La verità è che a Sascha, Gernot e Szary (il primo ha anche una carriera ben solida a nome Apparat, gli altri due lo stesso ma a nome Modeselektor) tutta la faccenda di Moderat è scoppiata un po’ in mano. Non se lo immaginavano, tutto il successo che gli è piovuto addosso. Si sono trovati a fare la cosa giusta al momento giusto, coll’album d’esordio, datato 2009 (quello che contiene anche la “A New Error” che è la canzone preferita dai pubblicitari di tutto il mondo, per il suo incedere techno-geometrico-ottimista); ma a dirla tutta, non è che ci credessero più di tanto. Quando fecero uscire quell’album era più il suggello di un’amicizia lunga anni e il completamento di un complicato e difficoltoso atto iniziale sotto forma di EP, datato 2002: “Auf Kosten Der Gesundheit”. Titolo in tedesco che vuol dire: a costo della salute. Che in pratica significava: per portare a termine questo disco, meticolosi e perfettini come siamo, ci siamo quasi giocati la salute, ci siamo proprio scannati ed incaponiti.
SI vogliono bene, i tre. Berlino li unisce. Ma li unisce non la Berlino esplosa con Berlin Calling, con la sua ibizazzione: li unisce la Berlino che a “Berlin Calling” ha sì dato vita, ma che da quel film in poi è stata invece in buona parte equivocata, sfruttata e, in ulima analisi, maledettamente standardizzata in maniera consumerista. Se Paul Kalkbrenner, che dei tre era ed è amico (con Gernot, soprattutto) e coi tre all’inizio condivideva l’etichetta discografica, la BPitch di Ellen Allien, dicevamo, se Kalkbrenner ha scelto sin da subito il successo, l’esaltazione, l’escalation numerica e la stardom, sull’onda del suo ruolo da protagonista in quell’iconico filmetto (e di un brano, “Sky And Sand”, che non è manco tutto suo ma scritto assieme al fratello: solo che questo non lo ricorda mai nessuno, né Paul si premura di ricordarlo), i tre Moderat sono invece diversi. Sotto sotto forse giusto a Gernot – il più ambizioso dei tre – piacerebbe a certe condizioni arrivare alle vette di successo da stella galattica dell’amico Paul, ma in realtà nei tre è troppo forte l’amore per la musica pura da un lato, e per le radici “ideali” berlinesi dall’altro.
Ma appunto, che radici? Berlino, sì, ma un attimo prima che diventasse meta degli hipster e dei clubber di mezzo mondo. Una Berlino ancora isolazionista – si sentiva la rifrazione di decenni e decenni spesi ad essere una isola atipica ed assurda in mezzo alla cupezza da Germania Est rural-industriale – e che grazie a questo isolazionismo si sentiva più vicina a Detroit che a Francoforte, più vicina al punk che al pop, più vicina alla sperimentazione che al bel canto, più vicina all’underground che al mainstream.
Una Berlino che trovava nella musica elettronica non il mezzo per diventare ricchi e famosi come oggi è quanto invece, in ottica DIY, semplicemente un mezzo per esprimersi tanto&subito senza dover per forza saper suonare uno strumento musicale o stare in una sala prove. Una Berlino povera, altera, piena di dark humour, accogliente con i weirdo di tutto il mondo, dove la musica – live o da dj che fosse – si suonava in posti bui, fatiscenti, pericolosi. Posti che una qualsiasi commissione di vigilanza italiana morirebbe di crepacuore a vederli e a pensare che dentro vi si raduna della gente, giusto come inciso. Ma ok, non divaghiamo.
La perfezione geometrica dell’elettronica berlinese era più uno sberleffo ironico ed affettuoso verso tutta questa precarietà: un interessante e caustico modo contro-intuitivo per portare avanti con orgoglio la tradizione di diversità di questa città. Ecco. Questa è la Berlino in cui Sascha, Gernot e Szary nascono, o in cui arrivano dalla campagna della Germania Est. Loro erano giusto nella navicella più stylish di tutta la faccenda. Forse l’equivoco nasce lì. Perché Ellen Allien – con la sua label BPtich, sì, ma anche proprio come persona – è sempre stata molto attenta allo stile ed all’eleganza, senza mai rinunciare peraltro all’alterità ed alla diversità berilnese; e col fatto che sia Apparat che Modeselektor (che Kalkbrenner) registravano per lei e collaboravano con lei, alla fine erano fra i più sorridenti ed accomodanti del lotto cittadino di inizio nuovo millennio, soprattutto rispetto ai Venerati Maestri dell’epoca (tipo Dimitri Hegemann, il fondatore del Tresor, o lo ieratico sancta sanctorum techno-dub a nome Basic Channel / Rhythm & Sound). Sì. Erano fra i più tranquilli, aperti e sorridenti. Ma la radice era quella. Una radice controculturale.
Ecco: tutto questo s’è perso col successo improvviso ed imprevisto del primo album a nome Moderat (e ovviamente coll’esplosione mediatica di Kalkbrenner). Non è colpa di nessuno, attenzione: è semplicemente successo. Quel disco – il primo dei Moderat – era appunto talmente perfetto che ha conquistato esseri umani (ed addetti ai lavori e pubblicitari…) in modo diretto ed immediato, senza nemmeno lasciare il tempo di una vera elaborazione critica da parte del pubblico e dei media. Quello che Kalkbrenner ha fatto col mainstream e i grandi numeri, i Moderat lo hanno fatto col pubblico più hipster e selezionato: piazzare Berlino definitivamente al centro della mappa, ma farlo col beneplacito e il concreto sostegno dell’industria sociale legata agli immaginari “di moda”, “seducenti”. Mentre Moderat esplodeva e la controcultura originaria berlinese diventava per vari motivi mainstream Sascha, Gernot e Szary smettevano progressivamente di andare nei club (come invece avevano sempre fatto), di fare l’alba regolarmente (come invece avevano sempre fatto), di viversi la notte – ehm – sino in fondo (come invece avevano sempre fatto), di suonare in posti fatiscenti (come invece avevano sempre fatto): un po’ per cause di forza maggiore, un po’ per scelta. Ma le loro radici erano e restano controculturali; le loro radici erano e restano sottilmente contrarie o scettiche rispetto alla bulimia da star system. Sono diventati un supergruppo, come recita anche la voce Wikipedia, ma se hai modo di interagire con loro ti rendi conto del mare che li separa, umanamente, dallo star system da musica elettronica.
Sono stati travolti anche loro, dal successo del primo album. Ne siamo convinti. I primi concerti erano fatti con una scenografia vista con gli occhi di oggi quasi ridicola (giusto uno schermo alle loro spalle, leggermente messo di sghembo tanto per “fare strano”), quasi da pomeriggio in parrocchia, ma erano altri tempi per l’elettronica e già il fatto di girare con questa semplice struttura e volerla montata su tutti i palchi sembrava una forma di gigantismo, un “volersela tirare” autoironico e divertente (…oltre che la voglia di presentare uno show di impatto multimediale, grazie alla eterna e fortissima alleanza con la cricca Pfadfinderei). Solo che le persone da trecento sono diventate seicento, da seicento milleduecento, da milleducento duamilaquattrocento.
Dare la priorità a Moderat – mettendo in secondo piano le rispettive carriere soliste – era diventata una necessità. Più concerti, più album, più video, più promozione, più tutto. Restiamo convinti che, per quanto ovviamente con momenti molti brillanti ed inni eterni come “Bad Kingdom”, i successivi lavori sulla lunga durata “II” e “III” siano stati fatti quasi più per necessità, per senso del dovere insomma, perché quello che stava accadendo attorno a Moderat era imprevedibile ed incredibile e sì, andava nutrito, insufflato, perché (uno) quando mai ti ricapita una cosa del genere e (due) fa comunque piacere ed emoziona vedere di quante persone nel mondo stai toccando il cuore, facendo comunque la musica “tua”, senza esserti in alcun modo intenzionalmente annacquato.
Ma la “creatura Moderat”, per dare i fiori migliori, ha bisogno di tempo. Non è probabilmente un caso che fra la prima manifestazione della band (l’EP già citato della “Gesundheit”, anno 2002) e il disco d’esordio (2009) siano passati setti anni. E non è un caso che “MORE D4TA”, il nuovo lavoro dei tre uscito oggi, sia nettamente il loro disco migliore dai tempi dell’album d’esordio: i sei anni di distanza da “III” e la pandemia che ci si è messa di mezzo troncando viaggi, tour, date, eccetera, hanno fatto bene, gran bene. Perché ok, non aspettatevi rivoluzioni, è un disco 100% Moderat nella scrittura, nei toni, nelle linee melodiche; ma il suono ha (ri)acquistato una profondità ad una cura che porta, spesso e volentieri, a vette di qualità siderale. Ecco intanto il disco, poi completiamo l’analisi:
Sono due le tracce in particolare che vogliamo segnalare/sottolineare, ed è divertente come siano state messe con noncuranza né alla fine né all’inizio del disco, ma in modo un po’ più anonimo nella prima parte, anche se sono assolutamente due tracce epiche, che creano un’intensità emotiva totale, da apoteosi. Parliamo di “Drum Glow” e “Neon Rats”. La prima è una sorta di upgrade della lezione di Burial – che fin dall’inizio è stato una reference pesantissima e presentissima nel lavoro dei tre – portandola a livelli di imponenza e impatto supremi, la seconda è una cavalcata dance di quelle monumentali, stile Underworld o Faithless al massimo della forma per intenderci, con tanto di chicchetta del suono ornitologico-tropicale sfornato dall’Emulator II e diventato iconico in Sueno Latino e in “Pacific State” degli 808 State (come ci ha raccontato direttamente Gernot, “…è ovviamente un riferimento intenzionale, in una traccia che vuole omaggiare proprio i momenti più alti della prima dance “intelligente”: non è lì per caso”). Forse solo i Chemical Brothers, oggi, riescono a sprigionare una simile potenza di fuoco come dinamica e grandiosità senza perdere nulla in grazia, gusto e stile. Hai detto nulla.
Non sono comunque le uniche chicche del disco. “Undo Redo” è una delle migliori canzoni dei Depeche Mode di Martin Gore non fatte dai Depeche Mode di Martin Gore, “Doom Hype” segue a ruota, “Fast Land” deve più di qualcosa ai Boards Of Canada (roba buonissima, quindi) e “Soft Edit” strizza l’occhio con gusto e senza scopiazzamenti a quanto è stato elaborato negli anni da Bon Iver. Basta questo corpus di brani a sincera la netta superiorità di “MORE D4TA” su “II” e “III”: ok, manca forse una “Bad Kingdom”, manca l’inno, ma ci teniamo tutta la vita “Drum Glow”, che per quanto ci riguarda scalza “No. 22” dalla vetta del nostro personalissimo pantheon moderatiano.
Insomma: un grande album. Un grande, grandissimo album. E un ritorno alla massima potenzialità del progetto Moderat (che poi si dispiega al centodieci per cento dal vivo: ricordiamo che ci sono già tre date fissate in Italia, giugno Roma, agosto Puglia, novembre Milano). Massima potenzialità che, sull’onda del travolgente successo nato lungo un decennio nato dall’LP d’esordio, non era stata più realmente toccata pur facendo ottima musica, musica importante.