Al Melt! vado da solo. Sul treno che da Berlino è diretto a Ferropolis, conosco una coppia di francesi. Lei è rossa e con le sopracciglia non curate, lui è biondo e pare muto. Chiedo da quale città arrivano precisamente. Parigi. Io sono italiano, dico. E lei comincia a parlare calabrese meglio di quanto io mi esprima in madrelingua. Oggi c’è il caldo delle grandi occasioni, in Germania, nel senso che è quel tipo di clima di cui si gode per poco, troppo poco, tempo. Ferropolis è l’isola del ferro, mettiamola così. Una sorta di museo all’aria aperta, ove mostri di acciaio alti più di trenta metri, padroneggiano questa piccola oasi controllando le rive del lago Gremminer come Gargouille in armatura.
Ci sono tre aree campeggio per gli ospiti del Melt! Festival, che quest’anno pare abbia fatto ancora sold out. Io, il mio zaino, la mia tenda e il mio materassino gonfiabile elettronicamente siamo nel campeggio numero 3, gli altri sono full. Mi è scoppiata una vena dell’occhio dalla fatica che sto facendo per attraversare a piedi i campeggi numero 1 e numero 2 con la missione di trovare una piazzola nel numero 3. Costruisco la tenda canadese sudando come Ercole durante le sette fatiche, gonfio il materassino aspettando per tre quarti d’ora il mio turno alle uniche quattro prese elettriche del campeggio numero 3, poi mi accorgo che il materassino in realtà è un “materassone” a due piazze ed è più grosso della mia tenda ad una piazza. Quindi non entra. Dunque lo lascio fuori, pensando che sarà divertente dormire con i sassi nella schiena per tre notti.
Sono le tre di pomeriggio del venerdì ed io, insieme a un fiume di altri ragazzi (l’età media è onestamente molto bassa), ci dirigiamo a disturbare i guardiani di ferro, coloro che ne mangiarono per farne polvere. Attacca la Banda. Il Main Stage apre alle 17 ed io salto senza pensarci il concerto dei Local Natives, per dedicarmi ad un giretto tra i quattro stage, soffermandomi su di un Oliver Koletzki in gran forma, nel senso che non è che faccia niente di diverso dal solito, ma sembra, da come balla in consolle, che sia al Carnevale di Rio. E’ contento, si vede.
Ho imparato che i tedeschi che vanno nei festival, svuotano i cartoni da un litro di succo di frutta e li riempiono di vodka. Con del nastro isolante praticano delle tracolle di fortuna e se li mettono in spalla, come fossero borse o zainetti. Ai controlli passano via lisci come olio nell’insalatiera. Gli inglesi, invece, si riempiono anche le calze di lattine di birra e arrivano già sbronzi. Ai controlli vengono sistematicamente alleggeriti del loro tesoro, ma non della loro scuffia.
Daughter sono molto lontani musicalmente da questo sole e questo schiamazzo e questa voglia di ballare e divertirsi, lasciano il tempo che trovano, anche se la cantante ha una voce che ti strappa via dalla terra e la cover di Get Lucky fa molto ridere senza voler essere ironica. Joy Orbison suona l’House Music, ma fatta male, senza gusto. Svogliato. Pare di essere al Muretto di Jesolo durante il secolo passato. Blue Hawaii sono due nerd vestiti male, lei più che cantare fa dei vocalizzi stonati cui applica dei delay a caso, lui più che suonare muove le ginocchia come nei balli di gruppo del Bagno Smeraldo negli anni sessanta. Io aspetto Zebra Katz, con tutto me stesso. Una ragazza mi passa accanto, ha l’intero corpo pitturato di rosso fuoco. Dalla testa ai piedi, solo i denti sono bianchi, sorride molto. Passo cinque minuti a cercare di capire se quei due capezzoli sono disegnati, oppure sono veri. Quando si accorge del mio insistente interessamento, non sorride più.
Zebra Katz sale sul palco Melt! Selektor (direzione artistica affidata ai Modeselektor) con una tuta da lavoro nera e una maschera sadomaso, dietro di lui la bella Njena Reddd Foxxx. Zebra è l’omossessualità grezza e più scura del fondo di un lago, le basi minimali, il grime marcio ma ricercato, l’hip hop che fotte gli stereotipi dell’hip hop. Questo è quanto. Lui si muove come una draq queen, ma con un’eleganza e una leggerezza, che nemmeno nel cibo macrobiotico. È sboccato e sfacciato, insieme ne fanno un teatro dell’assurdo ove tutto il pubblico si sente tirato in mezzo. Sono talmente spontanei, Zebra e Njena che, talvolta, incespicano sulle rime e nei passaggi, ma fa parte del surreale spettacolo, passando quasi inosservato. Segue a ruota Mikky Blanco, stessa scuola di pensiero stesso imprinting, solo con molta più performance. Molta di più.
James Blake raccoglie il pubblico delle grandi occasioni. Lui, il suo pianoforte e altri due compostissimi amici a supporto. Non me ne vogliate ma, parere mio, forse Blake non è adatto a un Festival di enormi dimensioni e pubblico come questo. Lui deve suonare nei teatri, perché è timido e fa musica introspettiva, quieta, è come tentare di ascoltare la pioggia che suona su un tetto durante la mezzanotte di fine anno a Napoli. Ovvero, dopo un quarto d’ora mi sento triste e forse, dico forse, un po’ annoiato.
E’ tempo di The Knife, la punta di diamante di questa prima giornata. E’ tempo di Amici di Maria de Filippi. Sul palco sono in metà di mille, tutti incappucciati come druidi, non si capisce chi è chi. Suonano strumenti musicali che nello stesso tempo sono anche oggetti di design fluo. È bello, è ciò che avrei voluto sentire. E’ The Knife. Poi. Poi tre quarti degli “incappucciati” si trasforma nel corpo di ballo che nemmanco fossimo ad un concerto della Ciccone, il suono The Knife si trasforma in una samba elettronica, nessuno suona più niente, giuro, non si capisce chi canta e in quanti cantano, perché in realtà cantano tutti, ballerini e non. Karin Andersson si butta nella mischia e balla anche lei. Per me, che è la prima volta che li vedo dal vivo, è come uno schiaffo fortissimo seguito da una risata maligna. Scappo.
Signore e Signori: Purity Ring. Il duo canadese che suona la luce. Lei, piccola e cicciottella, ha una voce meravigliosa, si muove come una fata dentro un vestitino da bambola, tiene il palco come una professionista. Lui, per l’appunto, suona la luce, o meglio, detto alla buona, suona otto lampade collegate a un controller, ogni lampada produce una nota regolabile ed effettabile e una luce altrettanto regolabile ed effettabile. Sono Glitch, latentemente “orientali”, sono un’onda fresca che ti porta a riva per poi risucchiarti.
Spenderò pochissime parole per il live di Trentemoller, soffermandomi sul fatto che fare lo stesso live, identico, a formazione ridotta, per tre anni consecutivi, non è buona cosa. Di tutt’altra pasta Mount Kimbie, il duo inglese suona in riva al lago, davanti ad una grossa folla e non tradisce le attese. Sanno quello che fanno, non c’è niente da dire, a tratti struggenti a tratti di una forza spaventosa. Il migliore live della giornata. Il resto, fino all’alba, sono i set spacca-corteccia-cerebrale dei vari Ben Klock, Marcel Dettmann, Function, Scuba e compagni. Giusto quello che ci vuole, prima di andare a dormire sui sassi.
Il primo pensiero del bollente mattino di sabato è che sono diventato vecchio per il campeggio, il secondo è quanto tempo impiegherò a rimettermi a posto le ossa. Fresco come una rosa mi dirigo lì dove c’è la musica, tra i mangiatori di ferro e i bevitori di birra. Il sabato è la giornata con un occhio di riguardo per l’indie, l’elettro e il pop, se vogliamo, a parte qualche eccezione, come Tricky, ad esempio, che a me sembra così vecchio, come quando vai a sentire una reunion importante e ti aspetti che suonino come quando erano giovani, ma non è vero, perché lo senti nell’aria, che il tempo passa per ogni cosa.
Babyshambles è Pete Doherty, fine. Lui ha talmente tanto hype addosso e, se vogliamo, tanto di quel fascino, che è difficile non restare incollato, almeno per un po’, a guardarlo mentre canta con il suo fare da ragazzino contro le regole.
Amon Tobin è un genio, non lasciate che ci piova, in Two Fingers ha fatto la storia ed è stato d’esempio per tutta una generazione di producer, proprio per questo ascoltare un dj set di Amon Tobin che presenta Two Fingers, suona strano. E’ una violenza, perché ti aspetti, latentemente, che Amon Tobin suoni come Amon Tobin, ma che ci siano dentro del Two Fingers, ma non è vero, è un dj set fatto bene, ma con dietro così tante aspettative, che ti sembra un dj set banale.
James Holden, fresco di un nuovo bellissimo album, fa la sua porca figura, perché lui è uno di quelli che sanno dove mettere le mani e come metterle. Ti massaggia, Holden, ti porta lontano e ti fa essere felice quanto basta. Perché il buon James è un uomo felice.
Così a un tratto le gru-mostro si animano e s’illuminano, si colorano di mille luci che il lago riflette fino in cielo. E sputano fuoco.
Miss Kittin, la gattona francese, è l’icona dell’elettro, nonché il sogno erotico di tutti gli occhi puntati su di lei.
Capisco perché Solomun sia considerato uno dei migliori dj sulla piazza, solo nel momento in cui me lo trovo davanti e lo sento suonare. Una deep house fatta con tutti i crismi, lui è il fucile di precisione e il pubblico un bersaglio forato in mezzo alla fronte a centinaia di metri di distanza.
In ogni caso, girando e ascoltando, ho sempre più la sensazione che il Melt! sia un po’ bollitto a livello di programmazione e direzione artistica, pare quasi si pensi più a trovare i grossi nomi e a metterli insieme per fare l’effetto scenico, ma senza un criterio, seppur minimo, seppur di massima.
La domenica è il giorno dell’addio, la programmazione è ridotta all’osso e svogliata, uniche eccezioni sono Flying Lotus e Atoms For Peace. Per il primo un bel live, anche se sotto le mie aspettative, bene invece le visuals interattive, anche se di cose del genere, ormai, ne abbiamo viste a bizzeffe, alcune delle quali nemmeno paragonabili a questa (vedi Amon Tobin live). Per quanto riguarda invece gli Atoms For Peace, insomma, vedersi sul palco Thom Yorke alla voce, Flea al basso, Nighel Godrich alle tastiere e Joey Waronker alla batteria, non è una cosa che ti lascia senza sorpresa. L’energia e la carica che mettono in quello che fanno uscire dall’impianto, condita dalla genialità dei singoli, ne fanno una torta gustossissima, che quasi ti spiace tagliare e mangiare, tanto è perfetta.
Il resto è in scemare con i set dei guru James Murphy e Jamie Jones, il compitino di Ellen Allien, sempre ben accolto dal pubblico, i 2Manydjs che ascolto da lontano, chiedendomi se davvero ne avevo bisogno. Chiedendomi se davvero sono felice.
Il Melt! porta a casa il risultato, ma gioca una partita già vinta in partenza, con gl’incassi e con un pubblico “generico”, giovanissimo, più interessato ai fiumi di alcool e bikini, che alla musica. Mentre io sono ancora qui, seduto sul treno del ritorno a casa, con la sabbia nelle scarpe e il mio materassone elettronico bucato da qualche stronzo, a chiedermi se quei capezzoli erano reali oppure disegnati.