Ci sono due modi di ascoltare “Microchip Temporale”: uno è quello “neutro”, ovvero lo si ascolta per quello che è ed, eventualmente, si soppesano le performance dei vari ospiti cercando di capire chi ha fatto meglio chi ha fatto peggio. E va benissimo come modalità d’ascolto, sia chiaro. Però ce n’è un altro, ed è quello che inviteremmo molti a seguire: c’è un filo ben preciso che lega questo album a “Registrazioni Moderne”, il disco uscito nel 1998 dove una Antonella Ruggiero fuoriuscita dai Matia Bazar a sorpresa scompaginava le acque ed affidava il suo repertorio storico agli allora imberbi o comunque pesantemente outsider rispetto al mainstream Bluvertigo, Scisma, Ritmo Tribale, Madaski, Subsonica. Sì. Subsonica. La loro reinterpretazione di “Per un’ora d’amore” fu addirittura scelta come singolo, e fu il vero lancio della band torinese al di fuori dei confini – all’epoca angusti e marcatissimi – dello stagno “alternative”, molto prima della sanremese (e bellissima) “Tutti i miei sbagli”. Il loro decollo iniziò da lì. Perché chi è giovinetto facile non lo sappia, ma i Subsonica iniziarono facendo tipo sette paganti ai loro primi concerti (ok, non sempre, ma è successo davvero, non è una boutade). Non è che abbiano avuto subito la strada spianata, tutt’altro, come invece succede a molti loro epigoni in campo indie e (t)rap.
(Ed ecco “Registrazioni Moderne”; continua sotto)
“Microchip Temporale” è quindi uno sdebitarsi, e anche un chiudere il cerchio.
…solo che è un cerchio strano, imperfetto. “Registrazioni Moderne” fu veramente una sorpresa, un qualcosa di spiazzante oltremodo: non se l’aspettavano i fan della Ruggiero, ma nemmeno i fan subsonici e in generale tutta la semi-sparuta cricca alternativa. Il risultato stravolgeva decisamente l’originale. Ti faceva capire che davvero c’era qualcosa di nuovo e fresco ed innovativo nella musica italiana, e questo nuovo-fresco-innovativo era in grado di misurarsi con grandi classici uscendone a testa alta. “Microchip Temporale” in più di una occasione pare invece più una raccolta di figurine: come abbiamo visto commentare sui social, “…in fondo hanno giusto aggiunto qualche battuta di rap alle canzoni così come sono”.
Su questo, abbiamo due cose da dire: se raccolta di figurine è, sicuramente è una raccolta fatta molto bene. Le scelte degli ospiti sono davvero oculate: nel senso non solo del loro valore complessivo e del loro hype attuale, ma anche e soprattutto del fatto che il brano “giusto” è dato all’interprete “giusto” (Myss Keta pare fatta apposta per “Depre”, ma è solo un esempio fra tanti, praticamente andrebbe citata ogni traccia). In effetti però una verità incontestabile c’è: se “Registrazioni moderne” era “moderno” davvero, in quasi tutti gli episodi “Microchip Temporale” è un fresco e superficiale maquillage.
(“Microchip Temporale”; continua sotto)
Qualche brano che fa eccezione c’è: Cosmo ha fatto un gran lavoro su “Discolabirinto”, cambiandone la faccia e trasformandola in qualcosa di meno iconico rispetto all’originale ma più sordido e, in altre maniere, con simile fascino. Bene a sorpresa anche Coez, che ha cambiato completamente faccia a “Strade” riuscendo a, ehm, coezizzarla in modo molto fluido e coerente; chiaro, l’originale è meglio, ma complimenti alla personalità. Elisa invece ha björkizzato “Lasciati”, l’effetto è un po’ 90’s (e non contemporaneo) ma bello. Quasi tutti gli altri – con la mezza eccezione di Fast Animal Slow Kids e Gemitaiz – hanno invece lasciato quasi intatta la veste originale (o la b-side dell’originale: “Tutti i miei sbagli” in acustico per i fan dei Sub è una notizia vecchia di dieci anni). In qualche caso l’intervento dell’ospite, in questo contesto un po’ tanto “safe”, è talmente ben inserito da dare valore aggiunto (la citata Myss Keta, ma ancora di più Willie Peyote in “Sonde”: mai il suo flow degli ultimi anni è stato valorizzato così tanto), in altri invece la maionese non monta (Nitro, Ensi – che di loro sono bravoni, ma nelle rispettive tracce appaiono un po’ appiccicati sopra “a caso”).
Un tempo essere “alternativi” era un vanto ma anche e soprattutto una necessità
Qui arriviamo alla seconda cosa da dire, rispetto al problema della “raccolta di figurine”: sì, c’è. Effettivamente questo effetto c’è. “Registrazioni moderne” era una rivoluzione di suo e parlava di una rivoluzione in nuce, nella musica italiana; “Microchip Temporale” è una fotografia del who’s who della nuova scena emergente, una nuova scena che – contrariamente a quella degli anni ’90 – può ambire già a numeri e palcoscenici importanti e già li ha in carniere… Eppure, nonostante questo (o: proprio per questo), si dimostra per lo più timida ed incapace di scardinare dalla base un Moloch come “Microchip Emozionale”, che è stato scalfito veramente poco e, appunto, è stato oggetto solo di un leggero ritocco di cipria (tipo Achille Lauro che trasforma “Il mio dj” in un pezzo carino, ma che potrebbe essere stato fatto dai Ridillo, capisc’amme’), a parte sporadiche eccezioni.
Troppo gelosi e “chiusi” alle novità i Subsonica? Non crediamo. Credo sia più una mancanza di personalità da parte di artisti che hanno già molta più fama e spazio oggi nell’establishment dei Subsonica e Ritmo Tribale degli anni ’90 ma, esattamente per questo motivo, hanno però meno “fame” e voglia di dimostrarsi alternativi. Un tempo essere “alternativi” era un vanto ma anche e soprattutto una necessità: necessità se volevi fare qualcosa di nuovo, necessità se non volevi parlare alle “solite mummie e vedove di Sanremo”, necessità se volevi dimostrare di far parte di una scena e di avere un certo tipo di consapevolezza di quanto fosse necessario dare una scossa all’Italia, o almeno costruirsi una “riserva protetta” dove poter essere sincronizzato col meglio dell’Europa.
L’Italia continua a essere un paese sclerotizzato e con gravi problemi di immobilismo culturale, ma questa esigenza di “alternatività” oggi pare scomparsa, a parte qualche micro-isola snob ed isolazionista che, alla prova dei fatti, conta ahilei solo per se stessa. E’ diventato tutto un po’ grande mainstream, nel modo di porsi e di operare: le major hanno fatto un passo verso l’indie, l’indie si è trovato benissimo ad accettare l’invito al banchetto delle major, e tutti vissero felici e contenti. Sì?
(Alla fine della fiera, sempre meglio tornare all’originale; continua sotto)
Noi siamo felici e contenti perché “Microchip Emozionale” era un capolavoro allora come ora, e quindi “Microchip Temporale” – non cambiandolo troppo – si fa ascoltare più che volentieri e anzi ha il bonus dell’incuriosirti su come rendono i vari featuring, quindi tutto bene, tutto bello, tutto a posto, evvai. Ma l’idea che oggi non sia possibile “agire” sul pop dando l’idea che qualcosa di “radicalmente nuovo e diverso all’originale” (…pacca sulla spalla a chi coglie la citazione) sia possibile, un po’ ci deprime Yes. Poi oh, va a finire che si delega il “nuovo” a Tha Supreme, mamma santissima: che ha fatto un disco molto carino ed interessante, che spiazza le regole del gioco perché non è la solita “trappata” da classifica, che pure come rapper si è inventato un linguaggio e questa è una cosa sana&giusta, ok, ok; ma il suo album – per impatto, per novità, per iconoclastia, per voglia di scompaginare le regole del gioco – è innocua acqua fresca, rapportato non tanto a quello che c’era – non vogliamo fare i i nostalgici – quanto a quello di cui davvero oggi ci sarebbe bisogno. E tra l’altro Tha Supreme piace un sacco proprio perché l’ondata trap “standard” ha già stufato un po’ e appare più una gag del momento durata un po’ e durata bene, più che una cosa in grado realmente di scompaginare gli equilibri e rinnovare dalle fondamenta certe (sovra)strutture mercantil-culturali.
Un tempo si diceva, se si stava all’opposizione: “Non moriremo tutti democristiani”. Oggi ci sarebbe da dire “Non moriremo tutti con le nostre edizioni in mano ad una major”.
Chissà.
Intanto però bravi i Subsonica, comunque: almeno loro si pongono il problema di cercare, provare, innovare, collaborare, pur stando nella posizione in cui molti potrebbero crogiolarsi sul piedistallo costruito – con fatica, col lavoro, con l’ispirazione – in vent’anni. La sclerotizzazione di questo paese non è colpa loro. Non sono e non possono più essere i radicali innovatori che cambiano le regole del gioco, ma restano una delle unit creative più in forma e dalle “intenzioni migliori” si aggirino per la musica italiana, mentre altri pensano più a chiudere accordi con la Sony o Universal e ad inanellare record di stream da sbandierare nei comunicati stampa, o con gli amici vip al bar.