Un concetto di cui mi piace spesso abusare quando racconto le mie “avventure” è quello di vivere la storia mentre viene scritta. Trovarsi, più o meno casualmente, ad essere testimoni diretti di qualcosa che sarà oggetto di discussione negli anni a venire. E quando ci si trova alle prese con Parigi si finisce sempre per farne una questione di storia. Passata o presente che sia. Non c’è alcuna possibilità di rimanere indifferenti ad un luogo simile: dai sali e scendi suadenti di Mont-Martre – dove la Belle Epoque non sembra mai essere giunta al termine – fino al degrado delle tendopoli dalle dimensioni sempre più preoccupanti a Saint Denis. Dall’atmosfera raffinata dei caffè letterati e delle enoteche fino alla ruvida realtà dei quartieri più isolati e che ai più sembra far comodo ignorare.
Parigi ha il sapore agrodolce di una dama di corte che non sa leggere il proprio nome sul bicchiere di Starbucks. Sembra che da un lato il tempo si sia fermato e dall’altro sia corso troppo in fretta per tenerne il passo. Eppure la storia ha continuato ad essere scritta fra i suoi boulevard, quella recente purtroppo più per tragedie come il Bataclan e l’incendio di Notre Dame che per avvenimenti incredibili come la vittoria corsara del Portogallo, orfano di Cristiano Ronaldo, nell’ultimo Europeo. Ed è proprio dai supplementari di quella incredibile finale che comincia il nostro racconto. Avevamo quattro biglietti per quella partita ed eravamo in città con alcuni dei miei migliori amici. La crudeltà aveva voluto che per questioni di lotteria UEFA avremmo potuto utilizzarli soltanto in caso l’Italia fosse stata presente. Inutile ricordare come il balletto di Zaza ci abbia costretto a preferire il megaschermo nel parco di fronte a Sua Maestà la Tour Eiffel. Completamente invaso dai padroni di casa e da qualche manciata di temerari porporati.
Quella notte gli Dei del calcio avevano guardato giù, si erano ricordati che Parigi non è un posto come gli altri, ed avevano regalato ad un onesto mestierante col guanto bianco cinque secondi di lasciapassare per la leggenda. Ricordando a tutti che la capitale transalpina risulta essere – per numero di abitanti – la terza città del Portogallo. Letteralmente. Ad essere onesto non lo so quante volte abbiamo fatto su e giù dagli Champs Elysèe quella notte. Più di quante ne potrei contare. Centrifugati in mezzo ad un fiume eterogeneo di lusitani giustificati e nord-africani opportunamente imbucati ad una bella festa per sbeffeggiare i propri colonizzatori. Facendo collettivamente avanti e indietro come onde di marea fra fuochi d’artificio e cariche della Gendarmerie sotto all’Arc de Trionfe.
Una notte incredibile, dove davvero abbiamo vissuto la storia nel suo svolgimento. Eppure il ricordo che ancora oggi ci appassiona maggiormente quando ritiriamo fuori le storie di quel weekend continua ad essere legato alla sera precedente. Ok, ad essere sinceri anche il filetto col fois gras ed il carrello dei formaggi di A Biche Aux Bois sarebbero da mettere in zona medaglia, ma alla fine l’attenzione viene sempre dirottata a poche centinaia di metri distanza da tali leccornie. Lungo le infinite rive della Senna, ciondolando nella pancia di un barcone torrido e talmente saturo di vita da rimanerne folgorati: il Concrete. Un club che era stato nelle mie mire per tanto e quale miglior occasione di quella volta. Dato il clima da foresta pluviale nel suo dancefloor principale – che faceva perfettamente scopa col poco interesse musicale dei miei compagni di viaggio verso la techno sperimentale di Peter Van Hoesen – la nostra salvezza era stata trovare una piccola zona relax di fianco alla consolle del woodfloor – la seconda sala a cielo aperto – dove avevamo lasciato libero sfogo ai nostri vizi peggiori per tutta la notte. Discutendo per la settecentesima volta di quanto sarebbe stato bello scambiare la maglia con Zidane mentre inalavamo più fumo che ossigeno. Il tutto con un piacevolissimo showcase della (al tempo) poco nota Slow Life a farci da sottofondo.
Ci sono tornato diverse volte dopo quella notte, ma non è mai più stato bello allo stesso modo. Questo nonostante il club sia oggettivamente uno zircone di pregevole caratura in mezzo ad una vetrina luccicante ed imprendibile come la città che lo ospita. Un amico parigino non troppo dentro al giro del clubbing ma divenuto frequentatore assiduo una volta mi ha detto: “Il Concrete è un posto particolare, dove so di potermi spingere oltre quando ne sento il bisogno senza sentirmi a disagio o in pericolo. Quando sono là sotto non penso a cosa ho lasciato fuori o a cosa potrebbe succedere. Non penso a niente. Mi godo il momento e sia quel che sia.”
Ecco, sapere che dopo il party di chiusura lungo un weekend del mese prossimo, dopo otto anni passati a Port de la Rapèe, persone come lui saranno private di qualcosa che ricopre un ruolo di tale importanza sarà un grande peccato. Ed allo stesso tempo la nostra notte tra birre annacquate al chiaro di luna. Con la gioia di essere lì, con gli amici di una vita, a condividere quel preciso momento, non potrà far altro che finire relegata a ciò che è stato e mai più sarà. Diventando parte di quella maledetta, maledettissima storia che corre indifferente più veloce di un TGV. E che a volte fa sentire bolsi e superati. Ma allo stesso tempo riesce – grazie all’aiuto di qualche bel ricordo come questo – ad alleviare il peso, a volte duro da sostenere, di quell’ancora a cui la vita da persone responsabili ci ha dovutamente incatenato.
Merci et au revoir, Concrete. Nella speranza, come sembra, di tornare presto ad essere teatro di ricordi indelebili e notti frivole sotto il cielo dipinto della città di quelli che non hanno ancora smesso di sognare.