E’ possibile recuperare una dimensione diversa dell’ascolto e della fruizione? Non solo è possibile, ma è necessario. Facciamo un passo indietro. C’è stato un momento in cui l’idea di “sala chill out” (fisica o anche solo virtuale) era strettamente collegato all’esperienza musica elettronica. Gli ORB sono diventati delle star, ma negli anni ’90 poteva capitare di celebrare Pete Namlook tanto quanto Sven Väth. La cosa è andata via via sfarinandosi, rendendo sempre più secondaria e relegata a pochi amatori la faccenda della musica-tranquilla-per-rilassarsi-e-viaggiare-col-pensiero. “Amen, le cose vanno sempre a cicli”, ci siamo detti. “Tornerà”.
Ed in effetti, questo è successo. L’ambient è tornata: non nella forma giocosa, eterea, psichedelica, ma in quella più cupa, piena di pressione emotiva, del ceppo industrial e (post) new wave o (post) punk, con una robusta inezione di dosi di noise (l’estremo opposto, musicalmente parlando: ma come sempre succede, gli estremi si toccano e hanno molto in comune, quindi ok, la cosa ci stava eccome). Il problema è che questo ritorno di moda dell’ambient fra i clubber è stato trattato più come un accessorio fashionista che come un’esigenza musicale e fisica: ad un certo punto avevi la sconfortante sensazione che ascoltare (o dire di ascoltare…) certe cose faceva figo esattamente come vestirsi tutti di nero e tornare ad ascoltare tutti la techno di matrice Sandwell District. Un berghainismo vero e proprio, deteriore come tutti gli –ismi, e sbagliato fin nella radice visto che comunque la purezza d’intenti negli artisti c’era e c’è (e pure nei reali cultori dell’ircocervo ambient-noise non è mai mancata, non è che ascolti certe cose sei automaticamente uno che segue le mode).
Qual è il rischio ad ogni modo di questa deriva? Il rischio è che si torni a considerare l’esperienza ambient come qualcosa di museale, da galleria d’arte contemporanea o, peggio ancora, da tappezzeria sonora (o da pochi fissati). Sarebbe un modo perfetto per sterilizzare il genere: perché questo genere musicale ha assolutamente bisogno dell’energie, della voglia e pure del numero delle persone per cui l’elettronica è (anche) una faccenda da ballare. Poi appunto, le cose possono andare male: quando le persone di cui sopra di avvicinano a qualcosa per moda o per coolness, non per convinzione.
Eppure l’esperienza di un set ambient è qualcosa di bellissimo. Non dovrebbe esserci bisogno di mode per ricordarlo a chi si nutre di Dettmann o Parrish o Palms Trax o Vatican Shadow o Villalobos o [inserite altri nomi a piacere]. Abbiamo avuto modo di ri-rendercene conto, recentemente, grazie a due eventi: un live molto speciale da un lato, l’uscita di un disco dall’altro.
Il live molto speciale si è svolto a Venezia. “Molto speciale” perché già Venezia è magica di per sé, appena esci dalle solite vie e dalle colonne di turisti mordi-e-fuggi in transumanza verso San Marco; se a questo aggiunti che la venue è stata Palazzo Grassi, in uno dei rari momenti in cui è utilizzabile tra il disallestimento di una mostra e l’allestimento di quella successiva, fai davvero centro. Ritrovarsi ad ascoltare musica nel grande chiostro centrale interno, circondati da colonnati e giochi di luce (e sullo sfondo, guardando verso uno dei lati, il luccichio del Canal Grande) è una di quelle esperienze che resta.
(Monolake in azione; continua sotto)
Ma “molto speciale” era anche l’oggetto artistico in sé. Su Monolake non dovrebbe esserci bisogno di dilungarsi, è uno dei personaggi più incredibili e fondamentali negli ultimi tre decenni di musica elettronica, e se non lo sapete, beh, sapevatelo. Corte Supernova, uno spazio particolare dedito a creare delle residenze d’artista nella città lagunare, ha avuto l’idea di invitarlo dandogli la possibilità di lavorare per giorni in santa pace attorno alla sua musica, facendosi ispirare dalla città. “Una delle persone che ha dato vita allo spazio di Corte Supernova era mica amica da tempo, l’invito a diventare un artista-in-residenza nasce da lei. Ho subito accettato. Prima ancora di sapere cosa avrei voluto fare lì. In realtà l’idea di rilavorare su ‘Dust’ è arrivata abbastanza a ruota. SI tratta fondamentalmente di una mia personale ‘collezione di suoni’ riordinata per arrivare ad essere un corpo sonoro coeso, anzi, a me piace parlare di ‘profumo di suono’. Un’opera che per un po’ avevo portato in giro, poi avevo smesso, poi ripreso: non riuscivo mai a darle una veste definitiva. Togli, aggiungi, ritogli, rimetti… Poi l’anno scorso sono stato invitato ad eseguirla in un teatro e, beh, ero rimasto così contento che mi ero detto ‘No, devo assolutamente darle una veste definitiva’. Ci è voluto poco per capire che Venezia aveva tutte le carte in regola per essere il posto giusto dove portare a compimento questa intenzione. Io amo le sottigliezze. E sono molto influenzato dall’ambiente – motivo per cui tra l’altro per me è impossibile comporre in hotel anonimi o hall aeroportuali. Quindi ecco, ritrovarmi in un posto come Corte Supernova, fuori dagli itinerari turistici veneziani, è stato fantastico. Farlo d’inverno ancora di più, perché adoro il freddo se si tratta di lavorare: mi aiuta a concentrarmi su quello che faccio. Sono veramente grato a Palazzo Grassi e Corte Supernova per questa esperienza, perché per dieci giorni ho potuto concentrarmi solo su ‘Dust’. A Berlino sarebbe stato semplicemente impossibile: il lavoro, le varie cose da portare avanti in contemporanea… Qui invece avevo la scusa perfetta per darmi non raggiungibile”.
Il risultato è stato decisamente all’altezza. “Una cosa è sicura: non volevo fare una cartolina di Venezia. Non volevo fare nulla di didascalico. Sì, ho raccolto suoni in giro per la città: Venezia in questo è unica. Ha dei suoni che nessun altro posto ha. Magari un elemento di disturbo alla fine si sono rivelati i gabbiani coi loro versi: ho provato ad incorporarli, ma mi veniva sempre da trattare molto elettronicamente i loro versi fino a non farli sembrare più dei veri gabbiani… ma allora a che pro tenerli? Di sicuro ho evitato le voci umane. Non mi piacciono, nella mia musica. Non so dirti perché. Oddio, un’idea ce l’ho: a me piace molto lasciare spazio all’interpretazione, se uno vuole fruire della musica che creo, e le voci umane sono un’entità molto forte, precisa, definita, che a questa ‘libera interpretazione’ ruba inevitabilmente parecchio spazio”.
Visto che Monolake non fa mai cose banali, ha disposto – con la collaborazione dei partner tecnici BH e d&B audiotechnik – in maniera circolare l’impianto, credo un perfetto effetto surround (assolutamente fondamentale per “respirare” al meglio le sottigliezze produttive di “Dust”, un’opera che è concepita proprio pensando a questo tipo di diffusione sonora). Il risultato è stato incredibilmente “fisico”: sì la bellezza del luogo, sì anche la qualità della musica, ma il fatto che sia stata pensata come “circolare” a livello di emissione sonora ha dato continui brividi di piacere. Non metaforici, proprio reali. E una musica che ha un impatto così “fisico” su di te è una caratteristica fondamentale: è bello quando avviene non per la potenza di decibel, ma per sottigliezze produttive. Ti dona una dimensione in più.
…la dimensione che appunto si rischia di perdere, quando l’ambient diviene fuori moda o mero accessorio d’abbigliamento. E non per forza devi mettere in conto Venezia, Palazzo Grassi, residenze d’artista, Monolake. In queste settimane è uscito un piccolo disco però molto ma molto bello. Frame è la sigla dietro cui si nascondono Eugienio Vatta ed Andrea Benedetti. Di quest’ultimo potete leggere questa monumentale intervista, ma per i più pigri diciamo che è uno dei personaggi fondamentali della parte più nobile e bella di quella “Roma techno” che ad un certo punto era un’autentica eccellenza europea e mondiale, nei primi anni ’90. Lo stesso vale per Vatta, in realtà, seppure in maniera meno diretta ed immediata: non ero uno dei dj sempre in giro e sempre in cartellone, ma nel suo lavoro da ingegnere del suono dietro le quinte ha costruito cattedrali di enorme importanza, a partire dalle release Sounds Never Seen, la label di Lory D. Vatta e Benedetti avevano dato vita a Frame ancora in quegli anni ruggenti, nel 1992, con l’idea di craere una unit sonora in grado di generare colonne sonore cinematiche in tempo reale, lavorando molto sull’idea dello spazio, della rarefazione, del silenzio. Il tutto diffuso in maniera quadrifonica.
Bene: anche se non siete in un cinema o in un museo circondati da fonti sonore, l’ascolto di “The Journey” (che raccoglie anni e anni di lavori, ritoccati e migliorati all’uopo) è un’esperienza fantastica. Ambient al massimo grado di qualità, spesso in grado di comunicare con la classica contemporanea, grazie anche a un uso molto intelligente e raffinato della tecnica del campionamento. L’ambient ogni tanto, qualche volta anche intenzionalmente, tende ad essere un tappeto sonoro: in questo album sono talmente tanti gli stimoli e rimandi che, credeteci, se uno ha un ascolto un minimo attento e a cervello attivo non si annoia mai, senza comunque distrarsi troppo dal “flusso” che porta, di suo, a un sottile stato di alterazione di coscienza. Insomma, nel genere una delle migliori release uscita da anni a questa parte.
(continua sotto)
Recuperatela. Ascoltatela. Ricordatevi che se vi siete avvicinati alla musica elettronica, o se avete iniziato ad amarla veramente, è perché rappresentava qualcosa di diverso, di particolare, qualcosa che superava i confini (di orario, di decibel, di strutture strofa-strofa-ritornello-predeterminate, di fruizione), e in questo tipo di approccio incorporare sempre uno spazio per della musica ambient di qualità nei vostri ascolti è fondamentale. Del resto, i brividi che ci ha donato Monolake con “Dust” a Venezia parlano chiaro, e non hanno cozzato per nulla con ciò che è arrivato dopo, in serata: un bellissimo set di Electric Indigo (una caposcuola: accidenti, quanto è sottovalutata…) che è partita abbastanza destrutturata, per non “cozzare” col viaggio sonoro immersivo precedente, ma in poco tempo ha guadagnato una velocità di crociera tra techno, electro e breakbeat evoluto di elevatissimo valore stilistico ed emozionale, facendo da vero e proprio coronamento del cerchio della serata (iniziata, a dire il vero, con un set di Renick Bell non indimenticabile, per non dire noioso).
Queste sono le cose di cui abbiamo bisogno. Ascolti aperti, mente pronta a viaggiare, niente moda, niente cazzate. E in questo modo pure techno e house e il clubbing in generale tornano ad essere dei mondi migliori.
(le foto sono di Matteo De Fina)