C’è stata un’epoca rigogliosa in cui Roma era il centro di ogni cosa, l’inizio e la fine, capace di essere sempre e comunque un passo avanti al resto. Non parlo dell’Impero Romano, ma della capitale della cultura rave in Italia e, in qualche modo, nel resto del mondo.
Max Durante si è trasferito a Berlino solo da qualche mese e già è riuscito ad oltrepassare il confine del “devo trovare un lavoro”, perché lui è uno di quelli che non è andato nella capitale tedesca per cercare fortuna, ha lasciato l’Italia perché era il momento giusto per farlo, semplicemente.
Da qualche giorno, nella capitale tedesca, le temperature si sono abbassate vertiginosamente, e prima che qualcuno se ne accorga realmente, cominceranno la loro discesa vertiginosa.
Max indossa una fascia per capelli che gli copre le orecchie anche se siamo in casa, mi tolgo gli anfibi perché conosco bene l’usanza tedesca che non si entra in casa di qualcuno con le scarpe. Però bestemmio perché il pavimento è ghiacciato.
“Sono appena rientrato in casa.” mi dice lui.
“Stai lavorando?” chiedo mentre soppeso la decisione di rimettermi le scarpe e fare finta di nulla.
“Sto facendo un sacco di cose. Oltre a concentrarmi sulle mie nuove produzioni sto formando un’agenzia che si occupa di street promotion e grafica. La street promotion, ovvero affiggere poster, è piuttosto richiesta qui a Berlino e non tutti lo fanno nel modo giusto. Un evento inizia dal primo poster che attacchi. Mi sono messo a fare loghi e grafiche per etichette discografiche e qualche evento, poi in poco tempo hanno iniziato a chiamarmi in tanti”.
Si siede sul divano e comincia a rollare una sigaretta con meticolosa lentezza. Mi guardo intorno, abbandonando l’idea di rimettere le scarpe e concedendo i turni ai piedi. Dunque accavallo le gambe.
Noto che la casa ha una simmetria assoluta, una disposizione accuratissima dei quadri, dei mobili, addirittura dei colori.
Sopra il letto, cinque cornici disposte una accanto all’altra raccolgono le parole Last-Night-a Dj-Saved-My Life.
“Quindi sei anche un grafico?”
“Faccio grafiche da quando ho vent’anni. Più o meno tutti i flyer dei primi rave a Roma li ho fatti io, come anche per gli eventi che ho organizzato in Svizzera. La grafica è una parte che curo molto, la street promotion è un plus che fa parte della mia offerta.”
“Sembri uno molto preciso e simmetrico.” faccio ruotare l’indice ad indicare e racchiudere tutta la stanza.
“Sì, infatti sono una persona precisa, maniacale e chi collabora con me sa che ogni manifesto deve essere attaccato con cura e non ci devono essere spazi tra l’uno e l’altro, altrimenti mi incazzo come un diavolo. La promozione deve essere ordinate e d’impatto.” Ride, poi si alza portandosi la sigaretta alla bocca e noto che non ne ho mai vista una di tale sfrontata grandezza.
“Quando ho iniziato con la street promotion avevo un ragazzo che collaborava con me e un giorno lo incontro per strada, stava attaccando i manifesti di un evento. Nel carrello della spesa che sta spingendo ne erano rimaste pochissime, però c’è una quantità inverosimile di bottiglie di birra vuote. Dico, sai che qui a Berlino se raccogli le bottiglie e le porti nei supermercati ti danno i soldi, no?”
“Certo.”
“Ecco, guardo il ragazzo e chiedo: Ma tu vai in giro ad attaccare le locandine o a raccogliere le birre? E lui mi dice: Veramente sono quelle che ho bevuto. Allora capisco che è sbronzo perso. Gli ho detto: ora andiamo a vedere come le hai attaccate, queste locandine. Ti lascio immaginare.”
“Un disastro?” chiedo, dando il turno all’altro piede.
“Non ce n’era una dritta! L’ho baciato in fronte e gli ho detto: ti lascio due giorni e poi ti devi trovare un lavoro. E lui mi dice: E cosa mi metto a fare? Ed io: Il serio, innanzitutto.”
Sorrido.
“Insomma, sei lanciatissimo.” Dico.
“Per forza, Berlino mi sta dando enormi stimoli. Sto producendo tantissima musica, ho in cantiere progetti legati a party, sto suonando in giro.”
“Buono.”
Prendo in mano il foglio su cui mi sono appuntato le domande, ma nel momento in cui poso gli occhi sull’inchiostro, so che la mia prima domanda deve essere un’altra.
Cambio gamba, tregua al piede, sposto il culo, raddrizzo la schiena e sparo.
A luglio ho intervistato i fratelli D’Arcangelo. Abbiamo parlato di te, ovviamente, ma c’è una cosa che mi è rimasta un po’ bloccata in gola ed legata ad una domanda che ho fatto a loro. Ovvero: La scena romana negli anni ’90, me la raccontate?
Ah beh, è facile per noi. (ride)
Aspetta, quello che loro non mi hanno detto è com’era vista dal dentro, attraverso gli aneddoti e i pensieri di chi ha costruito quella cosa.
Diciamo che per me è facile anche questa, perché io sono uno di quei folli che hanno voluto che questo pezzo di storia esistesse. E’ stato dopo un viaggio che ho fatto nel 1988 a Londra che ho cominciato a respirare la potenza dell’acid party. Quando sono tornato a Roma, la prima cosa che ho pensato è stata Ora suono l’Acid House, ma era una cosa impossibile. Sono ritornato a Londra nel 1989 convinto di trovarmi nel pieno del movimento Acid, ma mi accorgo che la regina li aveva fermati, bloccati. Respinti definitivamente. Quello è il momento preciso in cui cominciano i rave.
Io ho fatto tre viaggi importanti a Londra, nel 1988, 1989 e 1990.
Nel 1989 ho conosciuto la fine degli acid party e l’inizio del movimento rave. Fu proprio la regina, inconsapevolmente, a dare il via ufficiale e sai perché? L’alto consumo di LSD e il caos generato dalla massa di persone che ogni mattina usciva dai club vagabondando per la città, diedero vita a forti polemiche. La stampa la nominò una generazione ”allucinata” e mostrò questa cultura in modo sbagliato, tanto da portare la Regina a proibire gli acid party e l’utilizzo dello smile.
Dopo che lei vietò le t-shirt, quelli degli acid party le tolsero e quelli della new beat belga rubarono il logo. Infatti, qual era la prima musica che ascoltavi nei rave? Belgian techno.
Dunque nel 1990 torno a Londra dicendomi Vediamo cosa sono veramente questi rave e la cosa particolare, su cui voglio porre l’accento, è che in Italia e nel mondo abbiamo l’idea che i rave siano stati una cosa illegale e politicizzata. Sono tutte cazzate. La mia generazione non l’ha raccontata giusta. Siccome a Londra andava forte l’ideale della droga e degli squat, qualcuno ha preso questa cosa e ce l’ha etichettata.
E’ la stessa cosa che è successa nei centri sociali in Italia. Fino ad un attimo prima erano presi bene per la musica rock e la predica dell’“Avanti Compagni”, però quando è arrivato il rave hanno formattato tutto e hanno cambiato faccia. Questo perché hanno capito che con i rave potevano portare molta più gente e fare più soldi.
In realtà il rave nasce dalla volontà dei dj, non delle organizzazioni. La gente dovrebbe capire questo. I dj avevano la possibilità di fare quello che volevano, per questo io mi sono innamorato del movimento. Considera che a Roma negli anni ottanta avevamo una club culture molto forte, portata avanti da gente come Marco Trani a Faber Cucchetti per farti capire. La discoteca Much More è stata un’istituzione. Diciamo che dagli anni settanta agli anni novanta Roma, a livello di club culture, era parallela a New York. Per quello io l’amavo. Mentre Marco Trani stava mettendo cose particolari a Roma, le stava mettendo anche Frankie Knuckles negli Stati Uniti. Roma era molto recettiva e noi avevamo capito che c’era una piccola America nascosta tra le vie. Iniziai a notare gente vestita in modo ginnico con colori fosforescenti, non ci si vestiva alla moda, ma si tendeva allo street, quindi indumenti da basket, felpe con cappuccio e altro.
Quindi, per tornare a noi, quando sono rientrato da Londra ho cercato qualcuno che mi desse retta sulla mia idea di fare dei rave.
E grazie a questo hai conosciuto i fratelli D’Arcangelo.
Esatto e per questo stesso motivo nasce il Plus8 Rave. Noi non ci siamo conosciuti grazie alla musica, ma grazie al fatto che entrambi volevamo fare i rave. Io dissi a qualcuno: Dobbiamo fare i rave e questo mi rispose: Ci sono altri pazzi in giro con la tua stessa idea. Erano loro.
Noi, in modo molto deciso, siamo andati a prendere gente come Richie Hawtin e compagnia bella e l’abbiamo portata alle nostre feste.
Plus8 Rave è stata una cosa molto importante.
Ho scritto un post su Facebook, che ho intitolato C’era una Volta il Rave, in cui spiego dettagliatamente la differenza tra fake rave e rave reali.
Il movimento rave a Londra è nato grazie a gente come Colin Dale, Fabio, Grooverider, Colin Faver che stavano spingendo gli Acid Party e si sono ritrovati con le porte chiuse in faccia a causa della regina.
Si sono guardati e si sono detti: e adesso che cazzo facciamo?
Si sono spostati in massa nei primi warehouse, infatti, se ci pensi, ai tempi andava di moda il numero telefonico, perché era il contatto del Pr che doveva saper “leggere” se dall’altro capo c’era la persona sbagliata, come la Polizia.
Quindi non c’entra niente tutta questa storia che ci fanno passare ormai da decenni: l’illegale, gli squat. No, l’hanno sporcata con tutte queste bugie.
Quando hanno iniziato ad immischiarci la politica, sia da un estremo che dall’altro, hanno fatto un disastro.
Io odio gli estremi politici, perché si appropiano di culture e le rendono pirata. Questo non va bene, perché generi un bug e di fatto abbiamo un buco nella storia del rave.
Stessa cosa che è successa, ad un certo punto, a Roma?
Identica.
Ma quindi com’era questo rave, visto “dal dentro”?
Inizialmente era più “pulito” di quanto tutti ne parlino. Nel backstage veniva gente come Dario Argento e Asia. C’erano un sacco di attori. C’era mezza Parioli, ma anche gente delle borgate oppure quelli che frequentavano assiduamente i club. C’era di tutto. Il rave era quello: non c’era religione, potevi essere vestito come ti pareva, ma soprattutto era libertà di espressione. Soprattutto per coloro che lo organizzavamo e ci suonavamo, potevamo mettere pure mezz’ora di rumore e la gente si prendeva bene. Dovevi venire lì e lasciare fuori i tuoi problemi che, ai tempi, erano molto legati alla politica e al calcio. Dimenticare quei codici ed essere percettivo.
Secondo me il rave è stato, prima di ogni altra cosa, una grande chiesa e allo stesso tempo un’arena. Il luogo dove noi predicavamo le nostre storie attraverso la musica a qualcuno che sapeva come ascoltarle.
Hanno detto: I rave erano sporchi perché erano organizzati nelle fabbriche abbandonate. Non è vero, i rave erano colorati e organizzati nei minimi dettagli.
Dietro c’erano teste molto intelligenti, che sapevano come informarsi. Gente che sistematicamente andava a Londra per capire come cambiava la concezione generale.
La scena pre rave italiana fu estremamente importante e di grande ispirazione. Per esempio il Devotion (un club adibito sotto un tendone ai bordi del Luna Park dell’EUR) e il Doing ad Aprilia, un grande club che diede il via al movimento rave. La Phuture in collaborazione con la Dynamic Groove e con la B&F Dj Trade furono le prime organizzazioni in assoluto che diedero vita al primo vero rave italiano: il ROSE RAVE.
C’erano anche i Ragazzi Terribili che sapevano quello che facevano.
Il Devotion però è già una manifestazione che sta a cavallo tra l’house e il rave.
Sì esatto, direi che sta a cavallo, come concezione sonora, tra Londra e Chicago, perché erano i primi warehouse, e la gente la chiamava addirittura paradise music, genere che in molti non sanno cosa significa. In realtà era un tipo di house carica di synth, quasi ambientale. Un filone molto londinese, ma la paradise derivava anche dal locale Paradise Garage, il famoso club di New York.
Quindi il Devotion è durato un anno, ma era già un prototipo di quello che sarebbe stato poi il rave.
Il primo rave romano invece si chiamava The Rose Rave e stiamo parlando degli inizi degli anni novanta, che si portava dietro il concetto delle warehouse, ma con un’impronta diversa. Prima la parola rave non veniva usata, si tendeva ad utilizzare termini più tranquilli, che includessero l’amore, come il Planet of Love – che organizzai sempre io nel 1990 a Roma – che veniva ripreso dal Summer of Love, l’estate che fece esplodere l’acid house.
A Ibiza.
Ti spiego com’è andata: quando la regina vietò i rave, nell’estate del 1989 Colin Faver e Paul Oakenfold organizzarono appunto la Summer Of Love a Ibiza. Da quel momento anche l’Acid House ha cominciato a espandersi.
Ibiza, a differenza di oggi, luogo dove gli artisti vanno a morire artisticamente, fu veramente molto alternativa e per pochi fortunati, ma soprattutto fu un occhio verso il futuro.
Questo per dire che proprio ad Ibiza si buttarono le basi di quello che sarebbe arrivato dopo.
Roma, dopo Londra, è stata l’incubatrice di queste culture e le ha cominciate a sputare fuori.
A Londra i rave sono durati sempre al massimo due anni e poi hanno levato via tutto, bruciato tutto. E’ sempre stata una città troppo consumista e infatti è rimasta fregata, al contrario di Berlino che detta legge. Conserva le cose e le integra, invece a Londra se entrava una cultura, bisognava necessariamente buttare l’altra. Quindi, se tutto si fosse concentrato solo in Inghilterra, sarebbe finito con gli Acid Party, invece noi dj romani avevamo una gran voglia di fare i rave e di portarli avanti. Io l’ho voluto per primis, credimi. Ad un certo punto mi sono detto: Voglio creare un movimento.
Questo con tutte le difficoltà che potevamo avere, perché a Roma, oltretutto, c’erano due gruppi: coloro che facevano i dischi e coloro che facevano parte della scena rave-techno. Molti li abbiamo persi, perché come in ogni cosa ci sono anche quelli che seguono l’hype.
Dunque, per tornare nuovamente alla tua domanda, all’inizio partecipava ai rave chiunque – come ho detto prima – gente che veniva vestita come a carnevale e personaggi bizzarri.
Ti devi immaginare una situazione in cui c’erano questi stage enormi, l’intera zona era strutturata come se fossero grandi concerti. Questo perché a Roma, ai tempi, c’erano molti club e discoteche, tutte molto piccole e molto costose che per entrare dovevi essere vestito a modo.
Noi ci siamo detti: non dobbiamo avere più una selezione, il posto deve essere immenso, l’impianto deve essere immenso. Tutto deve essere immenso. Doveva essere, non a caso, delirante.
Fu così.
Pensa che il primo rave a cui suonai io si chiamava XTC Rave ed era organizzato da Bismark, un altro dj, anche lui molto fissato con questo genere di cose e percepite, come il sottoscritto, dai viaggi a Londra. Ricordo che sui flyer c’erano scritte cose come 80.000 watt, laser show, migliaia di colori, perché nella capitale inglese funzionava così. Era l’attrazione rave che derivava dalla potenza del soundsystem – aggiungo che i primi impianti potenti nascono proprio a Londra -.
Quindi noi ‘copiammo’ la cultura londinese perché avevamo le loro stesse esigenze, quelle di abbattere una cultura da discoteca in cui dovevi essere accettato dal buttafuori.
Il Plus8 Rave, a distanza di un anno dall’XTC Rave, confermo che quello era il momento giusto.
Chiudo affermando con sicurezza che, detto tutto questo, io insieme ai D’Arcangelo, siamo stati i fautori del più importante e grande rave italiano e la nostra presenza è stata fondamentale per il movimento.
Ogni sabato c’era un rave.
A questo punto Max si alza, chiedendomi se voglio bere una birra.
“Senti, ma che ne pensi se buttiamo in mezzo un paio di birre, poi iniziamo l’intervista vera e propria?” mi dice indicando il basso tavolino davanti a noi.
“Beh, direi che l’intervista è già iniziata da un po’.” Rispondo sorridendo.
Si allontana verso la cucina, urlandomi che ci sono tantissime cose da dire sui rave romani.
Lui è uno che ce l’ha dentro questa cosa, se per qualcuno il movimento rave è finito – quantomeno quel tipo di movimento – per lui vive ancora, ma più di questo Max è convinto che ha bisogno di essere salvato dalle maldicenze. Io capisco che questo è il suo obiettivo e mi affascina vedere con quanta foga e passione racconta questo pezzo di storia vissuta, ma concepita e cresciuta prima di tutto.
Torna dopo un minuto, due boccali di birra tra le mani, ne afferro uno ringraziandolo e, percependo il freddo del bicchiere mi accorgo di quanto i miei piedi siano congelati. Accavallo le gambe non ricordando esattamente di chi era il turno lontano dal pavimento. Il destro, credo.
“Dove eravamo rimasti?” mi chiede.
Ogni sabato c’era un rave.
Esatto. Non avevamo più il tempo per riposarci. Io sono arrivato addirittura a fare tre rave a notte, entravo ad uno, suonavo, scappavo all’altro, suonavo, scappavo di nuovo.
Infatti quello ha contribuito ad uccidere tutto.
Cosa vuol dire?
Vuol dire che noi abbiamo fatto il Plus8 Rave pensando di portare massimo duemilacinquecento persone, ma ne arrivarono nove mila. Quindi, a quel punto, la cosa era diventata veramente di una portata enorme e c’è stato un momento in cui si è arrivati all’estremo. E’ entrata gente che si è messa a fare i rave finti con i nomi falsi e tante altre cose veramente oscene.
Cioè, per esempio il Bresaola, a cui non ho mai partecipato, è stato un rave di merda. Diciamocelo.
Molti me ne parlano perché prima non hanno conosciuto i veri rave, ma so che molta gente, nonostante tutto ha passato dei bei momenti in questi fake rave, non lo metto in dubbio. Ci sono state volte in cui sono anche riusciti bene, perché alcuni di noi accettarono di suonarci e, ovviamente, la gente non riusciva più a capire niente.
Noi avevamo giorni e giorni di programmazione con ogni cosa precisa e al proprio posto, mentre c’era gente che proclamava gli ottantamila watt, ma in realtà ce n’erano attaccati diecimila e i restanti erano staccati. C’è stato un lucro assurdo da parte di tutti; da quelli che facevano i flyer, a chi affittava gli impianti anche a dieci milioni di lire. Ti dico, c’erano biglietti d’entrata che venivano pagati cifre da capogiro. Capannoni che erano in affitto a venti/trenta milioni al mese e quelle teste di cazzo dei proprietari che chiedevano quindici milioni per un evento in unico giorno. Tant’è vero che molta gente “c’è andata sotto un treno”, come si dice da noi. Le prime mafie, gli strozzini a spingere soldi, che poi ci provavano una volta, prendevano la botta in testa e non tornavano più. A un certo punto funzionava così, purtroppo.
Infatti, la storia dei rave in Italia è breve, proprio perché ci furono degli sbagli decisivi, anche tra molti di noi. Per quello io litigai con Lory D. Ci siamo fatti prendere da un’onda che avevamo cavalcato molto bene e che ad un certo punto stava iniziando a dare i suoi frutti, però c’era un problema: stava arrivando della gente che voleva fare i soldi veri con i rave nonostante non ne sapesse un cazzo. Questi personaggi hanno rovinato tutto.
Inizialmente la cosa funzionava più o meno così: Lory era stato preso come il manifesto della cultura rave, Leo era il più piccolo e ne ha fatti pochi, ma era sveglissimo e particolarmente attento alle produzioni. Cucchetti era la voce, la radio fondamentale per tutto il movimento. Lui faceva un programma inutile su Radio Centro Suono, che abbracciava le sonorità hip hop e black, ma nel momento in cui siamo arrivati noi, ha rivoltato la cosa – con molto ingegno – e l’ha fatto diventare Centro Suono Rave. Dalla radio ha comandato tutto, spostava seimila persone in ventiquattro ore.
Perché vi bloccavano i rave?
Esatto, soprattutto verso la fine. La Polizia bloccava tutto e noi, attraverso Centro Suono Rave, veicolavamo la gente dicendo dov’era il nuovo posto. Pensa che arrivarono a proibire la parola RAVE.
Comunque eravamo tutti settati e ognuno aveva la sua cosa, eravamo un meccanismo perfetto.
Io e il povero Mauro Tannino avevamo in mano l’intera organizzazione. Gestivamo tutto, valutavamo ogni cosa e decidevamo cosa era meglio lasciare correre, quindi ad un certo punto ci siamo un po’ divisi. C’erano volte in cui noi tornavamo dicendo che avevamo parlato con organizzazioni che avrebbero voluto collaborare, ma erano gente che volevano solo fare i soldi e allora alcuni di noi non ci stavano. Abbiamo iniziato a dividerci un po’, Lory era convinto (ma fortunatamente non ha mai ceduto) che tutto sarebbe finito a breve, il movimento rave e addirittura la techno.
Tutto questo ha creato una dislessia all’interno del gruppo, ma il rovescio della medaglia è che ha regalato ad ognuno di noi la possibilità di essere chi voleva e fare la propria musica.
In realtà noi abbiamo fatto tutti la stessa cosa, la techno, ma ognuno con il suo stile: io insieme ai D’Arcangelo abbiamo fatto le prime cose industriali e sperimentali sotto il nome di Automatic Sound Unlimited, Lory D ha fatto una cosa tutta spaccata, Leo ha improntato e ha realizzato un certo tipo di Acid. Siamo stati dei visionari.
I nostri rave erano un grande spazio, ma non inteso come spazio fisico, ma un luogo dove avevi la possibilità di fantasticare. Erano, come ho detto prima, una grande arena, un meraviglioso caos totale.
C’era una scena alternativa molto forte che si stava affacciando per la prima volta. Per esempio, la scena omosessuale, che è sempre esistita a Roma, inizialmente era parecchio incisiva. Durante il Devotion sembrava di entrare in un locale gay di New York; gente con il cappello alla “easy going”, tutti vestiti di pelle, gli straccali messi a croce come simbologia di un estremismo di diversità.
Nel momento che però tutta questa scena evidenziata dal Devotion è sparita, quel seme si è innestato nella techno e nei rave. Era un Woodstock dell’elettronica: colori, musica e libertà totale.
E’ vero che la gente si distruggeva? Non voglio fare il bigotto, però c’è stata per tanto tempo una sorta di polemica sulla droga, implicita nel discorso rave che forse, ad un certo punto, è addirittura diventata un dato di fatto.
E’ ovvio che, come in quasi tutte le correnti musicali, la droga c’è. Però inizialmente non è vero che tutti erano lì per drogarsi e basta. E’ normale che superato l’avvento – quindi ti parlo di due anni dopo – è cominciato il delirio. A quel punto non c’era più autocontrollo. Immagina che dentro una cosa così grande, per forza di cose, iniziarono ad entrare personaggi che volevano fare business, come ti ho detto prima. Ma è pur vero che tutto questo è arrivato alla fine dei rave. I rave finirono nel 1995/1996, ma il nostro movimento era già finito nel 1993. Gli altri tre anni, consumati tra finti rave organizzati in modo fatiscente e poi l’avvento nei centri sociali, i free party e le tribe francesi e inglesi. Fu questo che rovinò totalmente la reputazione.
Mi sembra tu sia particolarmente incazzato con i centri sociali.
Più che i centri sociali, che comunque quelli seri si contano sulle dita di una mano, sono incazzato con chi si è approfittato dei rave e con le tribe che hanno fatto party che non centravano nulla con il concetto rave e hanno introdotto la droga ad un livello insostenibile. Noi non ne abbiamo mai voluto sapere, io ho partecipato a qualche evento nei centri sociali, ma non all’epoca. Ti parlo degli anni duemila, quindi quando i centri sociali hanno preso una vena più professionale e si parla appunto di un periodo recentissimo. All’epoca confermo di averli snobbati. Li ho frequentati per capire com’era la situazione e ho preferito andare ai festival, ma quella è un altro tipo di storia.
Per tornare al discorso sulla droga, dal 1991 al 1993 c’è sempre stato, ma era controllato, come vedi qui a Berlino che la gente si spacca di MDMA, ma sta tranquilla, sorride e non fa casino. Ecco, all’inizio era la stessa cosa.
In seguito sono iniziati i problemi, perché la gente ha iniziato ad organizzare i rave in posti fatiscenti, pericolanti, non attrezzati, sporchi. Gli artisti erano inventati, ne portavano uno buono e il resto erano perfetti sconosciuti. Oltre a questo, per l’appunto, c’era tanta droga. Questo perché? Perché le stesse organizzazioni l’hanno portata all’interno.
I Centri Sociali si sono arricchiti con questa storia, ma ovviamente non si può fare di tutta un’erba un fascio e c’è qualcuno che è riuscito a creare qualcosa di buono.
Comunque, anche nei centri sociali molto dipendeva da chi organizzava. Per esempio, ciò che organizzavano al Forte Prenestino era una cosa ben fatta, anche se inizialmente c’era troppa politica e mi annoiava, poi in tutta Italia sono nati, o meglio cresciuti, molti centri sociali che, negli ultimi dieci anni, hanno fatto cose importanti. Non certo negli anni novanta.
Quindi sì, sono incazzato, perché tutte queste schifezze le hanno etichettate a noi. Ci hanno detto che eravamo nazisti, drogati, sporchi, ma in realtà tutti questi signori che parlano in questo modo dei rave, si riferiscono ai post-rave, ad una cosa che era già finita, almeno per quanto riguarda me e i miei compagni.
Per questo ti dicevo del Bresaola. Quando qualcuno mi chiede: ma il Bresaola? Io rispondo che il Bresaola non è stato un rave.
Molta gente ha preso la definizione The Sound Of Rome per farsi pubblicità. Ai tempi ‘il suono di Roma’ aveva la stessa portata di te che arrivi in un club a Berlino senza che nessuno ti conosca e dici: Io sono di Detroit. Ti fanno lavorare subito.
Perché Detroit è La Parola, stessa cosa era per The Sound of Rome.
Per questo ad un certo punto abbiamo iniziato a levarla, cancellarla. Sai a quanta gente abbiamo detto che non poteva usarla? Un’infinità.
Perché la gente pensava che, siccome veniva da Roma, poteva utilizzarne la definizione, ma questi non capivano che, detto in italiano o detto all’inglese, il suono di Roma non era il suono di una città, ma era un pensiero. Un concetto.
Il suono di Leo, il suono di Lory, il suono dei D’Arcangelo e il mio erano totalmente diversi, ma era pur sempre ‘il suono di Roma’.
Era il concetto che stava dietro un movimento, il vostro. Almeno fino al 1993.
Esatto, ad un certo punto non si poteva scendere per strada che la gente impazziva. C’erano ragazzi che si prendevano le pasticche per andare a fare la spesa, perché ormai erano completamente usciti di testa. Credimi, io mi ricordo che entravo nei supermercati e vedevo la gente che si comportava come se stesse ad un rave. Capito?
Dopotutto è normale, ogni sabato c’era un rave che portava cinquemila, seimila, novemila persone. Infatti, ad un certo punto è caduto tutto a terra.
Cucchetti ne pagò le conseguenze per colpa di organizzazioni fatiscenti. I fan se la presero con lui, nonostante non centrasse nulla, i ravers lo accusarono di averli indirizzati a degli eventi fantasma. Così ha dovuto chiudere il programma, perché Radio Centro Suono, dopo che si è fatta i milioni, decide che non ne voleva più sapere, comunicando a Luca (fratello di Faber Cucchetti) che non volevano più un programma techno.
A quel punto lui sparisce, mentre Freddy K inizia un programma su una piccola e sfigata radio di borgata che denominò Il Virus. Freddy ha cominciato a fare da tutore in questa seconda radio, ha trovato per terra lo spettro lasciato da Cucchetti e lo ha adattato. Insomma, per dire che tutto andava disgregandosi. Lo stesso Prezioso viene condizionato dallo scetticismo imperante attorno ai rave e parte per Milano, venendo risucchiato in dinamiche che non erano le sue. Si dedica ad altro, quando anche lui, in realtà, era stato al fianco di Cucchetti quando la gente tirava i sassi contro la radio perché era arrabbiata per l’andamento dei rave che erano sempre più uno schifo. In definitiva se la presero con Cucchetti perchè lo accusarono di indirizzare la gente verso eventi scadenti attraverso gli spot radiofonici.
Comunque inizia a formarsi questa sorta di movimento “techno-coatto”, frequentato da gente di dubbio gusto che si vestiva anche da nazi. inevitabilmente si stava andando verso una fine tragica.
Da nazi?
Sì, questa è un’altra cosa che mi fa incazzare: la gente non ha capito che, nel momento in cui l’Europa era diventata potente e che Roma aveva dato lo sprint giusto, nello stesso tempo c’erano centinaia di feste hardcore e gabber in Olanda. Quindi, tutti quelli che non riuscivano a seguire noi in Germania o in Svizzera, andavano a queste feste di merda ad Amsterdam, perché era più semplice, avevi la scusa di fumare libero e per strada ti vendevano le pasticche a cinquemila lire.
E’ stato lì che hanno ereditato il “modo olandese”, quello estremo. Testa rasata, vestiti da militari, bpm sparati e gente che si menava come animali.
Ripeto, la gente questa cosa non la sa.
In quel lasso delirante che fu il 1993, Roma e molte altre città si sono riempite di gente con la cultura dell’anfibio, del calzone stretto e della testa rasata. Che poi la gente non sa nemmeno che, all’inizio ad Amsterdam, ci si vestiva in quel modo per emulare i Red Skin, i punk inglesi, ovvero l’esatto opposto dei Nazi Skin. L’unica differenza è che i primi indossavano il chiodo e gli altri invece il bomber, il giubotto dell’aviazione militare.
Le due cose, inevitabilmente si mischiano, i ragazzi indossano il bomber e siccome aveva lo stemma dell’Italia, vengono etichettati come nazionalisti. Purtroppo erano anni in cui la politica era potente e la gente ci credeva molto.
Nei primi novanta per strada, nelle università o al bar si parlava di politica e di calcio, adesso non si parla più né dell’una né dell’altro.
Ti dico una cosa a proposito del calcio: quelli che fino ad un attimo prima andavano a fare casino in curva, schiacciati e rinchiusi dai celerini, ebbero la geniale idea di venire a fare casino ai rave, perché era uno stadio senza pallone, ma con la musica.
La gente si doveva sfogare.
Quindi chiudo dicendo che io, siccome sono uno dei portavoce di quell’enorme circo che fu il rave come lo intendevamo noi, confermo che non era quel vespaio di droghe e sporcizia di cui tutti raccontano.
Quello che è rimasto nella testa della gente è il momento sbagliato, insomma.
Dal 1993 in poi è tutta una cazzata. E’ stata una falsa copia che hanno tenuto dentro per farei soldi. Lucrare.
E prima dei rave, cos’eri?
Electro old school e completamente affascinato dalla cultura Hip Hop.
Per tutti noi, compreso Lory, la vita era lo scratch e il DMC. Era il dj visto come un artigiano.
Io ho iniziato nel 1981 a giocare a football americano, avevo undici anni, è stato un colpo di fulmine e un amore che dura tutt’ora. Infatti, ogni tanto gioco ancora e mi spacco le mani, ma non posso farne a meno. E’ quello sport che grazie ai ragazzi americani della Base NATO, che arrivavano con i ghetto blaster ad allenarsi, mi ha fatto conoscere ed imparare l’electro e l’hip hop. Ti sto parlando del 1985, momento in cui ho iniziato a sentire i primi beat. Quindi, con tutta la calma del mondo, ad un certo punto mi sono affacciato al mondo del djing. Cosa che ho scoperto grazie a Wild Style, Beat Street e tutti quei film sui dj e l’arte dei graffiti.
Ad un certo punto ho tentato anche di ballare breakdance, ma ho capito che non era il mio ruolo. Poi è arrivato lo scratch ed io sono impazzito, infatti, tutt’ora, non sono un grande ascoltatore, il disco lo devo toccare, lo devo cambiare, manovrare.
Avevo la passione dell’uso del giradischi come uno strumento. Quello è stato il passaggio.
L’hip hop mi ha annoiato subito, perché il beat era troppo lento, così ho iniziato ad ascoltare i Kraftwerk, poi sempre di più l’electro fino ad arrivare all’acid-house e il resto lo sai.
La mia prima apparizione l’ho fatta nel 1987 in un locale che poi mi chiese di fare resident e quella cosa mi annoiò immediatamente, al contrario del rave, che era una serata mensile. Non volevo essere un dj fisso di un club.
Ho sempre amato fare il DJ ed è tutt’ora cosi. Non mi separo mai dai miei vinili e, torno a ripetere, il vero DJ e colui che sa mixare due vinili o due CD senza il supporto di un software, il così detto synch.
E quindi il tuo percorso produttivo?
Anche quello è molto legato al rave. Quando non dovevamo stare giorno e notte a preparare il Plus8 Rave, staccavamo tutto e iniziavamo ad ascoltare la musica. I D’Arcangelo avevano questo campionatore pesantissimo – l’Ensoniq 16 Plus – con il quale potevi creare un’immensità di suoni. Allora ci mettemmo a creare i primi beat. Io e Fabrizio siamo stati incollati a suonare dischi e cose a caso per tantissimo tempo. Io ci mettevo l’electro, genere lontano dal loro imprinting, perché prediligevano un tipo di elettronica più pura, più anni ottanta. Quindi abbiamo mixato tantissime cose, fino a che non ci siamo detti: Questo potrebbe essere il nostro suono e senza nemmeno sapere che cosa stessimo facendo, ci siamo ritrovati a creare la prima techno band italiana, gli Automatic Sound Unlimited.
Mi ripeto, è nato tutto molto velocemente, ma sempre grazie ai rave, perché io durante l’XTC Rave conobbi Steve Lopresti che all’epoca era una sorta di Direttore Artistico dell’ACV e mi disse: Voi che siete le figure cardine del movimento, dovreste fare un po’ di musica. Ed io risposi: Noi stiamo facendo della musica. Così portai i demo degli ASU.
La cosa eccezionale è che piacquero immediatamente. Erano una fusione tra techno, beat, electro e accenni di distorsioni industriali. Insomma, il combinarsi di culture che avevano influenzato le nostre persone: l’industrial, la cultura hip hop e la techno, che in quel momento era fresca.
Quella roba funzionò benissimo.
E poi?
E poi mi capitò la stessa cosa che mi è capitata adesso. Compresi che l’Italia stava cambiando, sentii il primo decadimento. Non c’era più quella sensazione che avevo sempre sentito; la possibilità di esprimermi. Quindi ho capito che era arrivato il momento di andarmene. Mi ripeto, il 1993 è stato un anno veramente difficile, la gente diceva che i rave e la techno erano morti, c’era quel tipo di scena clubbing che noi avevamo distrutto, che spingeva per riprendersi il proprio spazio.
Allora me ne sono andato, però questo mi ha comportato diversi problemi. Ti spiego, noi avevamo un contratto con l’ACV di cinque anni, con tante di quelle clausole che nemmeno ti dico. Eravamo giovani quando lo firmammo e non ci facemmo caso, ma nel momento che lo imbracciammo – ed io sono stato il primo – arrivò una cascata di difficoltà incredibile. Decisi di uscire dopo tre anni, ma dovetti aspettarne altri due prima di poter pubblicare con le mie produzioni. Questo non è successo soltanto a me, anche ad altri. L’ACV ci ha tenuto blindati per due anni senza che potessimo muoverci. Sono stato dal 1993 al 1995 completamente muto. Fondamentalmente ci hanno messo i bastoni tra le ruote.
Io, intanto, vivevo in Svizzera ed è lì che ho prodotto moltissime cose e mi sono espresso particolarmente nella fase electro, questo perché nel 1994 ci fu il grande ritorno del genere ed io mi trovavo particolarmente preparato, visto che quella cosa faceva parte dei miei inizi di carriera.
Nel 1995 ho fatto uscire tutto e tre anni dopo, nel 1998, ho fondato una label electro, la Prodamkey. Inizia a collaborare con gli Aux88 e con Anthony Rother. Quello è il momento in cui fiuto che stava nascendo qualcosa di nuovo, infatti stavano sbocciando i primi festival. Sempre nel 1998 organizzo il Grey Planet a Zurigo, che è stato un Festival che si svolgeva esclusivamente in contemporanea su piu’ locali, fu un’altra visione una nuova finestra sul futuro – vedi l’Ade -.
Contemporaneamente entro a gamba tesa nella scena electro, passo dall’essere soltanto un Dj ad un producer electro, conquistandomi la nomina tra i più influenti produttori di musica electro in Europa.
Dopo quattro anni torno a Roma e nei tardi novanta mi ributto sulla techno.
Quel fattaccio con l’ACV mi ha distrutto all’inizio, ma mi ha reso completamente libero dopo. Considera che non mi ricordo nemmeno più quante tracce ho fatto uscire. Sono tante.
E invece come la vedi l’elettronica oggi, in Italia?
Intendi l’elettronica in generale?
Sì.
Guarda, ti dico che in tutti questi anni mi sono sentito come uno che è riuscito a portare delle grandi novità nel proprio paese, ma mi sono anche sentito morto e rinato parecchie volte. Ho affrontato situazioni di grande sconforto e per questo, per un istante, ho pensato fosse tutto finito in Italia, che quello che avevamo creato noi fosse ormai preistoria e la possibilità di sperimentare era scomparsa. Quel momento coincide con l’avvento della minimal che, secondo me, è veramente un genere di elettronica che non serve ad un cazzo. Odio quando certa gente mi parla ancora della minimal.
E’ stato lo sbaglio più grande che ha fatto l’elettronica, nonché la possibilità per Richie Hawtin di costruirsi un impero.
Sai come nasce la minimal?
Credo di si, ma sicuramente voglio sentirlo anche da te.
La musica elettronica del secondo contemporaneo, ovvero del periodo prima di quello che stiamo vivendo attualmente, è stata solo una grande stronzata. Sì, perché ha cercato di confondere tutti, ha provato ad inculcare nella testa delle persone che la musica techno fosse solo rumore per drogati. La minimal ha preso l’essenza della techno mischiandola con l’house, che non mi fa impazzire. Credo sia, soltanto l’evoluzione della disco music, che odio profondamente. Come anche quelli che continuano a parlarmi dell’Italo disco, Dio mio, fa schifo. Io ho un’attitudine molto punk nei confronti dell’elettronica, ma anche quando produco e faccio il dj, quindi sono piuttosto aggressivo su certe questioni. Non sto facendo l’esperto, ma semplicemente credo che questo sia un modo per esternare chi sei attraverso la musica.
Quindi generi come house, disco music e italo disco, facevano parte di “musica per il commercio”. L’elettronica è musica colta tanto quanto la musica classica, non causale, un po’ come la techno che si divide tra ricerca ed istinto. Fa parlare il corpo perché è un genere che appartiene al ritmo, ma in cui risiede, inevitabilmente, un pensiero. Cito Luigi Russolo: “Non cercare il suono nel suono, ma cerca il suono nel rumore”. Stiamo parlando dell’arte del rumore.
Noi siamo discepoli di una cultura in cui un suono si fondeva con un concept, qualcosa di concreto e di pensato.
E dunque la musica elettronica oggi?
Adesso, se ti riferisci al 2014, è come se fossimo tornati negli anni novanta e questo mi piace. Possiamo sperimentare, non c’è più target.
Stai parlando dell’Italia?
Parlo di tutto il mondo. L’Italia purtroppo soffre ancora di tantissimi stereotipi, troppe figure come Hawtin o la Drumcode Records, che fanno le cose a modo, molto pulite, lucide. Secondo me la musica elettronica nasce sulla strada e nei campi di cotone.
Nei campi di cotone?
Sì, perché concettualmente è black. Basti pensare che molti di coloro che l’hanno concepita sono afroamericani e quindi c’è un imput di quel tipo. C’è la strada, perché la techno ha preso storie di strada, come Mad Mike con gli Underground Resistance, Banks ha strappato dai vicoli queste teste matte e li ha fatti diventare dei grandi artisti.
All’Italia questa cosa è mancata, purtroppo. Avremmo avuto bisogno di una vera struttura di studi discografici, distribuzione e uffici realmente funzionanti. Un vero e proprio head quarter, una realta’ che potesse crescere insieme a noi. Invece eravamo tutti uno per conto proprio, fino ad arrivare ad avere punti di vista differenti.
Poi è arrivata la musica da fighette, la techno minimal, che aveva questa politica musicale di “tenerti tirato” senza farti esplodere mai. Avevano bisogno di creare un tipo di musica per gente che stesse ferma con un bicchiere in mano senza fare casini. Anche qui a Berlino è passata la Minimal, o meglio qui ha avuto il suo lancio, poi l’hanno fatta sparire, tant’è che è scomparso anche Hawtin. Non si vede più da queste parti. Hanno capito che un personaggio geniale come lui, uno di quelli che avevano una visione globale dell’elettronica esagerata, aveva impacchettato dentro un prodotto quella stessa geniale avanguardia. Un conto è fare arte ed esprimersi, un altro è creare un articolo per la massa. L’Italia si è persa moltissime parti della storia e ancora ne sta soffrendo, questa è la verità. C’è stato un falso mito legato a questa “elettronica facile”. Diciamo che, però, fino a qualche anno fa avevo una visione completamente negativa.
Però ora si sta risollevando.
Sì, e grazie allo sforzo di gente come me, che arriva dall’old school, ma anche di gente nuova.
Dai, facciamo dei nomi.
Italiani ce ne sono moltissimi. Se parliamo della nuova scena cinematic techno, quindi tutta quella roba che va dall’ambient al soundtrack, senza dubbio è qualcosa che Donato Dozzy masticava già parecchi anni fa. Era il suo punto di visione e non si sarebbe mai immaginato fin dove potesse arrivare, ovvero ad una nuova visione contemporanea.
Poi c’è la parte dark, che avevamo iniziato noi e che è stata ereditata da ragazzi come Giorgio Gigli, per farti un nome. Sono sonorità che hanno un significato potente. Oppure i Retina che sono sulla scena da una vita. Loro sono stati molto avanguardistici, con quei suoni al limite dell’industriale, i primi glitch, sempre con le loro tipiche sfumature eleganti. Questa è gente che ha gettato le basi ed ha aperto le porte a etichette come Stroboscopic Artefacts.
Ok. Benissimo. Senti, io oggi pomeriggio ho sentito Fabrizio D’Arcangelo e gli ho detto che ti avrei intervistato. Gli ho chiesto di farti una domanda.
Oddio. Bello.
Eccola: “dall’hard techno all’electro: Genesi.”
Ok. Mi incuriosisce, ma credo di capirla perché io e lui siamo sempre stati due persone artisticamente ibride.
Probabilmente mi ha fatto questa domanda perché anche lui sente che stiamo tornando in quel momento di fusione iniziale.
Forse Fabrizio vuole chiedermi cos’è successo, dove siamo finiti. E’ come si parlasse di concetti che fanno base a tutto quello che noi abbiamo adesso. Possiamo montare e smontare le cose, ma sappiamo che la techno ha avuto la sua vera differenza, fin’ora, nei bpm.
Ecco, questa risposta la devo dare in base ai bpm. Una volta eravamo molto veloci, totalmente al di fuori anche della possibilità di ballare un certo tipo di musica, poi siamo scesi tanto, ora stiamo risalendo, ma rimarremo sui 130 bpm, che è un beat da dancefloor. E’ quello che ci fa ballare.
Diciamo che stiamo tornando in un momento in cui tutto quello che abbiamo visto e ascoltato in ventisette anni, potremmo probabilmente ripresentarlo.
Anche se ti devo dire una cosa: a me l’hard techno non è mai piaciuta, era solo un modo di arrivare quasi all’hardcore, ma senza volerlo essere realmente. Da quel momento c’è stato un momento industriale, cadendo immediatamente nell’hardcore e nella gabber, quindi un istante in cui abbiamo perso il groove e la sostanza del suono. Per chiudere, dall’hard techno all’electro, l’apoteosi è la techno. La Techno non morirà mai. Questo termine non finirà mai, perché è figlio della tecnologia, figlio del futuro. E’ un compromesso musicale tra uomo e macchina.
E quindi dov’è questa genesi?
La genesi è da dove siamo partiti e dove siamo arrivati. Tutti generi e sottogeneri come tech-house, hard techno, electro clash, electro house e via dicendo, nascono e muoio sotto la stessa tipologia: techno ed electro.
Ok, fai una domanda a Fabrizio.
(ride) Fabrizio, perché secondo te – sempre che tu sia d’accordo – è più importante il noise rispetto al suono stesso?
Quando spengo il registratore Max mi sta ancora parlando. Chiacchiera mentre mi rimetto, con immenso piacere, le scarpe. Parla mentre indosso il giubbotto sull’uscio e mi sta ancora parlando sul pianerottolo.
Io sorrido.
“Scrivilo nell’intervista che non smettevo di parlarti, che ti ho inseguito fino fuori da casa.” Ride anche lui.
“Lo farò di sicuro. Pensa, non ti ho nemmeno fatto la banalissima domanda ‘programmi futuri?’”
“A parte cercare d’inserirmi bene a Berlino, suonerò molto. il 23 gennaio ho una data fissata da quelli di Killekill, la serata si chiama “Acid is Fertig” e suonerò insieme ad un altro del periodo old school, Woody Mc Bride.
Poi un’altra data a Liepzig e più avanti partirò per la Spagna, Macedonia e Belgrado per altre date.”
“In Italia?”
“A marzo. Un mini tour.”
“Uscite imminenti? Così finiamo il quadro.”
“Un disco su vinile per una label berlinese appena nata, la Kynant Records, l’EP si intitolerà Black Light.”
“Grandi cose.”
Gli stringo la mano e ci lasciamo con l’eco di parole spese su di un pianerottolo gelido e di altre parole che sicuramente avremmo potuto spendere a favore della sua eterna causa, lui che ha fatto la storia di quella cosa incredibile che sono stati i rave romani.
[Foto by Francisco Vasconcelos]