E’ un personaggio affascinante, Miss Yellow. Un po’ perché Hong Kong è affascinante a prescindere: ex colonia britannica, passata recentemente alla Cina per accordi diplomatici di vecchia data, teatro di scontri recenti, in generale città incredibilmente dinamica, atipica, effervescente. Un po’ perché lei, in patria, è stata un personaggio molto in vista anche prima di essere dj (esponendosi anche in modo esplicito, su alcune questioni socio-politiche) e anzi, per lei “essere dj” ha rappresentato per certi versi la più difficile (…o la più facile solo in apparenza, e in un primo momento, come ci racconta). C’è un link ben preciso tra lei e il nostro paese: suo marito è infatti Simone Fassan, aka Kavemura, aka un produttore ipertalentuoso di casa nostra riconducibile alla scena Beats, che da anni si era ritrovato a vivere ad Hong Kong. Coi suoi buoni uffici, abbiamo dato vita a questa bella ed approfondita intervista. Molte le cose interessanti emerse, con risposte mai banali.
Allora, prima di tutto vorrei chiederti un po’ una descrizione di quella che è la scena del clubbing ad Hong Kong. Da qui, mi sa che abbiamo una percezione abbastanza vaga e nebulosa… Non so, io ad esempio ho l’impressione che sia un po’ un posto da club per gente coi soldi, e con invece veramente pochi luoghi più prettamente underground. Quanto sono fuori strada?
In effetti a prima vista potrebbe sembrare che sì, Hong Kong è essenzialmente un posto di club e bar commerciali. Ma quello è un altro discorso: sono posti che vanno bene per chi vuole giusto uscire fuori, farsi un drink, divertirsi un po’ senza troppo impegno. Ma per chi ma veramente la musica, per fortuna ci sono un bel po’ di situazioni fra cui scegliere. Alcune sono effettivamente nascoste, non semplicissime da scoprire, però ti assicuro che c’è una scena piuttosto effervescente di party underground – che si tratti di club veri e propri, di venue temporanee, spazi industriali abbandonati, cose all’aperto. Chiaro: solo se sei realmente in contatto con la “scena” vera e propria arrivi a scoprire questo mondo. Ci sono comunque posti che sono una vera e propria istituzione, come il Salon 10 e l’Oma, e nuove realtà come Potato Head, Social Room e il Mihn Club. Insomma, io credo che il panorama del clubbing sia in buona salute, ad Hong Kong, e tra l’altro ce n’è per tutti i gusti, si va dall’hip hop alla techno alla drum’n’bass.
Ma da voi, quanto funzionano quelli della scena locale? Soprattutto a livello di musica suonata. Qui, se vai in una serata, tendenzialmente sentirai quasi solo produzioni inglesi, tedesche, al massimo americane…
Hong Kong, uguale. Sai, la scena locale è ancora in crescita, non abbiamo ancora molti nomi forti. Il collettivo legato a Nerve sta facendo un grandissimo lavoro, si battono parecchio per dare spazi e risalto a chi sta in città e dintorni. C’è poi la Neon City, una label proprio di Hong Kong, che sta facendo piuttosto bene a livello internazionale: all’inizio le loro release erano appaltate a nomi stranieri, ma ultimamente hanno aggiustato il tiro e aperto anche ad artisti della scena locale.
Rovesciamo la prospettiva: vista da Hong Kong, che aspetto ha la nostra scena, quella europea, per quanto riguarda house e techno? Sentite anche voi l’aura “da santuario” di posti come Ibiza e Berlino?
Oh, assolutamente sì! Soprattutto Berlino è veramente vista in modo quasi mitologico. Tuttavia negli ultimi anni la buona techno ha iniziato ad arrivare un po’ da tutte le parti del mondo, e questo per noi di Hong Kong è qualcosa che sta avendo un bell’effetto, ti fa capire come chiunque può essere protagonista e dire qualcosa di importante – e lo può fare portando qualcosa di “suo”, portando la propria specificità, indipendentemente dal posto da cui arrivi e in cui operi.
Tra l’altro, stando sempre a come viene percepita l’Europa, “Ibiza” e “Berlino” sono due modi diversi di intendere il clubbing e di come andrebbe articolato (anche se da anni spesso i pubblici si sovrappongono). Questo dualismo è avvertito anche ad Hong Kong?
Credo che il Giappone e Taiwan siano, nel panorama asiatico, un’eccezione. Lì puoi trovare un po’ di “Ibiza”, così come puoi trovare un po’ di “Berlino”; nel resto del continente le scene non sono abbastanza sviluppate da poter dare vita a distinzioni di questo tipo. Regna l’unica distinzione fondamentale: quella fra ciò che è underground e ciò che è commerciale.
Che poi in tutta questa dinamica ad un certo punto è andata ad innestarsi l’esplosione della scena EDM, che ha scompaginato le regole del gioco e varie certezze acquisite, almeno negli Stati Uniti e – solo in parte – in Europa. Per quanto riguarda Hong Kong?
E’ stato uno tsunami! Arrivato con un po’ di ritardo rispetto agli Stati Uniti ma sì, ha completamente cambiato le regole del gioco. Le agenzie hanno iniziato a proporre in modo incessante tutti i dj della famigerata “Top 100” e il logo di Dj Mag ha iniziato a comparire ovunque, un modo per catturare l’attenzione delle persone e spingerli a desiderare ardentemente di sentire dj che, in realtà, non avevano mai sentito nominare prima. E’ durata un po’, e in realtà i festival EDM in Asia funzionano ancora bene. Hong Kong è un caso speciale: da quando sono iniziate le proteste, molti dj hanno semplicemente iniziato a non venire dalle nostre parti, eravamo percepiti come un posto inutilmente rischioso, e se ti facevi il tour in Asia era più saggio non prendere in considerazione un passaggio da noi.
Tornando però più specificatamente a te, visto che finora abbiamo parlato soprattutto del quadro d’insieme, come descriveresti la tua evoluzione artistica come dj?
Sai, il mio primo maestro è stato un dj dell’ambito commerciale, quindi inevitabilmente all’inizio tendevo a fare e suonare un po’ quello che faceva e suonava lui. Mi ritrovavo insomma a suonare in un circuito di un certo tipo, e lì insomma la musica che devi suonare sai qual è, sei lì per far divertire la gente, no? Non è che puoi fare chissà cosa, anzi, non sei proprio stimolato a farlo. Poi però è successo che ho incontrato alcuni dj europei ed americani, diventandoci subito amica, e sono arrivate anche le prima date in Europa, cosa che mi ha permesso di aprire davvero di cambiare approccio e di vedere quanto fosse possibile approfondire il mio interesse originario verso la musica elettronica. Ho iniziato a studiare, scoprire, approfondire; e sono arrivata a capire cosa mi piace veramente. Quando poi c’è stata la prima esplosione della dubstep la cosa mi ha molto colpita, ho iniziato a suonare dubstep e, in realtà, un misto di dubstep, grime, bass music, techno. C’era una venue veramente bella chiamata XXX ed era un po’ il santuario segreto della bass music, ho avuto la fortuna di essere chiamata lì a suonare un po’ di volte e di avere totale libertà nell’esplorare il mio interesse verso quelle sonorità. Negli ultimi anni sono stata chiamata sempre più spesso dai festival e si è sviluppato un mio personale interesse verso il lato più “futuristico” di una realtà come Hong Kong. Ho creato quindi un progetto specifico che è una specie di “colonna sonora di Hong Kong” dal feeling molto cyber punk, e lo sto portando avanti con grande entusiasmo.
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Che poi, a dirla tutta, tu hai iniziato a lavorare prima come modella ed attrice, la tua carriera da dj si è sviluppata successivamente. Tutto questo può averti aperto molte porte, ma forse anche chiuse altrettante, soprattutto in un primo momento…
Hai decisamente ragione. E sì, all’inizio ho approfittato della mia popolarità come attrice, è stata un beneficio, sarebbe stupido nasconderlo. Ma questo ha significato anche impiegarci anni prima di convincere le persone che per me fare la dj era una cosa seria: perché per tutti era troppo facile fare l’equazione “Vabbé, è una donna, faceva l’attrice, ci credo che la chiamano a stare su un palco…”. Situazione non bella, ma anche un bellissimo sprone a fare di più, a fare di meglio, ad approfondire, a studiare parecchio diversi generi musicali per acquisire una reale conoscenza e consapevolezza. Oggi sì, può ancora capitare qualche volta che mi guardino un po’ così, magari con sufficienza, o che agenzie europee non vogliano lavorare con me perché pensano che tutto quello che ho ottenuto sia arrivato solo grazie alla mia popolarità da attrice, ma pazienza.
Le strade del destino ti hanno portato ad entrare in stretto contatto con la cultura italiana, visto che tuo marito è del nostro paese. Quali sono state le tue prime impressioni riguardo alla “italianità”?
Oh, la prima cosa che balza all’occhio è la vostra passione per il cibo! Davvero, ci mettete un’attenzione, un impegno… ma anche una conoscenza diffusa: sono rimasta davvero sorpresa come anche solo da un’immagine eravate in grado di capire la qualità di una materia prima! Ho imparato così tanto da voi, sull’alimentazione. Ora mi nutro con molta più attenzione alla scelta e alla qualità, sia fuori casa che in casa. Insomma, per colpa vostra ho imparato ad apprezzare il cibo in un modo che mai prima mi sarebbe venuto in mente! Poi, altro aspetto davvero importante (e bello) dell’italianità: il vostro cuore, la vostra capacità di essere accoglienti, di preoccuparsi delle persone. Prendi mio marito: lui è davvero legato ai miei amici e gli fa piacere passare del tempo con loro e sì, credo che questo sia qualcosa di tipicamente italiano.
Strade del destino ancora più imprevedibili (e spiacevoli) ti hanno portato ad essere bloccata qui dalle nostre parti, visto che era in Italia con tuo marito e i suoi parenti quando è scattato il lockdown: come sta andando questa convivenza “forzata” con l’Italia?
Beh, sono stata ovviamente per lo più chiusa in casa, quindi non ho potuto sperimentare tanto la normale quotidianità. Ma il modo in cui tutti gli amici e i conoscenti si stanno comportando con me e mio marito è meraviglioso. Ci sentiamo amati e coccolati tutto il tempo, sono tutti sempre pronti a farsi in quattro per noi… Sono pure riusciti a preparare una torta per il mio compleanno anche se tutti i negozi sono chiusi, non so come abbiano fatto! E ce l’hanno fatta recapitare lì dove eravamo chiusi in isolamento. Tra l’altro: pure il padrone di casa del posto dove ci siamo ritrovati ad abitare è stato così comprensivo… Insomma, essere in Italia e il calore umano delle persone attorno a noi hanno reso tutta questa esperienza assurda un po’ più sopportabile. Mi sono sentita a casa, mi sono sentita in famiglia.
Ma quanto è differente la vita quotidiana ad Hong Kong rispetto a quella standard europea?
Hong Kong risente ancora pesantemente dell’influenza britannica, quindi volendo possiamo dire che è la città più “europea” dell’Asia. Ma i ritmi da noi sono decisamente più veloci che in Europa, tutto è un po’ più efficiente e puoi arrivare un po’ dappertutto in pochissimo tempo. I negozi sono sempre aperti, la città è viva sia di notte che di giorno. I trasporti pubblici, ad Hong Kong, sono efficacissimi e sempre puntuali.
Ok, domanda per il futuro, ovviamente condizionata al momento in cui questo lockdown globale finalmente finirà: quali saranno le tue prossime mosse?
E’ da tanto tempo che sto lavorando per perfezione “Kowloon Rave”, il concept un po’ “cyber punk” a cui ti accennavo prima, un progetto audio/video che spero di poter portare in giro anche in Europa. Assieme a VJ Ferrous, il video artist che ha curato la parte visuale del progetto, stiamo lavorando per migliorare sempre più il tutto e per noi sta diventando una vera e propria “missione” poter rappresentare nel mondo la nostra amata Hong Kong presso un pubblico sempre più ampio. Oltre a questo, a breve farò uscire una nuova traccia dedicata alle generazioni più giovani di Hong Kong, che tanto hanno sofferto nella nostra storia più recente. In più, sto anche dando un contributo all’album di debutto di Yuen Yuen, sigla sotto cui si raccoglie un collettivo di artisti di Hong Kong.