E’ stato un po’ l’argomento-cardine del weekend, nelle bolle social di un po’ di appassionati di musica: il disco di Floating Points e Pharoah Sanders è un capolavoro o fuffa? Al di là di come la si veda – qua si è schierati decisi sulla prima ipotesi, ma ovviamente ci sta essere partigiani della seconda – delle considerazioni molto interessanti le ha fatte Federico Sardo, nella parte finale di questo articolo (peraltro da leggere tutto, è veramente bello). La polarizzazione sembra veramente un modus operandi inevitabile. Forse perché unico modo per distinguersi, anzi, anche solo per farsi notare in mezzo a tutto il “rumore di fondo” contemporaneo. E in chi magari è realmente, approfonditamente appassionato di musica diventa un riflesso logico nel tentare di “tenere lontani i barbari”, ovvero la nuova generazione di ascoltatori e magari auto-proclamati appassionati che oggi possono conquistare in mezz’ora e dieci click quello che un tempo si conquistava in un anno di affannosa (e costosissima, soprattutto per chi non era ricco di famiglia) ricerca.
A questo aggiungiamo anche il fatto che siamo stati talmente bombardati di pubblicità da decenni a questa parte che ormai, volenti o nolenti, siamo diventati un po’ tutti esperti di marketing, o anche solo ci sentiamo tali: la “respiriamo”, la pubblicità. Ci sentiamo in qualche maniera sempre – anche solo inconsciamente – portati a “vendere” la nostra opinione, a piazzarla sul mercato dell’informazione e del chiacchiericcio alla miglior valutazione possibile. C’è chi lo fa con proprietà di linguaggio, chi sventagliando i “BUONGIORNISSIMO KAFEEEEEE?”, chi una via di mezzo, chi pencola fra gli estremi, ma siamo tutti affratellati da questo afflato. E la cosa si vede anche nella maniera in cui si parla di musica nel “bar globale” dei social. E’ paradossale, infatti: la musica nella società è oggi sostanzialmente vissuta con discreta superficialità e “leggerezza”, è cioè sempre più sottofondo o raccolta di figurine da sfoggiare e sempre meno invece fattore identitario che segmenta in subculture; ma quando ci si arena in discussioni musicali con chi un minimo ci tiene, non si arretra un cazzo, non si molla un millimetro. Ci si polarizza. Menando fendenti. Pesanti. E ritenendo fondamentale cercare l’eccellenza colta, il riferimento più ricercato, la citazione più preziosa, la conoscenza più enciclopedica, la posizione più cazzuta.
E’ un approccio molto faticoso. Che per giunta tiene lontane le persone “normali” (quelle per cui la musica conta il giusto, e serve prima di tutto per stare bene) e magari attira invece quelli per cui è importante prima di tutto lo scontro, la discussione e il distinguersi, piuttosto che il viversi serenamente la vita. Nulla di nuovo sotto il cielo, eh: gli espertoni presi-a-male c’erano anche negli anni ’50 (anzi, pure prima, d’altro canto Stravinskij – mica un pirla – si beccava bordate di fischi ed insulti alle prime delle sue opere…), però i momenti in cui il panorama generale della musica è migliorato a nostro modo di vedere sono quelli in cui i “guardiani del faro e della Sapienza” sono un po’ meno egemoni nelle opinioni e lasciano più spazio (a se stessi ed agli altri) a vivere la musica come emozione e scoperta, ma non come nobilitazione. E’ un paradosso, insomma: più la musica e i discorsi sulla musica li lascio in mano agli esperti, più il livello medio punta verso il reggeaton dozzinale (…al massimo gli esperti ripiegano sul reggaeton intellettuale, in un gioco di meta-ironie ormai involontarie come certi muscoli del corpo umano).
Perché tutta questa premessa? Anzi, specifichiamo: perché tutta questa premessa per parlare di un disco, visto che in fondo questo articolo è giusto la recensione di una release a nome “Aspects”, fatta uscire da un neonato progettino denominato STR4TA? Prima facciamo parlare la musica. Poi vi diamo (anche) una risposta a queste doverose domande.
Fuori i fatti. STR4TA non è nient’altri che l’unione di due simpatiche vecchie volpi come Gilles Peterson e il fondatore degli Incognito Bluey (Jean-Paul Maunick, all’anagrafe). I due si conoscono da secoli – da quando il primo intervistò il secondo nel 1981, e fu la sua prima intervista per una radio pirata – ed ad un certo punto fu proprio Peterson a “resuscitare” Maunick, che si era ritrovato a fare il fattorino in furgone visto che con la musica e gli Incognito non ci campava più. In quella che poi diventò l’età più rutilante e scintillante dell’acid jazz, con la nascita cioè della Talkin’ Loud, il buon Gilles ebbe l’intuizione di ripescare quel musicista che tanto ammirava, di rivestirlo con un “abito sonoro” un po’ più moderno, più elettronico, più clubbing nell’era (post) acid house, e da lì gli Incognito non solo assursero a miglior vita, ma diventarono una band potentissima che ancora oggi miete concerti a profusione. Altro che guidare il furgone.
STR4TA per i due è una rimpatriata. Una rimpatriata verso le origini. Verso quella scena brit funk da cui Maunick arriva, ed a cui Peterson guardava con accorato interesse prima che arrivasse la rinfrescata del clubbing in salsa acid house a dare una svolta anche ai dancefloor intelligenti ed alternativi, non solo quelli popolati da vip e/o “acid teds” (quelli che oggi qui in Italia chiamano i “pedalatori”), oltre che a Peterson stesso.
Non faremo granché bella figura, con questo articolo. Niente riferimenti colti, niente ripescaggi spiazzanti, niente sfoggio di conoscenza, niente sbattere di fronte ai “turisti della musica” la Vera Conoscenza, quella di chi ne sa. Per una volta: e chi se ne frega, di farlo
Ora. A questo punto, nella musica come “gara identitaria” descritta come da lunga premessa nei paragrafi più sopra, ora questa recensione per spaccare il culo dovrebbe mettere in campo una dissertazione informatissima e coltissima sul Brit Funk elencando date, dischi, serate, protagonisti, cercando di sperare il lusco dal brusco, aka la merda commerciale dalla ghianda realmente underground. Ok. Ma sapete che c’è? Capiamo le ragioni del procedere in questa maniera, sì, ma in realtà sarebbe abbastanza un falso storico. Perché nel fare così ci si accredita come fighi, come coloro-che-ne-sanno: ma la scena del brit funk dai coloro-che-ne-sanno dell’epoca era vista davvero come una accolita di mezzi sfigati.
Già. Mezzi sfigati né carne né pesce. Non gente che recuperava in maniera preziosa ed “alessandrina” le suggestioni del funk e del soul. Non gente che spingeva ai limiti i propri sensi a colpi di anfetmina nei weekender a base di northern soul, in una bellissima poetica di classe operaia “maledetta”. No. Chi ascoltava il brit funk era chi vestiva in maniera anonima e normalisissima, chi ascoltava una musica che dai “saputi” era considerata nient’altro una versione annacquata delle musiche black americane senza nemmeno il coraggio di metterci dentro un po’ di maledettismo “wave” europeo, che era solo raramente accennato, ma proprio solo accennato. Era un po’ la musica dei Medio Man, ecco, Fabio De Luigi aiuta a rendere l’idea.
(continua sotto, una volta risolto il dramma)
Eppure era una scena. Piccola, coesa, appassionata, capace di crearsi un proprio circuito senza l’aiuto di nessuno e senza alleanze di comodo. Ovvero ciò che dovrebbe essere – ed è – un valore a prescindere. Nonché ciò che attira oggi i “cercatori di tartufi”, quelli cioè che scandagliano il passato per poter presidiare, dall’alto del loro scranno immaginario di esperto musicale che si eleva dalla dozzinalità della media, e per riuscirci devono trovare una nuova “gemma dimenticata” del passato per accreditarsi, da sbattere in faccia agli altri.
Nel brit funk non volevano sbatterti in facci alcunché. Era gente che amava la musica, amava discretamente il jazz (ma ne cercava il lato “facile”, quello più ballabile), amava discretamente il funk (ma ne voleva una versione più slavata, educata), sopportava la new wave (ma guardava con sospetto tutto quel vestirsi strano e prendersi ammale apposta), si divertiva a ballare (ma non capiva lo spingersi all’estremo a colpi di additivo). Per tutti questo motivi vennero ampiamente ignorati (nel caso migliore) o (nel caso peggiore) dileggiati, sfottuti, perculati dalla stampa e dagli appassionati.
Capite adesso perché, per certi versi, è più “filologicamente corretto” fare una recensione che dice “Ma che bel dischello hanno fatto Peterson e Maunick, oh, si ascolta che è un piacere, non era mica ma quella musica lì, e poi l’hanno riattualizzata bene al 2021…”. E’ più corretto questo, forse, o almeno altrettanto corretto rispetto al fare un’opera di (ri)scoperta archeologica, informatissima e puntuta delle pietre miliari di quel periodo, dei gruppi culto oggi mai citati: Freeez, Average White Band, Hi-Tension, Central Line. Piuttosto che citare tutti questi, preferiamo sottolineare con forza che di questa ondata facevano parte a pieno titolo, e in maniera potentissima, i Level 42, che invece quando assursero all’empireo del pop vennero sempre un po’ presi in giro come gruppo, appunto, da Medio Man, trascurando il fatto che comunque il loro era un po’ di qualità superiore e che soprattutto erano musicisti della stramadonna. Con un background serissimo. Se non ci credete, ascoltate le loro primissime produzioni, quando dentro alla faccenda del brit funk c’erano dentro fino al collo, ovvero la prima parte di questa release bicefala su Spotify:
Non faremo granché bella figura, con questo articolo. Niente riferimenti colti, niente ripescaggi spiazzanti, niente sfoggio di conoscenza, niente sbattere di fronte ai “turisti della musica” la Vera Conoscenza, quella di chi ne sa. Per una volta: e chi se ne frega, di farlo. Il nostro omaggio sentito ad una musica bella e sottovalutata – ancorché “media” – come il brit funk passa dal dire che “Aspects” di STR4TA è un disco proprio fragrante, molto rispettoso e preciso da un lato nel ripescare un certo tipo di suono e molto abile, dall’altro, nel riattualizzarlo. E poi, come corollario, lanciamo un messaggio importante: la “club culture” non è solo tirarsela, dimostrare di essere i più esperti (o, versione contraria ma uguale, i più fattoni, i più estremi, i più pedalatori). La “club culture” è anche e soprattutto stare bene: essere aperti, inclusivi, felici, essere ben disponibili nei confronti del mondo, delle persone, delle emozioni. La scena brit funk, nel suo piccolo, era club culture al 100% anche perché tra l’altro era una scena davvero multiculturale e multirazziale (ed alla portata di tutte le classi sociali, piccola borghesia compresa). Noi vogliamo omaggiarla così, con una recensione “media” di un disco magari inutile e magari poco sorprendente, ma piacevolissimo ed in ultima analisi bello.
Una recensione da sfigati per un disco da sfigati.
Ecco: il cielo ci conservi a lungo gli sfigati. Per un sano ecosistema, la loro presenza è fondamentale. Non solo la loro; ma, di sicuro, anche la loro.
Perché per rituffarsi nella corsa matta a chi la sa sempre più lunga e più pungente, c’è sempre tempo. E, soprattutto, c’è sempre un’alternativa.