Per quale motivo occuparsi del Mi Ami, noialtri? Perché andare a parlare di un festival proprio in uno degli anni in cui c’è stata meno musica elettronica in assoluto? Risposta: perché va fatto. E lo facciamo in maniera molto convinta, aggiungiamo. Ci occupiamo dell’edizione 2018 del festival creato quattordici anni fa da Rockit per fare da specchio alla scena indie italiana (con la sfumature sulla parola “indie” fattesi via via sempre più complesse…) per dei motivi ben precisi. Ed importanti.
Prima di tutto: il festival è ormai una macchina da guerra perfettamente preparata e funzionante, e questo non sempre in Italia si può dire, resta comunque una rarità. Sono pochissimi i festival che resistono da tempo, ancora meno quelli che nascono legati alle musiche “leggere” (…è una definizione orribile, ma in Siae si usa ancora questa, noi ci adeguiamo: vale per pop, rock ed anche elettronica). Inoltre non dimentichiamo la risposta del pubblico, che in una due giorni riesce a fare sold out al Magnolia il primo giorno (rendendolo pieno come un uovo) e a sfiorarlo nel secondo, quindi sicuramente si superano, e di molto, le diecimila presenze complessive. Qualcuno penserà facile fare il pienone quando chiami tutta la musica italiana in voga al momento in adunata. Ci sentiamo di rispondere che no, non tanto, basta considerare come recentemente l’esperienza del Radar Festival, che aveva sulla carta una line up almeno equivalente e straniera, sia naufragata prima ancora di cominciare (…e non solo per colpa di Liberato, questo ci teniamo a ribadirlo).
(Pieno ovunque, su tutti palchi; continua sotto)
Ma soprattutto non va messa in secondo piano l’atmosfera che si vive, nei due giorni di festival. Sia venerdì che sabato ci è capitato di sentir dire “E’ un po’ il nostro Coachella, il Mi Ami”, e se chiaramente c’è un po’ di esagerazione salgariana in questo è anche vero che la vibrazione collettiva in grado di unire così bene relax e coinvolgimento può far pensare a scenari “californiani”. Negli anni poi il Mi Ami, anche a sottolineare questo aspetto, si è donato il claim de “Il festival dei baci”; e in effetti di baci fra il pubblico ne abbiamo visto, anche stavolta, tantissimi. Il mood è questo.
Il punto era: che emozioni suscita veramente questa ondata “it-pop” (la definizione coniata da Diesagiowave per tutta la nuova ondata pop italiano un-tempo-indie)? Quale la sua consistenza reale? Viene da dire che tanto messi bene non siamo: francamente non ci è sembrato di vedere tanti prodotti esportabili fuori dai confini. Attenzione però: perché se trasliamo la prospettiva e dall’estero guardiamo all’Italia, notiamo che il risultato non è che poi cambi molto. Prendiamo ad esempio la Francia: l’anno scorso abbiamo visto un pubblico in totale adorazione e devozione per gli Agar Agar, un duo synth-pop (per dirla breve) che a nostra memoria non ci ricordiamo di aver visto varcare i confini d’Oltralpe per venire a farsi conoscere da noi.
Non ci vediamo onestamente nulla di male. Il nazionalpopolare, lo dice la parola stessa, si misura entro i confini di un singolo stato e in fin dei conto, per quanto poco virtuoso e magari standardizzato, a noi ciò che abbiamo sentito è piaciuto molto. Di primo acchito ci sembra in realtà di poter affermare che la qualità di questo genere di musica sia abbastanza standardizzata in una fascia media, non rileviamo infatti grandi virtuosismi in canzoni che sfruttano quasi sempre tre soliti accordi con synth da 10.000 euro lasciati suonare volutamente scordati; ma se piace, e anche a noi è piaciuto molto proprio “di pancia”, se ti ritrovi a cantare a squarcia gola almeno tre quarti delle canzoni sentite sul palco principale, se vedi un pubblico coinvolto, lacrimante, partecipativo sempre a qualsiasi live, allora viene davvero da dire che va bene così.
(Coma Cose sul palco; continua sotto)
Ci sono piaciuti tantissimo Cosmo ed Ex Otago ma sono conferme; ci ha sorpreso Francesca Michielin, che conoscevamo giusto di vista e sebbene non centri nulla con Lorde sa stare molto bene sul palco e interpreta bene canzoni di un pop mainstream sicuramente sopra la media. Scontrandoci con il proprio gusto personale, diremmo molto bene anche i Coma Cose (siamo rapper classici e noiosi, ma soprattutto anziani facciamo fatica ad accettare il nuovo rap), acclamati come vere star, mentre un’altra conferma arriva da Lucia Manca, che ha fatto un vero e proprio discone ben interpretato anche dal vivo. Questo a grandi linee il primo giorno, in cui la sorpresa è Masamasa, che ci è sembrato porti in giro un rap freschissimo e godibilissimo.
L’esibizione a sorpresa (ma ad un certo punto era diventato il segreto di Pulcinella…) di Calcutta merita invece due righe a parte: per anzianità, per i tanti concerti visti del Blasco, ci sentiamo di azzardare (e credeteci, rientrando verso casa era un po’ l’opinione di tutti) che sia proprio lui l’erede pronto a raccogliere il testimone del Re Mida della canzone italiana “da cantare in coro”. Certo, parliamo di due artisti musicalmente abbastanza differenti, come differenti sono le generazioni trascorse tra le prime esibizioni di Vasco e quelle attuali di Calcutta, ma la sensazione quando vediamo un’artista che, accompagnato da quattro accordi di chitarra elettrica e un piglio felicemente informale quasi da comunella etilica, riesce a far cantare in un perfetto sing along tutto il Mi Ami all’unisono, non può che riportare al paragone di cui sopra.
(Calcutta, uno show a sorpresa, migliaia a cantare; continua sotto)
Buone positività tratte dalla prima serata che si sono ripetute anche nel secondo giorno. Conferme volevamo e conferme abbiamo avuto: da Go Dugong e Yombe, che hanno firmato due tra le migliori esibizioni del festival, a Selton e Auroro Borealo. Inutile dire che è stato bello tornare a cantare canzoni di vent’anni fa con i Prozac +, o ricordare qualche pezzo dei Tre Allegri Ragazzi Morti che credevamo di aver dimenticato. Prevedibile andasse così, e così è andata.
Un discorso a parte va fatto invece per due artisti diametralmente opposti. Colapesce ci ha fatto letteralmente commuovere, in una formula molto più rock’n’roll rispetto ai suoi canoni abituali. Questo ragazzo ha una poesia, una capacità cantautoriale di un livello superiore, e davvero ci permettiamo di riportare quanto dettoci da Go dugong al buio della Collinetta, l’area di uno dei palchi del Mi Ami: “Colapesce verrà ricordato ai posteri nella stessa maniera in cui adesso i nostri genitori e noi ricordiamo Battisti o Battiato”. Non serve aggiungere nulla, è davvero così. Il secondo artista con menzione d’onore è invece Dj Gruff: il buon Sandro, al netto di un caratteraccio che a volte lo rende insopportabile (ma lui ci gioca, ne siamo convinti,) dimostra di avere ancora ben saldo tra le mani lo scettro dello stile con la “s” maiuscola: come suona quei piatti e come sciorina le sue barre non ne sono altro che l’esatta dimostrazione.
Il premio-sorpresa ex aequo per la seconda serata se lo prendono Giovanni Succi e Black Beat Movement. Il primo, nella cosa davvero più lontana da Soundwall, è quell’artista che ci siamo riportati a casa nelle cuffie e che da due giorni non riusciamo a non ascoltare: testi, teatralità, blues e rock duro con batterie sintetiche, roba da vecchi forse ma roba ben fatta. I secondi invece in dieci sul palco ci hanno fatto dire: “Uhm, e questi perché non li conoscevamo già?”: soul e rap anni 90 dalle parti degli Urban Species e quei gruppi lì, ne torneremo a parlare, speriamo presto.
In conclusione: cosa ci portiamo a casa da questo festival? Proviamo a guardare il nostro orticello per un secondo, quello più legato alla sfera dell’elettronica e dei club “colti”: davvero alle nostre serate ci si diverte così tanto? Davvero la presunzione di voler essere virtuosi, sperimentali, lontani dalle logiche di massificazione porta poi risultati tangibili? Davvero questa alienazione ripetitiva, questo fare asettico e sintetizzato in cui spesso la musica elettronica o il clubbing rischia di cadere, fanno evolvere il genere invece di farlo ammalare lentamente? Per carità: nessuno sogna e pretende la svolta pop per il clubbing o per la musica che lo fa popolare (siamo sicuri questo termine valga ancora?). Siamo ben orgogliosi di ascoltare Skee Mask nel buio della nostra stanza o di un club, sentendoci parte di una esperienza culturale elitaria e comunque preziosa, ma teniamo presente che di veri geni, stile Aphex Twin, Burial, o Boards Of Canada ce ne sono pochi e non può essere sempre questione di isolarsi e non considerare minimamente il mondo “lì fuori”. Guardare, pescare, studiare nella terra di mezzo siamo convinti sia propedeutico e salutare, per godersi al cento per cento la ricchezza dell’esperienza-musica. Che può anche passare da un festival non più indie (per numeri, per consapevolezza) ma sicuramente pop come il Mi Ami.