamente ciò avviene dopo un po‘ che scambio idee con persone specifiche e di cui con il tempo ho imparato a fidarmi.
Inoltre, proprio sfruttando internet, rilasci produzioni, in particolar modo edit e remix, che spesso non entrano a far parte della tua discografia ufficiale. Specialmente nell’ultimo anno la quantità di re-work e remix da te rilasciati è diventata imponente. Come mai questa tua attenzione per le rielaborazioni?
Parlerei più di remix che di re-work. Ci sono un sacco di ottimi motivi per fare un remix, ma il migliore è quando noto qualcosa di veramente bello che però non è stato messo in evidenza nella traccia originale, qualcosa che possa costituire un’ottima traccia e che mi spinga a farlo. A quel punto devo necessariamente fare un remix. Inoltre è una grande occasione per combinare idee, le migliori di qualcuno con le migliori di qualcun altro. In questa maniera, spesso, il risultato è più soddisfacente dell’originale.
Uno dei tuoi lavori più importanti è senza dubbio quello sulla traccia del compositore Michael Nyman e il cantante David McAlmont. Perché proprio questa scelta? Com’è nato il progetto, è stato semplice avere il via libera di Nyman?
E’ stata un’ottima occasione per provare qualcosa di diverso. Ho ricevuto due file audio, uno con la registrazione live dell’orchestra e uno con la voce. E’ stato un modo di lavorare abbastanza nuovo per me, qualcosa di inusuale nel mondo dell’elettronica, per questo mi ha intrigato da subito e ci ho lavorato sodo sperando di avere risultati interessanti. Non so bene come sia nata la cosa, ma di fondo Michael Nyman era interessato ad ascoltare cosa sarebbe uscito fuori. Fortunatamente i primi risultati gli sono piaciuti e quindi il progetto è andata avanti.
L’articolazione dell’EP nelle due tracce “Decostruction” e “Recostruction” può esser vista come un tuo classico modo di lavorare ad un remix? E che rapporto intercorre fra le due tracce? Immagino i due titoli si riferiscano al tipo di lavoro fatto sulla traccia originale…
Per un remix standard ogni elemento, suono della traccia è fornito nella sua forma basica, separata dal resto, quindi si ha già una brano di musica “smontato”. Ma per il remix in questione avevo la registrazione di un un’intera orchestra in un unico file, quindi ho dovuto prima lavorare per capir come prendere i suoni che mi interessassero e creare la mia personale versione “decostruita”. Dopo di che ho realizzato che era troppo distante dall’originale, forse troppo diversa per essere considerata un remix. Così sono tornato indietro per creare qualcosa che suonasse in maniera più simile all’originale utilizzando i micro-elementi sfruttati nella prima versione. E’ stato un approccio che non avevo mai provato precedentemente, un approccio che traspare nelle due versioni, così ho pensato di riprendere da qui i titoli delle tracce.
Andiamo a concludere parlando di live. Quanta dance e quanta introspezione cerchi di inserire nelle tue esibizioni? Mi spiego meglio: le tue produzioni si distaccano spesso dall’ideale di “traccia da pista”, quindi che dinamicità cerchi di dare alle tue performance quando suoni le sopracitate tracce?
Amo calare i miei live set in sezioni di ascolto introspettivo, ma non tutte le situazioni permettono la medesima libertà d’azione, devo valutare di volta in volta a seconda dello specifico evento. Non ho quasi mai strutture pre-organizzate per i miei live set, però ho sempre più di 150 tracce pronte per esser suonate. Il mio approccio è simile a quello di un dj, cerco di creare il migliore set possibile in base ai differenti contesti in cui mi trovo.
In Italia avviene uno strano fenomeno: in molti ti seguono e apprezzano le tue scelte compositive, ma allo stesso tempo sono decisamente rare le tue apparizioni nel nostro Paese. Come mai? Ci hai mai pensato?
Non posso dirlo con certezza, ma i promoter in Italia sembrano proprio avere i loro favoriti a cui sono molto legati e parecchi, a quanto pare, non sono ancora pronti a rischiar di proporre un mio live set. Senza dubbio non è una mia scelta, io adoro il Paese e sto lavorando attivamente per entrare meglio nella scena italiana. A volte queste cose hanno solo bisogno di tempo.
Grazie Max, speriamo vivamente di ascoltarti presto in Italia… Magari assieme a Bodzin, perché no?!
Volentieri, sarebbe decisamente grandioso! Ho suonato a qualche evento con Stephan di recente, sono sempre state esibizioni “paurose” (per usare le parole di Nicolas Masseyeff)!
English Version:
We often talk about musical emotions in evanescent terms, we talk about soul frequencies, shivers and colors of music but we forget that the behind isn’t so evanescent, the behind is made up of palpable bundles of nerve endings. Sound constructions, sound buildings that frequently focus on the mind, using walls of low sound waves as well as constant and perforating drops of frequencies, this is Max Cooper. Heavily influenced by his studies, the artist, born in Belfast and now based in London, releases his earliest significant productions on Traum Schallplatten, then also on Stephan Bodzin’s Herzblut Recordings and the Fields electronica label. It’s interesting to note how, sometimes, we can talk about music in terms of causality and control, focusing on reactions rather than purposes. A definitely different chat from the usual, words that gives us the opportunity to think about things on which, perhaps, we usually don’t think enough about.
From computational biology to the dance floor there’s definitely a jump, you bet! If one thinks of the energy and hours of study dedicated to complete your studies is natural to ask: why did you decide to leave everything in order to advance in the world of music? Why and when did you decide to do it?
It was never really a conscious decision, I loved doing science and music, and I worked hard at both. It was just the music that seemed to work out as my main means of living, but I would have been happy doing either. Maybe I’ll make the swap back to science one day.
If we can say there is a gap between your PhD and your current life, it is also true that there are many connections between your past and your present. Not surprisingly, the trilogy EPs “Stochastisch Serie”, “Harmonisch Serie” and “Chaotisch Serie” published on Traum Schallplatten is based on three important mathematics concepts: stochastic processes, harmonic series and theory of chaos (if I’m not mistaken). Why did you decide to bring in the dancefloor precisely these three scientific concepts?
Music is more than just sound, it’s everything you know about the sound, the genre, the artist, the label, the artwork, the location and everything else you associate with these things, which all combine to yield the experience. I like to associate ideas I’m interested in with my music so that people get an enriched experience. The strength of the link varies, for Chaotisch for example I tried to represent the transition between order and chaos explicitly (it wasn’t about formally Chaotic systems), whereas for Stochastisch the use of samples to try and introduce randomness was quite a week connection, I’ve got some much more explicitly stochastic tracks now full of randomisation.
A mere curiosity: what are, in actual fact, the connections between tracks and the mathematical reality? Have you applied or shifted also some mathematical concept or did you convert your personal interpretations of chaos, entropy and harmony in music?
Generally the links could be described as an artistic interpretation of the concepts. I’m always looking for ways I can represent things that aren’t music, musically, be it mathematical ideas, philosophical ideas, shapes, colours, objects, whatever. Once you start with this approach it’s amazing how many options open up, both in terms of what can be translated into music and how rich a palette of musical ideas it provides – hence why I make a lot of music, I always have more ideas for tracks than time to make them. I would like to make some really explicit translations, but as we know, these generally come out as quite inaccessible musically, so I’m saving the correct side-project for this approach.
You often decide to accompany your tracks with suggestive and structured videos collaborating with artists such as Whiskas Fx, Zakharov, Nick Cobby, Cedric De Smedt (one of the last, who has created a deeply explanatory video), Graphset and many others. Why this great interest in accompanying your music with ad hoc video?
It stems from the same idea of wanting to enrich the experience of my music, along with the fact that I love visual art, and I also usually have a strong visual association for what my music should be like. I’ve always been a visual thinker, and I like to think about music in these terms, so making music videos is very satisfying.
And when they are played live, the role of videos remains unchanged? For example, you collaborated with Andrew Brewer (aka Whiskas Fx) at Paradiso in Amsterdam for a very special performance… Enjoying this audio-video merger is definitely not comparable to when you do it at home in front of your screen with, perhaps, more attention to detail…
Yeah the club visuals thing is a different experience, people are smashed and it’s 5am! haha….but no, I’m getting in to some installation work at the moment so that I can bring the audio-visual experience to people in a more controlled setting.
In an interview and in an article on the British magazine NME you talked about the importance of simplicity for the human being. You also said “Science is the art of looking for patterns in nature in order to compress information – simple rules yielding apparently complex behaviour. And music is fundamentally patterns in sound waves, with again simple rules often underlying what may sound complex”. Can we therefore say that simplicity is “the scent of life”? In what sense, man is prone to simplicity?
I’d argue that we’re evolutionarily primed to enjoy rich simplicity yes. The better a species is at finding simple rules governing it’s complex environment, the more successful the species will be as it can exploit these rules to it’s advantage. And by “rich”, I mean simple rules which yield unexpected and far reaching consequences, rather than just simplicity, which could be mundane. As for the “scent of life” question, it does seem that simple, elegant, far reaching rules seem to occur frequently in the natural world. Thinking about life more specifically, the molecular mechanisms underlying all living things are insanely simple relative to the richness and complexity of life yes, so the same idea would seem to apply there as it does in other areas of natural science. I’m not sure if simplicity should specifically be the “scent” though, rather than some other nice descriptive term. Maybe ‘simplicity is the root of nature’ might be more accurate if we’re looking for some catch phrase to promote our idea with!
Let me a provocation: isn’t there the risk that precisely this penchant for simplicity brings to a forced brutalization of the research (even and especially in music), brings to the flattening of the variety?
Yeah for sure, I would hate to have to stick to one approach for writing music. The rich simplicity argument was more to do with looking at why people seem to respond well to musical forms that aren’t obvious, and why for example, some melodies are more loved than others. It’s not that I’m saying it’s a better approach towards making music, or one I employ, it’s an idea for how people interpret music.
At this point, could you define “simple” your music? Why yes / no?
No, I don’t think so. It’s really hard to define music in words, especially when my music is very focused on how the listener feels on hearing it. I think that’s the strength of music, it can communicate direct to the subconscious of the listener to create a response, and has more power than words in that sense, even though it’s a much more blunt mechanism for communication.
It’s easily seen that you care about staying tuned with the public through social networks. Especially on Facebook, you interact with the public discussing about hardware, software, exchanging opinions on your productions and so on. Why this interest in keeping alive such relationships? Is it a “two-way trade”? Have you ever take cue/inspiration from what people write?
Yes for sure, I pay attention to what people think, and I like hearing their opinions. Sometimes I get really useful advice from people on there, although usually after some time interacting with specific people whose opinions I grow to trust.
Also, just using internet, you release productions, in particularly edits and remixes, which often do not become part of your official discography. Especially in the last year the amount of re-works and remixes released has become massive. Why this interest in reworking? What do you like in reworking?
There are lots of reasons to do remixes, but the best ones are when I hear something amazing in there which hasn’t been made explicit in the original, something which I can hear a great new track in that’s urging me to make it. Then I have to do the remix. Also it’s a great chance to combine ideas, the best ideas from one person combined with the best from another, often results in something better than either on their own.
One of your most important reworks is undoubtedly the one on the track of the composer Michael Nyman and singer David McAlmont. Why this choice? How was the project born? It was easy get the go-ahead by Nyman?
This one was a great opportunity to try something different, in that I received two audio files, one recording of the live orchestra, and one of the vocals. It was a fresh type of project for me, and something that isn’t so common in the world of electronic remixes, so I got straight on to it, hoping it would yield some interesting results. I’m not so sure how the whole thing was arranged, but I suppose on a basic level Michael Nyman was interested in hearing what would happen too, and luckily for me liked the results so it all went ahead.
Can the articulation of the Ep in two tracks “Reconstruction” and “Decostruction” be seen as a classic way of your work on a remix? Do you always “decostruct” and “recostruct” the original mix? And what is the relationship between the two tracks? I guess titles refer to the type of work done on the original track.
For normal electronic remixes all the individual elements of the track are provided as a starting point, so you begin with an already deconstructed piece of music. Whereas for the Nyman remixes I had a recording of a whole orchestra in a single file, and I had to work hard on how to deconstruct this to create my own version. After doing this I realised that my version was pretty radically different from the original, maybe too different to be a true “remix”. So I went about trying to build back up to something sounding more like the original track, using the micro-elements I had used for the first mix. It was an approach I’d never tried before, and one that is audible in the remixes, so I thought it would be nice to name the mixes accordingly.
Let’s go to conclude talking about live. How much dance and how much introspection do you try to insert in your live? Let me explain: your productions often stand apart from the ideal of “dancefloor track”.. so, what kind of dynamism do you try to give to your performance when you play?
Yeah I love dropping down my live sets into introspective listening sections, but there’s only so much I can get away with in clubs, and I have to judge it based on each specific event. I don’t have any pre-planned structure for my live shows, instead I have all 150 or more tracks accessible to play in any order, and I approach it like a dj trying to create the best set I can based on the context I’m in.
In Italy there is a strange phenomenon: definitely many people follow you and appreciate your compositional choices. At the same time your appearances are rare in our country. Why is that? Have you ever thought about it?
I can’t say for sure, but the promoters there seem to have their favourites who they stick too, and not many have been prepared to take the risk on me yet. It’s certainly no choice from my end, I love the country, and I’m actively working on how to get more involved in the Italian scene. Sometimes these things just take some time.
Thanks Max, we hope to listen to you soon here in italy… Maybe alongside Bodzin, why not!?
Yes that would be great, I’ve been doing a few events with Stephan recently, and they’re always monster! (to use the words of Nicolas Masseyeff)