Merk & Kremont? Sì: quelli di Rovazzi, di “Andiamo a comandare”. Sì: quelli de Il Pagante. Sì: quelli che hanno firmato, dietro le quinte ma non troppo, il primo singolo di Gianluca Vacchi. Ma anche quelli che già da anni sono un nome ben established nel campo dell’EDM, che hanno inciso per la portarei del genere in fatto di label, la Spinnin’, che hanno una solidità e una reputazione di spessore che pochi, veramente pochi producer in Italia possono vantare. A maggior ragione se così giovani. Abbiamo voluto fortemente fare una lunga chiacchierata con loro (l’occasione, il party per la release del loro ultimo singolo, “Heads Up”), quello che ne è venuto fuori – se avete la mente sgombra da pregiudizi e pronta a cogliere i mille spunti che hanno fatto emergere – è una delle interviste più interessanti e stimolanti mai apparse su Soundwall. Federico Mercuri, Giordano Cremona: tanto di cappello. Una nota a margine: vedrete citato Avicii, in un paio di punti. Questa chiacchierata è stata fatta prima della notizia della sua morte. E anche alla luce di essa, le ultime parole del nostro scambio, a fine intervista, possono assumere un peso specifico molto diverso.
Allora, partirei da “Hands Up”, l’ultima vostra release come singolo. Dico una cosa molto banale: direi che è di gran lunga il pezzo più schiettamente pop che abbiate mai fatto, quello dove la componente pop prevale sulla componente dance in maniera nettissima. Vi è venuta fuori così, un po’ per caso, o c’è un disegno preciso dietro?
Kremont: Sì, è assolutamente il brano più pop che ci sia mai capitato di fare e sì, è frutto di una ricerca precisa che io e Fede stiamo portando avanti da almeno due anni e mezzo. L’intento è quello di creare un percorso per Merk & Kremont che non sia solo legato alla figura dei dj e della dance ma proprio alla figura di produttori a trecentosessanta gradi. E’ un discorso ancora più ampio rispetto alla nostra identità artistica, alle release a nostro nome, e va a coinvolgere anche quello che può essere il nostro lavoro conto terzi, per altri progetti e cantanti. Di “Hands Up” ti possiamo dire che fare un brano così pop, e con collaborazioni di questo livello, è da un bel po’ di tempo un nostro sogno nel cassetto.
Merk: Di solito quando facciamo le nostre produzioni da club, da dancefloor, ci lavori magari anche tanto, qualche settimana, poi tra una cosa e l’altra devi aspettare fino a cinque mesi prima che esca e poi, quando esce, puff, dura un mese, dura tre settimane, è one shot, come sempre succede in quel mercato lì. Una traccia pop, invece, è una traccia che mediamente rimane molto di più. Anche fino ad un anno. “Sad Stories”, il nostro primo esperimento in tal senso, a distanza di nove mesi dalla sua uscita è ancora nelle chart di molte nazioni. In questo modo riesci a gustarti meglio il risultato di quello che fai, quando c’è questo “tempo di vita” più esteso.
Questo vuol dire che la dimensione dance inizia a starvi stretta?
M: Non dico stretta, ma diciamo che non vogliamo restare fermi solo in quella direzione. Del resto, mai è stato questo il nostro desiderio. Non a caso tutto il nostro lavoro per altre persone è sempre stata una parte fondamentale della nostra attività, ci ha sempre consentito di muoversi su ambiti differenti: e per “lavoro per altre persone” non intendo fare i ghostproduttori, ma proprio mettersi al servizio di altri. In questo modo abbiamo sempre potuto metterci alla prova in campi che non fossero propriamente quelli da club più canonico.
Sapete cosa, è strano, perché di solito questo tipo di ragionamento si fa a quaranta, quarantacinque anni, quando dopo un po’ ti sei anche un po’ stancato della routine da club, da dj, e vuoi trovare il modo di continuare a fare cose senza per forza doverti intruppare due o più volte alla settimana nel casino dei club. Voi invece questo ragionamento lo state facendo già adesso: siete pericolosamente maturi?
K: In effetti è già da un po’ che ci stiamo pensando. Due anni, almeno.
M: Fai pure quattro. E’ che bisogna anche avere la consapevolezza di capire quando quello che fai è ancora acerbo, o fa direttamente schifo, o quando invece è di qualità. Per nostra fortuna siamo sempre stati consigliati nella maniera giusta, e più di una volta ci è stato detto per quanto riguarda i nostri primi tentativi di produzione pop “No raga, questa cosa qui non va bene, bisogna lavorarci di più”. E’ dopo questo percorso che alla fine siamo arrivati a “Sad Story”, che è la nostra prima release ufficiale di stampo più dichiaratamente pop. Quindi se vuoi è solo da lei che inizia questo percorso, ma in realtà sono anni che ci stiamo lavorando.
Anche questa è una stranezza. Di solito i producer, in particolar modo quelli giovani, sono molto gelosi della propria musica e della propria creatività e non ammettono che ci siano qualcun altro a dire “Quello che hai fatto non va bene” o anche “Ora aspetta, non sei ancora pronto”.
K: Abbiamo capito una cosa molto importante: è meglio avere più persone a bordo, nella propria missione, e condividerlo, il successo, quando arriva, piuttosto che fare tutto per tenerselo tutto per sé. Questo non significa, sia chiaro, che non bisogna tenere in mano le redini del gioco; bisogna però imparare ad accettare i propri limiti e capire che soprattutto nel pop ad alto livello, se si vogliono fare le cose per bene e in maniera credibile, bisogna avere attorno a sé altre persone, altre teste, altri consigli, quando è il caso anche altri musicisti. Infatti “Hands Up”, oltre ad essere fatta da noi, ha visto nel ruolo autoriale una presenza molto forte di BullySongs, siamo andati in Inghilterra a lavorare con lui (che a sua volta ha un team molto forte alle spalle).
M: Ha scritto la top line, noi ci siamo concentrati sul resto e ci siamo fatti aiutare da OOVEE e da Simon di Lush & Simon. E’ stato come vedi un lavoro decisamente in team.
K: E applichiamo lo stesso meccanismo quando siamo noi a dover produrre per altri. C’è un ragionamento molto preciso alla base di questa scelta: troviamo sia meglio lavorare su dieci, quindici progetti importanti all’anno coalizzando un po’ di forze, piuttosto che farne solo due o tre – che sono quelli che potremmo permetterci se a lavorarci sopra fossimo solo Fede e io e nessun altro.
M: E’ strana come posizione, vero?
Molto!
M: Perché abbiamo visto che in America funziona così. Più gente hai attorno a te in studio, più idee riesce ad avere, a “respirare”.
Vero. Per fare l’esempio più banale, guarda Kanye West: lui ha una batteria di producer al suo servizio.
M: A noi piace molto circondarci di gente in studio, sempre diversa. Invitiamo altri produttori, ci facciamo invitare. Poco tempo fa siamo stati a Miami e, invece di goderci la città, abbiamo passato praticamente tutto il tempo chiusi in studi di registrazione. Siamo passati da due produttori molto forti, gente che ha vinto dei Grammy, specializzati in reggaeton. Ci interessa quel genere lì. Non per noi come Merk & Kremont magari, ma…
Sai che è abbastanza iconoclasta dire oggi che ti interessa il reggaeton? Anche nel mondo EDM e nelle dance elettronica più commerciale mi pare che la parola d’ordine sia “Basta col reggaeton, che schifo il reggaeton… diamo un taglio a ‘ste robacce latine, torniamo finalmente alla cassa dritta”.
M: Il nostro problema è che ci piace fare tutto. Lo so che i nostri fan, quando leggeranno che abbiamo passato il tempo con gente forte a fare reggaeton, ci metteranno un po’ in croce, però…
K: …però non ce ne vergogniamo. Sai cosa? Per me la musica è bella sempre. Sta solo alle singole persone capire quali sono i propri gusti, tutto lì. Non esiste la musica “brutta”: esiste la musica che non ti piace, perché non riesci ad “entrarci” dentro, mentre quella “bella” per te è quella che sa colpire le tue emozioni… e ognuno è libero di averne di proprie, di emozioni, no? Io la vedo così.
M: Conta molto anche dove sei nato. A Miami o in Sud America, la ritmica su cui è costruito il reggaeton è la base di tutto, proprio di tutto, almeno in campo dance. E’ come la cassa dritta per noi. A noi la cassa dritta non dà nessun fastidio, non ci stranisce, anzi, la consideriamo essenziale per costruire un brano dance: bene, per loro invece è quell’altro tipo di ritmica lì.
Troviamo sia meglio lavorare su dieci, quindici progetti importanti all’anno coalizzando un po’ di forze, piuttosto che farne solo due o tre – che sono quelli che potremmo permetterci se a lavorarci sopra fossimo solo noi due
A proposito di macrocosmo dance: questa intervista esce per Soundwall che, lo sapete, è un po’ una roccaforte di quel tipo di scena che è abbastanza diversa rispetto alla scena dance a cui appartenete voi (visto che comunque voi, al momento, venite visti come figli appunto di un contesto da dancefloor, da club). Sono due scene contigue ma che si sentono molto diverse l’una dall’altra. E spesso si guardano anche un po’ male a vicenda.
K: E’ assolutamente così.
Il versante diciamo “nostro” della dance, quello di Soundwall, vi è mai interessato, lo conoscete, o non è mai stato un punto di riferimento per voi?
K: Guarda che io paradossalmente vengo proprio da quel mondo lì. I miei primi anni da produttore li ho passati adorando tech-house, deep house, la minimal. Tutte cose che entrano in quel caldorone che possiamo chiamare “underground”, visto dalla prospettiva degli ambiti in cui muoviamo di solito noi.
Generi che però oggi non percorri più e, forse, non hai nemmeno voglia di percorrere.
K: Invece no. Anzi, sono cose che vorrei “capire” meglio, oggi. Non è un caso che nel set che prepariamo per i live abbiamo iniziato ad “alleggerire” un po’, togliendo parti da big room e mettendo elementi più house e tech-house, più asciutti quindi. E questo non perché queste sonorità stiano tornando di moda, anche se è vero che stanno tornando di moda, ma non ci è mai interessato salire sul carro del vincitore; no, lo facciamo perché comunque le riteniamo sonorità importanti, sonorità che hanno fatto la storia della musica dance e che sicuramente torneranno in auge anche nei mondi più vicini all’EDM. La musica è fatta a cicli. E infatti, vedi un po’, la tech-house sta tornando prepotentemente alla ribalta nel mondo “nostro”.
Anche tu, Federico, arrivi in parte dalla “nostra” sfera dance?
M: Sì! Quando ero ragazzino, suonavo all’Old Fashion. Beh: mi incaponivo sempre a mettere un po’ di robe tech-house, col risultato che svuotavo regolarmente la pista. Gli altri resident invece mettevano le classiche cose commerciali, col risultato che la pista di fronte a loro impazziva. Forse è per questo che ho iniziato ad aprire la mia mente e a pensare ad altre possibilità sonore.
Quando è arrivata la grande ondata EDM, per voi è stato amore a prima vista? Avete sentito subito la vocazione per buttarvi in quel filone lì?
K: Diciamo che noi nasciamo prima produttori che come artisti. Abbiamo sempre ragionato in questo modo. Quando abbiamo iniziato ad affacciarci nel mondo della produzione, dicendoci “Ehi, possiamo farlo anche noi”, ci siamo anche detti “Sì, facciamolo, ma in modo che la gente ci prenda in considerazione prima di tutto per quanto siamo bravi tecnicamente, come lavoro in studio”. Qual era il genere migliore in quel momento per dimostrare che in studio sai il fatto tuo, che sai tirare fuori cose potenti e spettacolari grazie alla tua competenza da ingegnere del suono? L’EDM. Perché in quel preciso periodo storico c’è una verità incontrovertibile: rispetto a qualsiasi altro genere musicale, l’EDM era quello che suonava il doppio più “grande”.
M: E quindi se facevi una canzone di quel genere lì, e la facevi bene, venivi subito notato come uno bravo in studio.
K: Il nostro obiettivo fin dall’inizio è stato quello di farci conoscere come persone in grado di lavorare molto bene dal punto di vista dell’ingegneria del suono, prima ancora che come artisti con questa o quell’altra idea. Questo ci ha caratterizzato fin dall’inizio: rispetto ad altri produttori che facevano musica simile alla nostra, siamo quasi sempre stati quelli che facevano suonare un po’ meglio le cose. E’ solo ora, con la maturità definitiva in questo campo, ci stiamo dedicando un po’ di più a curare il nostro istinto musicale che sì, c’è sempre stato, ma non è mai stato al primo posto delle nostre priorità. Per “Amen”, una nostra release del 2014, siamo stati un mese tutti concentrati sulla produzione del pezzo, su come suonava. Oggi non lo faremmo più. Una delle ultime cose che abbiamo fatto è stato un remix per Avicii: non ci abbiamo impiegato più di due giorni, nella rifinitura tecnica. Oddio, anche perché forse avevamo solo due giorni per farlo…
M: …però il punto è che abbiamo capito che può anche essere molto importante pure solo l’idea, senza dover per forza stare lì a lucidare all’infinito i suoni. E’ giusto che i suoni siano fatti bene, ma sempre più spesso ci sta succedendo che teniamo per buona la prima stesura di un pezzo, fatta tra l’altro molto velocemente, anche in solo una quindicina di minuti, perché ogni ulteriore rilavorazione potrebbe rovinare l’intuizione originale. Negli anni passati era un classico per noi, soprattutto per le tracce da club, tornare e ritornare sulla session di lavoro: ritoccavamo, rifacevamo, ricombinavamo… per poi magari accorgerci che, dopo tutto questo lavoro, forse la versione migliore era quella originale, quella pre-ritocchi. Ci siamo pacificati col fatto che ciò che arriva in maniera più istintiva, ovvero quasi sempre la prima versione, è forse la cosa più giusta.
Qualche anno fa, qual era il genere migliore in quel momento per dimostrare che in studio sai il fatto tuo, che sai tirare fuori cose potenti e spettacolari grazie alla tua competenza da ingegnere del suono? L’EDM. Perché in quel preciso periodo storico c’è una verità incontrovertibile: rispetto a qualsiasi altro genere musicale, l’EDM era quello che suonava il doppio più “grande”
Beh, credo che nel frattempo anche il fatto di essere diventati sempre più bravi dal punto di vista meramente tecnico vi consenta sempre più spesso di imbroccare al primo tentativo, proprio in modo automatico, la scelta giusta da fare dal punto di vista produttivo…
K: Quello probabilmente è vero. Quando hai preso un po’ di confidenza col tuo lavoro da produttore, facile che tu ci metta pochi attimi a trovare le soluzioni giuste per far andare bene un suono o una serie di suoni lì dove agli inizi ci avresti messo minimo tre ore, andando avanti un po’ a tentativi. Ma al di là di questo, credo che su di noi sia calato anche un po’ di buon senso: abbiamo iniziato a capire che non è necessario essere sempre “perfetti”, e che anzi un eccesso di ansia da perfezione può anche rovinare la forza di una buona idea. Ti incaponisci a lavorare dieci ore su dettaglio, ma facendolo perdi di vista il quadro d’insieme e non ti accorgi che questa rilavorazione del dettaglio non fa bene all’idea nel suo complesso. Abbiamo rivalutato il ruolo dell’istinto. Ci siamo resi conto che nell’arte, in generale, l’istinto è una forza fondamentale: è spesso e volentieri la maniera più spontanea per trasmettere un’emozione.
Che effetto vi ha fatto partire come due giovani produttori semi-sconosciuti e diventare, in abbastanza poco tempo, fra i producer dance/pop più ricercati e celebrati in Italia, e ormai non solo in Italia? Nel momento in cui avete azzeccato la veste musicale di tormentoni sonori come quelli de Il Pagante o Rovazzi siete diventati idoli dell’industria, immagino… e appunto ora iniziate anche a farvi notare sempre di più all’estero, con un ruolo per nulla secondario.
M: Fin da quando abbiamo iniziato abbiamo sempre pensato che il nostro lavoro aveva uno sbocco ben preciso: la dimensione internazionale. Non abbiamo mai e poi mai pensato “Ok, ora facciamo questa traccia da club per questa label italiana”, anche se perché se ci rifletti sopra la musica da club è quella internazionale per eccellenza, non ha parti vocali o se le ha la parte testuale è mediamente poco significativa, quindi perché pensare solo al bacino italiano? Perché non puntare fin dall’inizio a un mercato più grande? Fin da subito ci siamo direzionati quindi su queste coordinate più vaste, il lavoro per Rovazzi o Il Pagante o Rochelle è stato più una casualità – una casualità molto divertente dobbiamo dire, che è stata anche un’ottima palestra per le nostre capacità di produrre cose che abbiano un appeal pop. In generale comunque il nostro percorso ci sembra abbastanza naturale e lineare, non ci ha mai provocato scompensi o sorprese particolari.
Ma questo successo così travolgente delle operazioni Il Pagante e Rovazzi ve lo aspettavate?
M: No, no.
Sicuri?
M: Sicuri.
K: Soprattutto Rovazzi, mai avremmo pensato una cosa del genere.
M: E’ nato tutto per caso: io ero il fidanzato della cantante de Il Pagante, lui il cugino del cantante… Per quanto riguarda Rovazzi, invece, è nato tutto perché l’abbiamo conosciuto in discoteca, che faceva il videomaker.
Quindi non era un progetto scientificamente calcolato da una major, per cui hanno preso un “personaggio”, ovvero Rovazzi, e gli hanno appiccicato sopra la base di ‘sti due ragazzi che con Il Pagante avevano già dimostrato di saper creare dei tormentoni da web…
M: Per nulla. Lui ci ha fatto, visto che appunto lo abbiamo conosciuto come videomaker, un video per noi, quello di “Get Get Down”, noi in cambio gli abbiamo fatto una base.
K: Pensa che lui non era nemmeno troppo convinto dell’operazione. Sì, pensava che magari al milione di views su YouTube ci arrivava, ma solo perché c’erano Fedez e J-Ax e qualche YouTuber conosciuto nel video, ma più di tanto non aveva grandi aspettative (ad oggi il video viaggia verso i centosessantamilioni di views, per la cronaca, NdI).
In effetti una cosa che ho sempre pensato è che “Andiamo a comandare”, per essere un tormentone pop onnipresente, aveva una “pasta” sonora abbastanza complessa.
M: Già.
Ora però avete una grossa responsabilità sulle spalle: siete quelli che fanno “funzionare” le cose. Siete quasi costretti a non sbagliare, adesso.
M: Io più che altro vorrei fare un annuncio: ehi voi, produttori italiani, dovete cercare di andare fuori dall’Italia. Perché secondo te la trap ora sta andando così alla grande? Perché è gente capace di guardare alla scena musicale con uno sguardo internazionale. In generale, poi, è importante dare vita a un movimento, far sì che esso possa formarsi, diventare grande, farsi conoscere, essere riconoscibile, ed è quello che sta succedendo nella sfera indie italiana. Ora è il suo momento. Se chiedi a me, spero che tra un po’ tocchi al contesto più pop/elettronic/dance.
Che è sempre più la roba vostra, in effetti. Ma sentite, parlando appunto di scena e di movimenti, Nameless – che è un po’ il vertice della scena EDM italiana, anche se in realtà è sempre più pure altro – è una eccezione o è rappresentative delle potenzialità e anche della forza attuale di un certo tipo di scena in Italia?
K: Sicuramente c’è un incredibile lavoro da parte di tutto il team che sta dietro al festival, a partire da Alberto Anight, che da anni lavora per offrire un festival che al tempo stesso riesce ad essere intimo ma con una line up di livello internazionale, per giunta mantenendo bassissimo il prezzo dei biglietti, soprattutto se guardi ad altri eventi in Europa con programmazione simile. Trovo che questa sia un’impresa eroica. Perché in Italia è tutto doppiamente più difficile, è forse il paese più sconsigliabile al mondo per iniziare a fare un festival. Non perché non ci siano le potenzialità di mercato o di pubblico, ma perché ti trovi a dover affrontare delle disfunzionalità burocratiche che sono senza senso. Siamo stati in Danimarca, un po’ di tempo fa: lì ci hanno raccontato che se tu riesci a far partire un festival, lo stato ti finanzia con 200.000 euro, perché comunque è suo interesse che la tua impresa funzioni. Capisci la differenza rispetto all’Italia? Tornando alla tua domanda: sì, Nameless è un’eccezione, ma riesce ad esistere perché c’è il duro lavoro di un nucleo esteso di persone che crede al 100% in quello che fa. Esattamente come, nel nostro piccolo, succede a noi. I festival invece che nascono prima di tutto con l’idea di monetizzare, beh, quelli soprattutto da noi hanno vita breve.
Ci sono ancora dei margini di crescita per questo tipo di pubblico, quello insomma per intenderci “da Nameless”?
K: Sì.
E c’è la possibilità che questo tipo di pubblico e quello diciamo “da Soundwall” si uniscano sempre di più, sovrapponendosi in parte, o resteranno sempre due galassie ben distinte?
K: Domanda abbastanza difficile.
M: Sono in effetti da sempre due universi abbastanza opposti, per non dire contrapposti.
Sì, eh?
F: Quindi già sappiamo che dai vostri lettori ci prenderemo un bel po’ di insulti.
Ma guarda, mal che vada li prendo io, che sono stato il primo a volere questa intervista.
K: Se questi due universi si unissero e si mescolassero un po’ di più, io ne sarei molto contento. Io ho sempre sofferto di questa guerra. All’inizio, quando facevo cose minimal, mi ero creato un buon giro di amici, a cui facevo sentire le mie cose; quando ho iniziato a produrre delle cose più EDM, mi sono preso una carrettata di insulti, “stronzo”, “coglione”, “venduto”, mi dicevano che ero uno che “…non capisce un porco” (perché quello che facevo erano “porcate”). Boh: io questo disprezzo non l’ho mai capito. A maggior ragione perché se guardi a livello internazionale, sono due sfere che si “parlano” sempre di più. Pochi giorni fa ho riaperto Beatport, dopo chissà quanto tempo che non lo facevo, e mi è capitato di vedere un sacco di artisti originariamente EDM in classifica sotto voci stilistiche diciamo più underground, e viceversa. Quelli di provenienza EDM vogliono crearsi un’immagine figa mettendo nelle loro chart delle cose underground, quelli di provenienza underground hanno iniziato a mettere nelle loro, di chart, produzioni di artisti EDM che però quando si cimentano con generi appunto underground riescono a far suonare tutto molto “grosso”, e questa cosa non passa inosservata. All’estero è già così. Spero che piano piano inizi ad accadere anche in Italia.
Ultima domanda, riguarda la dimensione live: ora che siete sempre più affermati dovrete costruire anche voi un set live tutto fuochi & effetti speciali…
M: In effetti stiamo pensando ad un upgrade del nostro show da questo punto di vista. Assieme ai nostri grafici, stiamo cercando di creare una immagine coordinate coerente che percorra sia i nostri show dal vivo, che i nostri video, che le copertine delle nostre release. Anche questo ti aiuta a salire di livello.
Domanda: non è che a “spingere” troppo sull’aspetto scenico si rischia di far passare il messaggio che la musica è solo contorno? Non lo dico solo per voi, lo dico proprio in generale.
M: In effetti noi finora non ci siamo mai tanto concentrati su questo aspetto, preferendo lavorare sulla musica. Se investimenti su questi “elementi” finora ci sono stati, è perché era la label di turno a volerli. Il punto è che non abbiamo fretta: ci piace progredire passo dopo passo.
Fino ad arrivare a…?
K: Chissà.
Ma non è che ad un certo punto un eccesso di fama può rovinare la propria vita?
K: A livello di fama del genere non sono mai arrivato. Non posso dirlo. Magari prima ci arriviamo, poi capiamo se ci piace o meno.