L’abbiamo ascoltato. E riascoltato. E riascoltato ancora. L’abbiamo fatto tante di quelle volte come quasi mai facciamo, per le recensioni… Perché troppo forte, troppo nitido è il ricordo di quanto è successo qualche anno fa con “Moderat”, l’esordio su lunga durata del sodalizio artistico Modeselektor / Apparat: un album che ci era sembrato bello all’inizio ma che, col tempo, si è rivelato bellissimo. Un vero monumento. Una delle poche cose che porteremmo con noi, su una ipotetica Arca di Noé, fra quelle uscite negli ultimi sei, sette anni. Per la sua forza. Per la sua imponenza. Per la sua perfezione, perché l’equilibrio tra sostanza ritmica, fluidità armonica e melodica e potenza dinamica era ed è qualcosa di incredibile.
Ok. Stiamo lodando all’infinito il primo disco perché stiamo per stroncare il secondo? Sì, ci avete preso abbastanza. Perché accidenti, anche una quantità notevole di ascolti non riesce a migliorare le nostre impressioni su “II”. Anzi, assistiamo abbastanza perplessi alla quantità di recensioni moderatamente positive che sta raccogliendo in giro. Beh, segno che è il momento di Apparat e di Modeselektor, cosa confermata anche dai sold out che mietono in giro, anche nei contesti più inaspettati. E’ il loro momento. Sono sull’onda giusta, cavalcano l’inerzia positiva. Se lo meritano, tra l’altro. Se la meritano tutta, ‘sta cosa.
Ma dopo “II”, ecco, se la meritano un po’ meno. E’ infatti un disco forse inappuntabile tecnicamente, ma nato sgonfio, come un sufflé non lievitato. Non ha nulla della grandiosità del suo precedecessore; si inclina più verso il lato Apparat (melodia&malinconia) che verso quello Modeselektor (imponenza gioiosa), ma è una sponda più fragile del previsto perché Sascha Ring stavolta non ha partorito nessuna “Rusty Nails” e in genere è rimasto abbastanza sotto al suo standard. Standard che sarebbe stato sufficiente con bassi più avvolgenti, strutture più maestose, momenti di maggior potenza dinamica. Che però non ci sono. Gernot e Sebastian non avevano ispirazione, o non avevano voglia, o non avevano tempo. Ed è così che analizzando traccia per traccia “Bad Kingdom” è una versione un po’ annacquata dei momenti migliori dell’LP precedente, “Versions” ha tutto per essere una convincente versione “moderatiana” della freschezza Disclosure ma non arriva mai veramente, “Let In The Light” con la sua discutibile voce filtrata affonda progressivamente nella noia, “Milk” è caruccia ma di quel caruccio che sono in grado di offrire anche i Royksopp in media forma, “Therapy” traccheggia tra Burial e colonne sonore pericolosamente New Age, “Gita” sembra un brano del primo album degli Hot Chip (e no, non è granché il primo album degli Hot Chip). Unica traccia veramente degna: “Ilona”.
Siamo troppo duri? Sì, probabilmente siamo troppo duri. Ma perché sulle spalle di Sascha, Gernot e Sebastian addossiamo responsabilità altissime e durissime: nell’ultimo decennio, sono stati loro a farci uscire dallo stucchevole scacco minimal, sono stati loro a dimostrare che si poteva diventare danzabili e popolari senza rinunciare a niente in qualità, sono stati loro la perfetta quadratura del cerchio tra chi cerca insieme intelligenza e comunicatività. E quindi da loro pretendiamo tanto, tantissimo.
Forse siamo impietosi. Anzi: lo siamo di sicuro. Ma lo siamo per eccesso di affetto. “II” può anche andare bene così com’è. Ad orecchie che hanno passato troppo tempo ad atrofizzarsi i recettori del gusto ascoltando musica secca e scarna e infarcita di loop essenziali, buona solo per andare sui dancefloor grandi numeri (e ora pure i Moderat fanno grandi numeri), può sembrare un piccolo capolavoro di ispirazione e poesia. Non lo è. Ci assomiglia. Ma non lo è. Ne ha la forma, non la sostanza. Fidatevi.