É ancora accettabile essere un personaggio naïf nel 2017? Il fascino androgino, la timidezza che a volte sembra schiacciarti, il silenzio intorno come necessità e un nuovo importantissimo lavoro – “Higher Living”, in uscita il 26 gennaio – che abbiamo avuto il piacere di ascoltare solo dopo questa intervista. Conoscere L I M, perdersi nei suoi racconti e nelle sue risate, è un’esperienza davvero appagante. Quasi quanto bere una tazza di ottimo tè. Per capirlo, dovete percorrere questa lunga, bella chiacchierata.
Abitando nella stessa città mi capita di incrociarti praticamente a tutti i live a cui partecipo: ti ho visto ad Arca e in mille altri posti. Mi sembra tu abbia un rapporto con la musica di grande intensità ed attenzione, mi è piaciuto tantissimo vederti spesso in giro ad ascoltare…
Vado alle cose che mi piacciono. Mi piace ascoltare i live, non facendolo si perde un po’ il contatto. Molte idee vengono proprio guardando i live degli altri. Uno dei live più belli che ho visto nell’ultimo periodo ad esempio è stato quello di Caterina Barbieri, è incredibile, dovresti vederlo. Guardando i live degli altri davvero nascono molte idee.
Se andiamo a rivedere i tuoi concerti in giro, si nota come passi da aprire per Bonobo o per Sohn a condividere il palco con Vaghe Stelle; ma non sembra la classica scelta di aprire più live possibile tanto per farsi un nome, quanto la reale intenzione di portare la tua musica ad un pubblico magari diverso, ma che pur sempre di musica elettronica si ciba.
Intanto sono tutti artisti che ascolto molto, magari Bonobo un filo meno degli altri, ma comunque è musica che ascolto molto. Anche tornando alla domanda precedente, quando mi propongono di aprire un artista rispondo sempre: “Benissimo, non vedo l’ora!, probabilmente sarei andata a vederlo comunque“. In effetti è vero, il pubblico è molto ricettivo nei confronti della mia musica, mi serve fare queste date.
Anche perché in tutti questi live comunque sei sempre riuscita a rapire tutti, ne ho visti alcuni ed ho sempre visto un pubblico attento. Erano tutti fermi a vedere questa ragazzetta eterea, un po’ scricciolo, dominare il palco.
Considera che con il nuovo live ho aggiunto anche un batterista che si occupa del beat principale e dei colori dei pezzi. Ecco, i colori mi piacciono molto.
Riesci a portare questa tuo essere eterea sul palco con semplicità, o pensi ti manchi ancora qualcosa? Ad esempio, l’anno scorso con Sohn notavo che è come se avessi un velo, che togli e metti a tuo piacimento.
Nel prossimo disco secondo me vedrai che questo velo l’ho tolto. È un po’ matto il prossimo disco, è meno nello spazio ed appunto etereo… meno nella luce e più crudo.
Ci hai mica messo i pestoni? Non mi stupirei.
No per ora no, però potrei. Acid? Mi piace l’acid, potrei! In realtà l’altro giorno guardavo i lavori che ho fatto al di fuori da L I M, cose che ho fatto per uno studio e sono tutti ambient, potrei in effetti fare dell’acid (ride, NdI).
C’è nella tua musica questo forte contrasto, quasi battagliero, tra ambient e un suono più movimentato…
Sì chiaro, anche perché comunque nel mio suono c’è anche Riva, che i suoi ritmi li mette.
Quanto è importante Riva nel tuo processo di creazione?
Importantissimo, perché ha questa lettura dei pezzi che scrivo che è incredibile. Io li riascolto dopo che ci ha lavorato e mi sorprendo perché penso: “Ok è ancora il mio pezzo”, ma è come se avesse preso un’altra vita.
Vi trovate subito? Chi fa da freno all’altro?
Io tolgo! In realtà metto, metto, metto, e poi vado a togliere.
Mi dicevi che è un disco matto. Come sono nate le nuove tracce?
E’ un disco particolare, pieno di dentro e fuori, con intro e intermezzi. Te l’ho detto: è pazzo. Di solito io scrivo parole e metto dei “suonini” principali, che poi spesso mi porto dietro anche nella stesura finale del pezzo; poi passo a Riva che interviene sulla struttura e sul vestito vero e proprio.
Parole o musica prima?
Musica sempre, e suoni con la voce. Le parole in realtà arrivano poco dopo. In questo disco, poi, più che parole sono dei mantra.
Se non ricordo male, devo aver letto che anche i Verdena hanno questo processo di scrittura dei testi: partivano da dei versi fatti con la voce, per poi riportarli prima ad un testo in inglese e poi in italiano. Loro, e credo anche altri gruppi italiani.
Sì, perché se ci pensi l’inglese si presta tantissimo ad assomigliare a suoni e a sonorità vocali a cui siamo abituati. In realtà però, per quanto mi riguarda, già nella prima stesura ci sono sempre parole che rimangono poi anche nella versione finale, parole che poi diventano di fatto la chiave del testo.
Mi ha incuriosito molto il discorso del togliere e di ridurre il tutto ad una presenza essenziale: guardando il tuo Instagram e conoscendoti più o meno di vista, mi sembra sia un qualcosa che poi si riflette anche nella tua vita di tutti i giorni, no?
Vero, verissimo è proprio così. Il prossimo disco si chiama “Higher Living” e riflette molto il mio stile di vita. Adesso vivo in una casa al quarto piano, il più alto che ho trovato rispetto a dove vivevo prima. Ero ad un piano più basso ed affacciata su una strada trafficatissima. Ho cercato una casa su un piano alto proprio per allontanarmi il più possibile dal rumore e dal casino. Credo che il titolo dell’EP abbia anche a che fare con questo.
Mi sembri in effetti una persona che ha davvero bisogno di silenzio. Come convive questa necessità con il fatto di fare musica?
Verissimo, ma anche di più: siamo ai limiti della follia! Considera che al di là di quando sono nella stanza che uso come studio dove scrivo, nel resto della casa regna il silenzio assoluto. La vivo come necessità.
Non proprio facile in una città come Milano e, in generale, in un mondo che vive in maniera frenetica…
Infatti faccio un’enorme fatica. Se ho scritto “Rushing Guy” è perché davvero tutto viaggia molto più veloce di me. Io sono lenta. Non so se sia realmente un pregio o un difetto. E poi in realtà… guarda, per fare l’EP io credo di essere stata lentissima, mentre tutti mi dicono che in realtà ci ho messo pochissimo.
Ti ritieni perfezionista? Quante volte ti capita di prendere e cancellare tutto? Del resto il tipo di musica che fai forse richiede un piglio di questo tipo…
Sì, lo credo anche io. Credo di essere molto perfezionista, mi capita in effetti di prendere, scrivere, arrivare alla fine e poi nemmeno salvare dicendo: “Ok ciao, non andava”.
Immagino il processo di riascolto del giorno dopo…
Ah quello è bellissimo! A fine giornata chiudo con mille dubbi; il giorno dopo magari riascolto e dico “Non fa schifo, dai”, magari il giorno dopo ancora mi ci rimetto e penso “Ecco ho capito cosa devo fare”.
Così hai una gestazione lunghissima però.
Io non penso di riuscire a fare un pezzo senza che sia un qualcosa che posso riascoltare nel tempo con le stesse sensazioni di piacere. Se riascolto “Comet” ad esempio penso ancora: “Ma davvero? L’ho fatto io?“. Però credimi, se una traccia è bella lo si capisce subito.
Guardando indietro alla tua esperienza con Iori’s Eyes, mi sembra tu abbia trovato il tuo equilibrio con L I M.
Io faccio questo perché mi piace, sai… Non saprei cos’altro fare, anche se non so se si possa trovare l’equilibrio con un progetto musicale. Secondo me è un flusso: ogni tot capisco che mi sto spostando da un altra parte.
Nel comunicato che ti accompagna ti definisci “lesbian singer”. Perché hai voluto specificare così bene la tua sessualità?
L’abbiamo inserito perché erano uscite delle cose riguardo “Rushing Guy” su Out Magazine, che è questo giornale gay, molto molto gay, e lì avevano scritto “lesbian singer”. In realtà non ho mai avuto bisogno di dover specificare il fatto che fossi lesbica perché credo che rispetto alla mia musica sia l’ultima cosa a cui pensare – nel senso che non sento la necessità di dover affermare attraverso la mia musica la mia sessualità, non è nemmeno musica politica. Credo però identifichi me come persona, allora a quel punto ho detto: “Lasciamolo, perché no”.
Fare musica in Italia è complicatissimo, a meno che non si abbiano alle spalle famiglie che ti possano sostenere ad oltranza. E’ tutto talmente difficile che chi ci riesce, a fare della musica la sua vita, se lo merita, perché davvero è una conquista sudata
Quanto entra di te stessa nella tua musica e nelle immagini che accompagnano i tuoi live e quanto, giocoforza, viene lasciato fuori per una tua precisa scelta, o perché semplicemente non ti va?
Nelle immagini c’è tantissimo di me, come c’è tanto, tantissimo lavoro di altre persone che con la mia immagine giocano: ma a me va bene, mi diverte, nella musica credo di mettere altrettanto. Diciamo però che c’è il succo, ecco. Non sono una grande oratrice, non porto avanti discorsi politici o un linguaggio specifico, credo sia più un discorso di suoni che raccontano uno stato d’animo.
Pensi mai che per il tipo di musica, per il tipo di approccio che hai tu nel farla, essere in Italia sia un limite? Fossi stata scozzese, ad esempio, avresti potuto aprirti ad altri orizzonti.
Sai che sì, penso fossi stata scozzese come dici tu magari avrei avuto strade più facili, può essere. Crescendo però ho cambiato in parte idea rispetto a questo. L’Italia è frenante, ma questo frenare ha anche una qualità: ti obbliga ad impegnarti moltissimo. Mi spiego meglio: se vai a Londra ti devi impegnare, perché è un posto con un senso della competizione altissimo; qui in Italia invece non siamo in tanti, ma è più difficile. Fare musica qui è complicatissimo, a meno che non si abbiano alle spalle famiglie che ti possano sostenere ad oltranza. E’ tutto talmente difficile che chi ci riesce, a fare della musica la sua vita, se lo merita, perché davvero è una conquista sudata. Se penso di essere arrivata a questa età riuscendo a suonare ancora le mie cose, facendo quello che mi piace e riuscendo a farle sentire alla gente, penso davvero “Beh dai, non male!“.
Quindi non hai mai pensato di andartene?
In realtà no. E’ più un sogno per quando sarò vecchia quello di andare a svecchiare ad Amsterdam, ad esempio. Io sono abitudinaria: la casa, il mio gatto che è anche la ragione della mia vita.
Non ti farò la solita domanda “A chi ti ispiri“…
No dai davvero (ride, NdI), vado sempre in ansia quando mi dicono fai le interviste e penso: “Adesso mi chiederanno a chi ti ispiri…” e rispondo sempre le stesse cose.
Infatti te la faccio più difficile, ti chiedo chi ti fa da specchio nella musica e nell’arte.
É vero, è una domanda molto, molto, molto difficile. Mi hai messo in difficoltà – non so se riesco a rispondere in pochi minuti. Ti racconto una cosa, che forse non c’entra nulla, perché mi hai fatto una domanda troppo seria e temo di incagliarmici dentro: l’altro giorno mi sono ritrovata a dover far spazio a casa dei miei e tra i ricordi ho ritrovato un pezzettino di giornale con una foto di Meg, di cui da piccola ero assolutamente fan. Mi ha fatto strano, perché con L I M mi è capitato di leggere che lei mi metteva tra le sue references. Pensi a questo scambio e ti chiedi: “Ma davvero? Io?”. Stessa cosa con Samuel dei Subsonica, di cui ero altrettanto fan. Sapere che il cantante di una band che hai adorato apprezza il tuo lavoro è una cosa speciale.
Nell’arte invece? Ad esempio io quando guardo i tuoi video penso a Gina Pane e a tutta la body art più organica, forse per questa organicità appunto, per cui hai la sensazione di poter “toccare con mano” una forma di esposizione.
E’ vero, è organico, ha senso ciò che dici, perché se pensi a “Comet” poteva essere intesa quasi come una performance artistica. Nell’arte, avendo fatto l’Accademia di Brera, ci sarebbero mille riferimenti.
Ti è servita Brera per la tua musica?
Tantissimo. Pensa, nemmeno l’ho poi finita, perché dovendo suonare non riuscivo a frequentare. Amo l’arte anche seguendola poco ultimamente, ma è come con il calcio no? Magari lo segui di meno ma se ti piace non esce mai dalla tua vita. Per me è così con l’arte, vivo d’arte alla fine.
Ecco mi spieghi meglio questo concetto di vivere d’arte?
Per me è una questione di stimoli, ti capita quando pensi “Che noia la vita quotidiana, la routine…” e ti butti allora in una mostra d’arte o qualcosa del genere. Sono questi stimoli che dai alla tua mente, consentendole di aprirsi ancor di più, ciò che intendo per “viver d’arte”. Ad esempio, sarà per il titolo del disco, ma ultimamente sono attratta dalle parti più alte della città. Se ci pensi, il nostro sguardo è spesso puntato in una visuale che al massimo arriva al primo piano delle case. Ultimamente, mi capita invece spesso di alzare questo sguardo e vedere cose incredibili. L’interesse per l’arte è una cosa che mi porto dietro sin da piccola, anche in maniera forse un po’ nerd. Il mio corso all’Accademia era comunque quello sulle nuove tecnologie, sai: video, sistemi interattivi, multimedia, ma questo trip ce l’avevo già dal liceo.
Ti vedevi già L I M o comunque musicista e cantante al liceo?
Si! Canto da quando avevo dieci anni e comunque ho frequentato il liceo ad indirizzo musicale, per cui diciamo che più che vedermi me la sono proprio creata l’idea di essere una musicista.
Che palchi sognavi al liceo? Secondo me se uno sogna di essere musicista sogna anche dei luoghi dove esibirsi o dove cantare, no?
Sin da piccola non è mai stata quella la dimensione dei miei sogni: non ho mai sognato un palco dove esibirmi, sognavo più di fare la musica che volevo fare io. E’ stato poi con gli Iori’s che ho capito l’importanza e la bellezza di fare un live.
A che punto sei del tuo percorso ora?
Come sempre quando funzionano le cose entro in crisi. Quindi adesso vorrei ripensare il live in una maniera ancora più folle, facendo in modo che segua il disco. Mi hanno detto che comunico molto male con il pubblico, a mio modo facendo anche ridere: pensa, una volta credo di aver addirittura chiesto che ore sono.
Secondo me è per la storia del fascino androgino che hai, per cui magari uno ha paura di avvicinarsi e mantiene un certo distacco.
Sono timida ed è questo il motivo per cui a trent’anni mi sono ritrovata a cantare sul palco, perché se ci pensi facendolo da quando sono piccola ci ho messo un po’ ad arrivarci.
E’ un pregio o un difetto essere timidi nel 2017?
Per me è un difetto, è raro ma è un difetto… Non sono timida, ma sono timida, capisci vero?
La cosa bella di questa intervista è che alla fine del disco – in uscita a fine gennaio – abbiamo parlato pochissimo, anche perché io il disco non l’ho ancora ascoltato. Allora influenzami, raccontami qualcosa per invogliarmi ad ascoltarlo… Cosa troverò in “Higher Living” che non ho trovato in “Comet”? E cosa, al contrario, troverò che si riallaccerà al precedente?
Se “Comet” era una fase esistenzialista, cosmica, tipo “Forze dell’universo impossibili da raccontare, epico, gigante” ora “Higher Living” ha la dimensione di una tazza da tè del tipo “Ok, pausa, relax”. È un disco di riflessione e tranquillità, un’oasi giapponese dove cose cosmiche e schiaccianti rimangono fuori. Ti racconto una cosa: lo scopo di “Comet” era quello di fare un disco e poi basta, proprio come una cometa. Poi ho pensato: “Ok proseguiamo“.
Ti butti in una tazza da tè perché ti sei accorta che il cielo fa paura? C’è un po’ di agorafobia in tutto questo?
Sì, esattamente, è agorafobia. Oltre alla paura di affrontare cose più grandi di me.