Allora. Sono tornati. Oddio, per certi versi è come se non fossero mai andati via: tra le infinite, ripetute tournée trionfali col sodale Apparat nel celebratissimo progetto Moderat, tra le sortite con Siriusmo nel divertissement congiunto Siriusmodeselektor, tra le varie date in dj set, l’impressione è che Gernot Bronsert e Sebastian Szary non si siano fermati nemmeno per un attimo. Poi però uno ci pensa, riflette, e scopre che l’ultimo album ufficiale a nome Modeselektor risale a nove (nove!) anni fa; scopre anche che c’è stato un momento in cui i veri trionfatori della nuova scena techno sembravano loro, poi però non hanno mai affondato realmente il colpo in tal senso perché nel frattempo Moderat era diventata una cosa gigantesca, da mainstream, e insomma si sono concentrati su quello. Ecco che quindi il ritorno con un album, “Who Else”, e con un vero e proprio tour progettato insieme agli inseparabili Pfadfinderei (dopo averli visti a Milano a marzo, tornano nel contesto grandioso del Kappa FuturFestival a luglio a Torino), diventa un evento da circoletto rosso. Ne abbiamo parlato un po’ con Gernot, il più chiacchierone del duo, sviscerando il perché “Who Else” suoni come suona (essenziale, duro, crudo, breve) e anche come l’anello di congiunzione tra l’EDM ed Amelie Lens non sia per forza un male, anzi.
Gernot, ho ascoltato per bene “Who Else” mi sembra che qua la faccenda sia diventata molto più scura…
Mmmmh, pensi?
Sì, sì. Per dire, mi pare molto più scuro del suo predecessore, di “Monkeytown”, come album…
Potrei dirti: eh, è scuro per forza, visto che viviamo in tempi oscuri. Sarebbe facile, no? Un bel modo per fare bella figura. Però ecco, “scuro” non è il primo aggettivo che userei, per questo disco; semmai userei “adulto”. Sai, abbiamo imparato, col tempo e con l’esperienza, che non è necessario tirare fuori fuochi d’artificio ed effetti speciali ogni sedici battute. Ora lo facciano pure gli altri – e infatti molti lo fanno. Di sicuro comunque “Who Else” è un disco molto speciale perché è il primo che abbiamo fatto lavorando sul serio insieme, io e Szary, messi in un’unica stanza. Prima era tutto un via vai di file, su, giù, ognuno lavorava sul suo, poi lo spediva all’altro, che ci rilavorava e lo rispediva… stavolta no. Stavolta ci siamo messi lì, seduti, insieme, stesso posto, e siamo partiti da zero. In più, e credo che questo sia abbastanza evidente, è un album che è stato completato in un’unica sessione, siamo partiti e lavorare e non ci siamo fermati fino a quando abbiamo chiuso tutto. Quindi molto compatto, il tutto. Ma, scuro? Dici? Non so, non so. Però quello che accennavo prima, un po’ scherzando, è in realtà verissimo: viviamo in tempi oscuri davvero. La politica fa schifo. Il mondo è sempre più un brutto posto. Populismo. Arroganza. Trump. Putin. E ti dirò, mi pare che pure voi in Italia non siate messi benissimo, sbaglio? Ogni tanto ti guardi attorno e ti dici “Ma sta succedendo veramente? O sto vivendo dentro un film?”, questa è la sensazione. Con una situazione così tu puoi anche stare bello isolato nel tuo studio personale tutto contento ma, se hai un minimo di sensibilità ed attitudine verso un certo tipo di cose, non puoi pensare solo a tirare fuori atmosfere da festa. Sì: in effetti credo che anche inconsciamente questo disco sia un po’ imbevuto dello Zeitgeist contemporaneo. Uno Zeitgeist, il nostro, in cui appare quasi normale che ci siano uomini, tipo il padrone di Amazon, che solo se lo volesse potrebbe lui da solo coi suoi avere risolvere il problema della fame nel mondo e anzi, gli resterebbe pure ancora un bel gruzzolo da parte. Ma non lo fa. E nessuno gli dice niente.
Allora ti faccio una domanda secca, visto che ci siamo avventurati in questi territori: la musica dance è una musica “politica”, per sua natura? Lo è? Può esserlo?
La musica dance non è mai stata “politica”. Io credo che l’unica musica elettronica realmente “politica” sia stata quella che un tempo chiamavamo industrial, Einstürzende Neubauten, Throbbing Gristle, quella gente lì – tutti coloro insomma che utilizzavano strumenti e modalità inusuali per essere programmaticamente alternativi, antagonisti, per contestare quello che era il sapore e l’universo di riferimento del mainstream. Del resto una musica del genere è figlia degli anni ’60 e ’70, poi anche degli anni ’80, ovvero di decenni pieni di cambiamenti politici e sociali. Oggi? Oggi, siamo sazi. Satolli. Nel nostro mondo occidentale, praticamente tutti hanno da mangiare, no? Tutti hanno uno smartphone, tutti o quasi spendono più tempo su Instragram che con le persone che amano. Probabilmente è per questo motivo che “Who Else” ci è venuto fuori così duro: non siamo entusiasti di come vanno le cose nel mondo, quindi la nostra musica fa fatica ad essere una celebrazione colorata ed euforica. In più, quando produciamo – ed è così da sempre – non la facciamo mai per essere parte di un sistema, di un’industria. Mai. Pensaci: col nome che ci siamo fatti nel tempo, potevamo fare un bel disco tech-house, prenderci la nostra residenza ad Ibiza, diventare una potenza: chi ce lo impediva? Ma noi non siamo questo. Noi arriviamo da Berlino. Dall’underground di Berlino. E il nostro progetto è nato quando la componente “politica” era molto forte ancora nella scena musicale cittadina: oggi magari le cose sono cambiate rispetto allora, ma certe radici comunque non possono che affiorare sempre in quello che facciamo.
Vorrei tornare un attimo su “Monekytown”. Anche perché è l’album che vi ha consacrato definitivamente, è il tour che lo ha seguito ad avervi dato ad un certo punto lo status di superstar e non più semplici interessanti promesse, ricordo ad esempio delle trionfali esibizioni al Sónar. Riascoltato con l’orecchio di oggi, che album è?
Di sicuro non la cosa migliore che abbiamo fatto o che potessimo fare. Non mi fa piacere riascoltarlo.
Ah ma dai. Perché? Come mai dici questo?
Non è un disco compatto, coerente nelle sue parti. E’ una collezione di tracce. Sembra più una compilation. Sai cosa: penso che nel farlo, all’epoca, avessimo prima di tutto la dannata esigenza di liberarci dell’etichetta-Moderat. Abbiamo iniziato a lavorare a “Monkeytown” dopo due anni di tour come Moderat, la cosa ci era finita un po’ fuori controllo e stavamo perdendo la nostra identità come Modeselektor, sentivamo che stava sbiadendo per non dire scomparendo, sia per gli altri che per noi stessi. Quindi “Monkeytown” è stato investito dall’urgenza di dire parecchie cose, dirle subito, e soprattutto dirle mettendo in chiaro Modeselektor è qualcosa di molto, molto diverso da Moderat. Ma questa ansia non sempre ci ha fatto un buon servizio. E lì non ce l’ha fatto. Abbiamo anche fatto troppe tracce, un errore commesso anche nei nostri album precedenti: mai meno di una dozzina, fino ad averne quasi venti… troppe, troppe! Con “Who Else” abbiamo capito che aggiungendo tracce su tracce non per forza il disco diventa migliore, anzi. Ecco quindi che ne ha solo otto, questo disco che esce ora. Una inversione di tendenza.
Che poi, se è stato difficile ai tempi di “Monkeytown” affrancarsi dall’etichetta-Moderat, in teoria ora deve essere stato ancora più complesso, no? Perché il primo album di Moderat, quello che precedeva appunto il “Monkeytown” a nome Modeselektor, era stato un sorprendente successo, ok, ma sono i due album che sono arrivati dopo che, quelli sì, che hanno consacrato Moderat come un act di enorme successo planetario, lambendo anche il vero e proprio mainstream, anzi, finendoci spesso ben dentro. Sotto questo punto di vista, in ottica Modeselektor un successo così strepitoso e straripante di Moderat può essere stato quasi più una maledizione che una benedizione.
E’ stata una benedizione e basta, invece. Sai perché?
Dimmi. Convincimi.
Perché appunto eravamo già passati dall’esperienza-“Monkeytown”: superata quella, sapevamo come gestire questa ansia di dimostrare la differenza tra Modeselektor e Moderat. Eravamo molto più serafici sulla questione. E non abbiamo fatto gli stessi errori: stavolta, non abbiamo lavorato con l’ansia di dimostrare tutto, subito, troppo. Abbiamo capito che era poco efficace, controproducente. A questo, aggiungi che un successo come quello vissuto con Moderat ti permette poi di prenderti i tuoi tempi, le tue libertà, di essere meno schiavo delle scadenze e della richiesta altrui: quindi sì, il successo come Moderat è stato una benedizione, stop. Abbiamo lavorato tranquilli, non abbiamo tirato la corda su niente, ci siamo concentrati a fare un disco compatto, coese, non troppo lungo: perché crediamo fermamente che l’album migliore è quello di cui ti ricordi ogni singola traccia, dall’inizio alla fine. “Who Else” dura solo 34 minuti. Per una scelta precisa. Ce la puoi fare a ricordartelo tutto, visto che dura poco più di mezz’ora, sì dai, ce la puoi fare (risate, NdI)…
(ce la fate a ricordarvelo tutto, dalla prima all’ultima traccia? Continua sotto)
Uh, credete ancora nel formato album? Che romantici.
Ma no, non è romanticismo. Il formato album è semplicemente una forma d’arte. Come suonare in vinile. O indossare delle scarpe fatte a mano. E’ uno stile, insomma. Una scelta estetica. Se sei una rap star americana o anche europea, fai un singolo dietro l’altro e mai un album per un motivo ben preciso: sai di avere un pubblico di ragazzini, un pubblico insomma dall’attenzione molto volatile e volubile, quindi devi continuamente catturare la loro attenzione sparando una release dietro l’altra, se ti fermi un attimo sei fottuto – chiaro che in queste condizioni non ci pensi proprio a fermarti e raccogliere le idee per lavorare solo ed unicamente al formato album. Va bene. Ma la musica si merita tutto questo? Merita un approccio di questo tipo? La risposta non la so e non la voglio dare, ma di sicuro il dato di fatto è che noi siamo cresciuti quando c’erano ancora le band, e quando le band facevano gli album. Album capaci di durare nel tempo, quando venivano fuori particolarmente bene. Ora, ci sono due modi per durare parecchio nel tempo: o fare una hit fantasmagorica, o fare degli album consistenti. Noi, come Modeselektor, non siamo gente da hit. Quindi…
Ma in tutti questi anni, come sono cambiate le dinamiche del dancefloor?
Cambiano sempre, queste dinamiche, ma non cambiano mai in modo rivoluzionario. Si va per piccoli aggiustamenti, corsi e ricorsi. Oggi la cosa che trovo interessante è che non si ha più paura di tornare a suonare molto veloce. A me piace un sacco tutto ciò. Anche perché quando ero ragazzino, che girava tanta house, ok, bella, figa, ma dopo un po’ finiva con l’annoiarmi. Oggi si suona parecchia techno: alcuna di questa è troppo secca e scura, ma altre volte è buona davvero. E quando la techno è buona, resta la cosa che preferisco di più. Anzi, fammi aggiungere: resta anche la cosa che dura meglio nel tempo. La techno non finirà mai: è una musica semplice, arcaica, essenziale. Si tornerà sempre da lei.
Beh, a proposito di musica che sembrava trionfare su tutto poi all’improvviso si parla già di declino e sparizione: dell’EDM cosa mi dici? Ci ha lasciato in realtà qualche cosa di interessante, a livello di suoni o di attitudine, qualcosa che insomma che potrebbe durare nel tempo?
Di sicuro, credo abbia il merito di aver avvicinato per la prima volta alla musica elettronica molti ragazzi. Ragazzi che magari oggi amano Amelie Lens e Charlotte De Witte, e in genere la techno veloce che piace pure a me. Tipo che li ritrovi che ascoltano la musica di venticinque anni fa, nemmeno troppo riattualizzata. Insomma, robe da revival. Ormai si va molto avanti a colpi di revival. Io aspettavo ardentemente quello dei primi anni ’90 e quando finalmente è arrivato, beh, è stato decisamente figo. Però c’è una differenza di fondo: io e Szary, che negli anni ’90 c’eravamo davvero, eravamo degli ascoltatori onnivori, ascoltavamo di tutto, eravamo mentalmente molto aperti e curiosi. Oggi è ancora così?
Domanda aperta?
Domanda aperta.
Ma invece: avete mai avuto paura che vi sareste incagliati, che “Who Else” alla fine non sarebbe mai venuto fuori, che insomma arrivasse anche per voi il “blocco del producer” che ha preso tantissimi artisti legati alla dance elettronica techno e house?
Mai. Per un motivo ben preciso: quando invecchi, e accumuli più esperienza, impari ad avere delle posizioni molto meno rigide o dogmatiche e molto più pratiche, pragmatiche. Ti concentri su quello che conta. Ti concentri su quello che fa accadere le cose davvero. Anche perché avverti una sensazione che prima, da ragazzino, non sentivi: la responsabilità. La responsabilità di dover fare, produrre, senza perdere tempo a cazzeggiare all’infinito. Vedi, una consapevolezza molto importante che abbiamo fatto nostra col passare degli anni è che le idee, in certi casi, puoi anche lasciarle morire, se vedi che non ti stanno portando subito a destinazione. In più, in questa nostra nuova saggezza, abbiamo anche imparato a rilassarci davvero mentalmente: a non porci cioè quel tipo di domande e di dubbi che alla prova dei fatti non ti aiutano a completare ciò che vorresti portare a termine e non solo – a dirla tutta, manco ti aiutano ad essere più creativo. Cerchiamo poi di non imporci delle deadline, e questo ci fa tornare indietro a quello che ti dicevo sul successo di Moderat: è stata una benedizione, ha ridotto drasticamente la necessità di essere schiavi di deadline e ci ha regalato il lusso di poter decidere noi la nostra agenda. Il successo di Moderat non ha ingabbiato Modeselektor come anni fa temevamo potesse succedere, anzi, li ha liberati.
Quanta differenza c’è tra un live e un dj set, nel vostro caso?
Tanta, tanta. Per il live che stiamo portando in giro adesso, siamo rimasti almeno due settimana a casa a fare prove di ogni genere. Quando fai il dj, non devi aver preparato nulla, puoi prendere tutte le decisioni del mondo in tempo reale, puoi seguire solo il tuo istinto… e puoi pure bere un sacco in console; col live, nulla di tutto questo. Quando c’è un live di mezzo, devi essere super-focalizzato su quello che stai facendo: perché c’è un intero, complesso concept audio-video da seguire, non puoi sgarrare su nulla, anche perché poi a questo giro il nostro show è tecnologicamente sofisticato come non mai. L’impegno che richiede oggi questo nuovo live set dei Modeselektor è pari a quello che richiede un live set dei Moderat, giusto in una versione più essenziale e tirata. D’altro canto essenziale e bello teso è il nostro disco: less is more, si dice così, no?
C’è qualcosa che rimpiangete, se ti guardi indietro a tutti questi anni?
Non esattamente. Una cosa c’è, a dirla tutta: tempo fa ci chiesero di produrre una traccia per un gruppo hip hop tedesco molto famoso, una traccia diventata poi di grande successo. Al momento di farla uscire ci chiesero “Ok, volete essere citati nel titolo come featuring ufficiale?” e noi “Massì, dai, va bene”. Che errore: il risultato concreto è che visto che questa traccia ha un sacco di successo, compare spessissimo nelle playlist automatiche di Spotify a tema Moderat – peccato che non c’entri praticamente nulla con la nostra identità musicale. Oh, la prossima volta che ci chiedono una cosa del genere risponderemo “No, no, vai tranquillo, tu caccia i soldi, poi il nostro nome evita pure di metterlo…”.
Ma siete mai stati tentati di fare da produttore per qualcuno?
Per certi versi lo abbiamo già fatto: nelle label che abbiamo avuto negli anni, spesso avevamo un po’ un ruolo da produttori occulti. Pensa a Benjamin Damage, che è stato con noi fino a quando non si è esaurita l’esperienza di 50 Weapons, quindi fino a quattro anni fa: da lì in poi mi pare che lui abbia fatto solo due release, quindi insomma mi piace pensare che finché eravamo un po’ i suoi discografici lo pungolassimo nel modo giusto ad essere prolifico, visto il grande talento che ha. Ma fare proprio da produttori ufficiali per qualcuno, qualcuno che non rientra in qualche nostra etichetta… no. Non penso, sai. Ma per un motivo molto semplice: non ne abbiamo al momento il tempo. Riusciamo giusto a fare delle collaborazioni estemporanee qua e là, fare il produttore artistico invece è un lavoro molto più impegnativo e complesso. Per dirti: a me piacerebbe molto fare colonne sonore. Ok? Bene: un giorno ci contatta la produzione di “Black Mirror” chiedendoci di curare la colonna sonora. Mica male. Peccato però che la scelta, visti i tempi, era secca: curare la colonna sonora di “Black Mirror”, o confezionare finalmente il nuovo album dei Modeselektor? Abbiamo scelto l’album.
Non credo sia stata una cattiva scelta.
Già, nemmeno io.
(foto di Birgit Kaulfuss)